Giugno 1975
Riprendo - come Dio mi concede,
dopo un forzato lungo riposo - il mio posto in linea, col cuore di quando,
feriti in guerra, chiedevamo, nel nostro ardore di ventenni, di anticipare la fine
della convalescenza per tornare a servir la patria in pericolo.
Riprendo mentre il Comunismo - il nemico della patria come della Chiesa - festeggia
la sua avanzata in Italia, allineando a quella del 12 maggio la sua nuova grande
vittoria del 15 giugno.
Grande vittoria per quelli, amaro scacco per noi - dico per i cattolici italiani,
logicamente, coerentemente, come cattolici e come italiani, anticomunisti - reso,
come l'altro, più amaro dal fatto di avervi, come per l'altro, contribuito
e si sa in che misura.
Si sa. Senza negare al polledro sardo e al suo trapelo campano la loro parte nel
trar lo sforzo, la parte principale va riconosciuta ai cattolici, e per essi alla
Gerarchia, che ancora una volta, tacendo e non facendo tacere, lasciando ai traditori
la libertà di subornare i fedeli, ha permesso e agevolato agl'infedeli un
successo che rimette potenzialmente in marcia verso l'Italia e piazza San Pietro
i carri armati sostanti a motore acceso sui confini cecoslovacchi.
Ci duole, e quasi ci vergogniamo, di parlare così, di responsabilità,
ai nostri sacri pastori, di dire, di ripeter loro, come per il 12 maggio: Vous
l'avez voulu... ma la verità impone che si dica: la verità è
che si deve a loro se, ai paschi d'Engaddi e di Saron, troppi, ingannati dai
mercenari, han preferito le lande della Siberia europea o asiatica, rispondendo ancora
no alla voce della coscienza cristiana e italiana, con un'incoscienza nel fare, pari
alla demenza nel valutare i risultati del fatto.
Col 15 giugno il Comunismo montante ha raggiunto infatti, da noi, quasi il livello
di guardia, e noi danziamo, allegri, come i passeggeri del Titanic in procinto di
sprofondare, senza che nessuno intoni almeno la preghiera: chi dovrebbe farlo danza
infatti con gli altri, i preti partecipano alle feste dell'Unità, e i vescovi...
i vescovi, che hanno disprezzato come allarmista chi denunziava l'avvicinarsi dell'iceberg
e suggeriva e gridava di cambiar rotta, onde evitare con l'impatto il disastro...
i vescovi, come si disse e fecero per il divorzio, stanno a guardare.
Era il loro ufficio, guardare: guardare, nel significato pastorale del termine -
Episcopos, colui che guarda, che sorveglia - e lo hanno dimenticato nei riguardi
di ciò che Paolo VI definiva, giova ripetere, «la negazione del Cristianesimo»
e «la più terribile empietà di tutti i tempi»: quel comunismo
«intrinsecamente perverso», che ha, «verso la Chiesa, il proposito
deliberato e la speranza di farla morire».
Disperata speranza, è vero, questa di far morire la Chiesa («Non ci
siamo riusciti noialtri preti!» fu argutamente risposto al superbo che minacciò
già di farlo, e il presente non potrà che dare maggior forza all'argomento),
ma è pur vero ciò che il poeta le cantava nella sua Pentecoste: Tu,
che da tanti secoli soffri, combatti e preghi; - che le tue tende spieghi - dall'uno
all'altro mar... ed è il Comunismo che combattendola, perseguitandola
nei suoi figli, costringendola in tanta parte del mondo a ripiegar nelle catacombe
le proprie tende, ne perpetua ai nostri giorni il soffrire, senza il conforto, in
troppa parte, della solidale preghiera di quelli che ancora e per ora «vivono
in libertà», quando non anche nell'amarezza di vederli solidarizzar
coi loro oppressori.
È un fatto, un'onta nota a chiunque ha orecchi e va in chiesa, ciò
che il cattolico André Martin rilevava scrivendo di un suo degno confratello
russo, Andrej Sacharov: «il rifiuto più o meno velato d'includere quelli
che soffrono per la loro fede entro le Chiese del silenzio, nella preghiera universale
durante la celebrazione eucaristica», A questo «rifiuto», a questa
esclusione della Chiesa che tace dai memento di quella che può ancora parlare,
fa riscontro l'inclusione, più o meno aperta, di «preghiere» con
le quali si vorrebbe metter di mezzo Iddio («Ascoltaci, Signore!») per
la sconfitta di chi, al prezzo della vita, sostiene con la libertà di tutti
ben anche quella di pregare. Politica, Ostpolitik, anche in questo? Sacharov
lo dice, il perché, ed è, in versione italiana, il perché di
don Abbondio, «ne va della vita», pur se riferito alla religione ossia
da intendersi come un «ne va della pace», quella «pace religiosa»
nel cui nome, minacciando la guerra, già si pretese il divorzio: «I
dignitari della Chiesa occidentale conoscono la situazione (nell'Urss). Ma una prudenza,
che è un bene di questo mondo, li induce a stendere un velo su quanto accade
nei paesi dell'Est». A questa «prudenza» («prudentia carnis»,
come l'Apostolo la definisce e con Isaia la riprova: «Prudentiam prudentum
reprobabo»), dobbiamo appunto, dopo il 12 maggio, il 15 giugno: dobbiamo la
libertà lasciata a preti e frati di professare e predicare come verbo di Dio
il «verbo marxista», incuranti, a loro stesso danno, della lezione che
Pio XI deduceva dalla storia: «Se taluni indotti in errore cooperassero alla
vittoria del comunismo nel loro paese, cadranno per primi come vittime del loro errore».
Voi lo avrete voluto, e ne avrete voluto tutte le logiche conseguenze, nei riguardi
dei campanili come delle torri civiche, delle nostre anime come delle nostre persone,
e voglia Dio che da quelli e da queste, umiliati a supporti di bandiere color del
sangue, non venga un giorno la voce che contro un vostro confratello si levò
un giorno dal rogo di Rouen: «Évêque, c'est par toi que je
meurs: vescovo, è per causa tua che io muoio».
So di dire, ripeto, così scrivendo, una cosa grave e non senza sforzo lo faccio,
non senza pena io accuso, rivolgendo a me stesso la domanda che mi sembra di sentirmi
rivolgere: Or tu chi se, che vuoi sedere a scranna? E mi fa sperare nell'indulgenza,
a mio riguardo, il fatto che alcuni degli stessi vescovi si siano implicitamente
accusati, attribuendo il disastro al dilagare del «permissivismo» da
essi favorito, per debolezza, tra i fedeli e specialmente fra il clero.
Indulgenza io improto, comecché sia, dal vescovo di Diocleziana, monsignor
Bugnini, che non a caso e non per poco entra nel discorso che sto facendo, considerata
la discendenza, che io vedo, del 15 giugno e del 12 maggio dal 7 marzo, l'altra «data
storica» i cui sviluppi sono appunto sotto i nostri occhi, nel «permissivismo»,
nelle licenze, negli arbitri, nelle ribellioni d'ogni specie cui la nuova legge del
pregare diede il via in ogni campo con tutti quei suoi «permittitur»,
«licet», «potest» e successive «istruzioni» equivalenti
a sempre nuove falle, nuove aperture, nuove «fessure» nelle pareti del
Tempio.
A Sua Eccellenza che mi conosce per avversario e forse per questo mi sta in cagnesco,
io faccio, come tale, da buon cavaliere, i miei rallegramenti per l'alta nomina,
salvo che per il titolo della diocesi che gli è stata assegnata: un titolo
che lo associa, nominalmente e certo non intenzionalmente, al più spietato
persecutore della Chiesa, quel Diocleziano, per l'appunto, che, convinto di averla
definitivamente spacciata, fece coniare a ricordo la famosa medaglia con le parole
«Deleto nomine christiano». Non per far paragoni, s'intende, anche se,
vedendo nel futuro vescovo di Diocleziana lo sterminatore della lingua che Pilato
volle in cima alla croce e che da ogni croce domina sui nostri altari, mi venne di
scriver quella pagina, che non gli sarà piaciuta, intitolata per analogia
«Deleto nomine latino»: pagina scoppiata dal cuore, in un impeto di dolore
e d'indignazione, a quel loro trionfale annunzio: «Con la recita del canone
in lingua italiana, è l'ultimo baluardo della celebrazione della Messa in
latino che viene a crollare: una data storica!»
A Sua Eccellenza, comecché fosse, io predissi già questa nomina, le
sacre infule episcopali, predicendogli fin anche la porpora cardinalizia, e porgo
dunque di buon diritto le mie, seppure amare, felicitazioni, pur ricordandogli, in
tutta umiltà, nello spirito di quel sic transit simboleggiato da quella
stoppa, un episodio ch'egli forse conosce perché fa parte della vita di
un santo che, bontà sua, e gliene siamo particolarmente grati noi fiorentini,
non è stato radiato dal Calendario... A un chierico che gli confidava la sua
speranza di far carriera nella Chiesa, dicendogli via via tutti i gradi gerarchici
che poteva, un dopo l'altro, raggiungere, il santo, Filippo Neri, chiedeva via via:
«E poi...? E poi...? E poi...?» fino a che quello, toccato con la tiara
di papa il supremo vertice, dovette infine rispondere che poi... poi non c'era altro,
non c'era che da morire, e Filippo lo invitò a pensare, a meditare su questo
e vivere tenendo conto di questo: che si deve morire.
È ciò che con altro spirito dice anche quella birba del Giusti in una
sua celebre poesia pur con due spropositi (perdonabili alla sua poca pratica di chiesa)
come quelli di scambiar per salmo una sequenza e per Breviario il Messale: Tra
i salmi dell'ufizio - c'è anco il Dies irae: - o che non ha a venire - il
giorno del giudizio?
Giustappunto il Dies Irae... Per quanto l'abbiano estromessa, la sublime sequenza
- sublime nelle parole del Celano come nelle note del gregoriano o del Verdi - perché
non ci ricordasse ciò che appunto vuol ricordarci, e per quanto, allo stesso
fine, si sia bandito un colore, il «niger», dai paramenti liturgici,
quel giorno ha da venire, verrà per tutti, anche per i vescovi, anche per
il vescovo di Diocleziana, il grande riformatore, lo sbanditore della lingua nostra,
del culto; e mi domando se, visti i frutti, considerati gli effetti, questo pensiero,
quella domanda - Quid sum, miser, tunc dicturus...? - non venga mai a turbare
i suoi sonni: s'egli si senta, in coscienza, soddisfatto e tranquillo. (Una domanda
che non farei, che sarebbe oziosa, se non avessi per calunnia ciò che si sussurra
di lui: ch'egli servirebbe, nella Chiesa, tutt'altra causa che quella affidatagli
dal Papa, avanzando in una carriera dove si procede per gradi che van dal 3 al 33...
Calunnia, voglio credere, ed è perciò che mi domando, egli mi perdoni,
quello che ho detto: soddisfatto e tranquillo?)