Tranquillo? Soddisfatto?
Non sembra lo sia del tutto colui che della Riforma fu il padre e se ne compiacque
tanto da vedere in essa quasi un «passaggio del Signore», transitus
Domini, foriero di frutti quali la Chiesa, prigioniera della «sua tradizione»,
della «sua lingua», del «suo canto», dei «suoi riti»,
non poteva fin qui sognare e che avrebbero superato ogni più bel sogno. Ed
ecco, in men di un decennio, ecco i frutti, ecco la realtà, ecco l'amata confessione
di chi, liquidata la tradizione, dando per passato il passato, sembrava dirci, quel
7 marzo: Magnus ab integro saeclorum nascitur ordo... senza per anche pensare
a un « nuovo ordine della Messa » che avrebbe rappresentato il suo massimo
trionfo d'innovatore.
È lui, il cardinale Lercaro, «pionnier du mouvement liturgique, l'un
des chefs de file du "renouveau"» (come scrive un giornale belga,
La libre Belgique, riportandone un'intervista), che vede con apprensione,
«s'inquiète», ciò che avviene oggi nella Chiesa e, di riflesso,
nella società. «Nous traversons», egli dichiara, «une crise
de la foi... Nous sommes en pleine révolution, Le monde pénètre
dans nos foyers...» e il doloroso sfogo continua lamentando il pullular dei
contestatori, «petits schismatiques» turbolenti i quali «font l'impression
de donner dans l'ypercritique et de pratiquer la destruction pour elle-même»,
pretendendo così«le renouveau de l'Église par la ruine des institutions...»
Il giornale vede in questa dichiarazione come un'autocritica di chi, onorandosi del
titolo d'«innovatore», lanciò con tanta foga i cavalli della Riforma,
che non han finito di correre, di galoppare, in ogni campo della Chiesa, e così
commenta: «Il n'est jamais trop tard pour faire amende honorable... Il s'aperçoit
maintenant des effets désastreux de la révolution dans l'Église,
prophetisée par...»
Non sono io il profeta a cui qui si allude (e voglio, qui, tra parentesi,
dir che il titolo, con tutto il profetismo in giro, tanto che trovare un «profeta»,
nella Chiesa d'oggi, è più facile che un ciarlatano in piazza alle
fiere d'un tempo, non mi va niente a genio): è vero però che in quel
mio libello io avevo previsto questo, e non per vanità torno a dirlo ma per
ciò che un riconoscimento del genere vale allo scopo per cui scesi e torno
in campo.
Torno, confortato da una non meno autorevole, significativa testimonianza, che il
giornale belga avrebbe potuto produrre senza uscir di casa.
Si tratta, infatti, del Primate del Belgio, l'arcivescovo di Malines, il ben noto
cardinal Suenens, riformista innovatore così«aperto», spalancato
ai «segni dei tempi», così proteso a spiantar la Chiesa dei nostri,
che il confratello bolognese è al confronto un timido untorello... Patito
come lui del Concilio - il cui «bilancio globale era largamente positivo e
invitava all'euforia» - egli non ha avuto meno la sincerità di riconoscere
la susseguente «crisi di fede», pur non vedendone il nesso e manifestandone
stupore. «Venne il dopo-Concilio», egli dice in un suo libro uscito or
ora in Italia, «e con sorpresa di tutti un vento di desolazione e di devastazione
scosse la Chiesa di Dio. Cominciava un Venerdì Santo: fu il tempo della morte
di Dio, della negazione di Gesù come Figlio unico di Dio, della contestazione
della Chiesa come sacramento di salvezza. Allo stesso tempo un'ondata di immoralità,
forte quanto un maremoto, inondava il mondo: i mass-media accentuavano la grande
decadenza morale senza che vi fossero reazioni da parte d'una società che
vuol essere permissiva e con la complicità silenziosa di troppi cristiani
preoccupati prima di tutto di dimostrarsi comprensivi... Altre ragioni di tristezza:
la diminuzione costante e universale della pratica religiosa dopo la fine del Concilio;
la preoccupante diminuzione delle vocazioni» (ciò che il vescovo di
Ragusa, monsignor Pennisi, chiamava «fra tanti pericoli quello mortale per
la Chiesa, e il castigo più tremendo di Dio»); «genitori profondamente
cristiani che vedono i loro figli grandi rompere con la religione; focolari che non
sono più riscaldati dalla preghiera comune; cristiani smarriti dall'evoluzione
conciliare»
Questa la realtà, questo il quadro - pur incompleto, com'egli stesso dichiara
- di ciò ch'egli chiama, col Papa, «l'inverno postconciliare»,
e la nostra meraviglia, lieta meraviglia, è che lui se ne meravigli.
Nessuna meraviglia, al contrario, in colui che, come segretario del Vaticano Il,
ne conosce meglio di chiunque altro la storia. «Io che ho vissuto il Concilio
momento per momento», disse nel decimo anniversario della sua apertura il cardinale
Felici», «ed ho potuto notare i fermenti che agitavano gli spiriti, non
sono rimasto affatto meravigliato delle manifestazioni postconciliari e dell'abuso
che si è fatto del nome del Concilio. Ma proprio l'esistenza di forze avverse»,
aggiungeva, «deve renderci più svegli nel tenere lontani i seminatori
di zizzania. Dove trionfa la confusione il diavolo c'entra sempre o per suscitarla
o per approfittarne. E la confusione oggi disturba tantissimo. Piccoli manipoli tentano
di sconvolgere tutto e molti sono invasi da timore. Dobbiamo avere il coraggio di
non farci spaventare da certi dirottatori dello spirito».
Iddio mi dà, per la mia modesta parte nell'opera, questo modesto «coraggio»
(modesto perché i dirottatori con cui ho avuto fin qui e avrò fors'anche
a che fare non hanno usato contro di me altr'arma che questa mia, una innocua penna,
né io, sorretto da tanti socii passionum, ho avuto o avrò da
soffrire ciò che il Suenens allinea fra le tristezze del Concilio: «la
solitudine di chi s'impegna da solo a servire ciò che crede il bene della
Chiesa»), e sarei perciò inescusabile se non obbedissi al richiamo di
Chi vede nel presente le premesse di «una notte senza stelle distesa sui destini
umani».
Obbedisco, dietro l'appello, il grido lanciato poco fa in San Pietro dal Papa, con
un crescendo di forza che ne faceva sentire la sincerità e la pena: «Basta!
Basta con il dissenso interiore alla Chiesa! Basta con una disgregatrice interpretazione
del pluralismo! Basta con l'autolesione dei cattolici alla loro indispensabile coesione!
Basta con la disubbidienza qualificata come libertà...!»
Obbedisco, rimanendo al mio posto, confermato e rafforzato nel proposito, dopo la
libecciata del 15 giugno che ha nuovamente, dopo il 12 maggio, deluso gli ameni inganni
di chi aveva visto nel 7 marzo l'inizio di una nuova primavera cristiana.
Deluso, come mi confessava, quasi piangendo, un parroco mio amico, convinto della
Riforma non così da inghiottire senza disgusto i nuovi testi e i nuovi canti
«di chiesa» ma assai per credere ch'essa fosse un bene, un vantaggio
per le anime e per la Chiesa, a cui si doveva senza discussioni e rimpianti sacrificare
il latino, il gregoriano, il Palestrina, il Perosi e quant'altro dell'antico patrimonio
liturgico prescrivevano o proscrivevano le «istruzioni» emanate a getto
continuo dai neo-gestori del culto. Conformemente, con sua non poca pena, aveva,
a imitazione dei parroci suoi viciniori, abolito i Vespri domenicali, sostituendoli
con la Messa vespertina e consolandosi con le molte comunioni di più che venivano
fatte rispetto a prima, grazie anche alla nuova disciplina del «digiuno»
eucaristico, per cui si poteva mangiare e bere senza limiti di qualità e di
quantità fin quasi al momento d'ingerir la particola. Questo maggiore afflusso
all'altare - riscontrabile in ogni chiesa, senza, è pur vero, un adeguato
maggiore afflusso al confessionale - era il suo principale argomento in favore della
Riforma. Certo, non potest arbor mala bonos fructus facere... e io osavo appena
chiedergli se ciò bastasse, se più comunicanti volesse dir più
coerenti cristiani, a parte il motivo e il modo di fare quel che in effetti alcuni
facevano come per dovere, nella convinzione, dovuta a eccessivo zelo di sacerdoti
nell'inculcare la pratica, che senza quello la partecipazione alla Messa non fosse
completa e quindi non completamente assolto il precetto festivo. Il 12 maggio poteva,
appunto, essere una riprova... e la riprova lasciò affranto il mio amico,
che non si era dato riposo, non aveva badato a «prudenza», né
in chiesa né fuori, per dimostrare ai parrocchiani il loro dovere di coscienza
di votar da cattolici. Nonostante l'evidenza di questo, e contro ogni sua
previsione, il paese-parrocchia del mio amico votò divorzio, e fu facile quanto
triste per lui constatare che tra i molti del «no» molti erano stati
quelli che la mattina s'eran pur confessati cattolici rispondendo «sì»,
amen, a chi, senza diaframma di lingua (in volgare, anche troppo), offriva
loro, in quella particola, «il corpo di Cristo». Il 15 giugno - l'esame,
per così dire, di riparazione - ha confermato e peggiorato le cose, e l'aggravante
è che a determinare il forte balzo in avanti del marxismo, ateo e ateista,
avvertitamente voltando le spalle alla Chiesa e rinnegando col fatto il loro battesimo,
sono stati i «diciottenni», i figli e allievi della Riforma, allattati
alle sue mammelle e venuti su alla sua scuola.
È dimostrato, anche così, come avesse ragione chi ammoniva, all'inizio,
come fosse illusorio attendersi la conversione delle coscienze dall'inversione degli
altari e dalla versione del Messale (cui avrebbe potuto aggiungere il ricevere in
piedi, alla pari, Colui che, pari al Padre, Lo pregò sempre, come attestano
concordi i Vangeli, «positis genibus», in ginocchio).
Così disse, allora, l'arcivescovo di una grande città e diocesi, il
cardinale Colombo, non pensando, non prevedendo egli stesso quanto avrebbe avuto
ragione, di quale perversione, di quale «rivoluzione» sarebbe stato indizio
e inizio quel rivolgere le spalle a Dio per rivolgere la faccia agli uomini, a quale
«confusione di lingue» avrebbe portato il ripudio della «lingua
cattolica», che Paolo VI avrebbe chiamato «divina» e paragonato,
col gregoriano, a un «cero» il cui spengimento avrebbe afferto «toti
Ecclesiae Dei aegritudinem ac maestitiam»,
Le lingue che a Milano, in Duomo, hanno ad alte strida rivendicato alla donna il
diritto di ripudiar con l'aborto la propria creatura, inveendo contro la Chiesa,
che ripete il suo Non occides, sono nell'ordine di quel ripudio, come l'insulto
fatto in effige a Paolo nella sua Brescia, rinnovellando lo schiaffo, l'aceto e il
fiele rinnovellati in Bonifacio a Cristo in Anagni.