Che in Vaticano si agevoli ai
cavalli l'accesso, favorendo nel Comunismo il nemico della Chiesa più esiziale
e risoluto, è l'incredibile, il «mistero», ed è la realtà.
In armonia, come sembra, col Quirinale (dove il Comunismo, «corpo pseudomistico
di Satana», come lo definì, esperto per vicinanza, il vescovo slovacco
Hnilica, e come Satana astuto, è riuscito a farsi dimenticar perfino di nome
e l'unica cosa da cui guardarsi, l'unica paura par sia quella di un morto: il fascismo),
in Vaticano lo si ignora, infatti, come nemico, s'ignora il trotto di quei cavalli
e si condanna all'oblio chi osò condannarlo, addirittura scomunicarlo, come
un Pio XII o un Pio XI (anche se nessuno di questi ebbe, nel farlo, nel dimostrarne
l'intrinseca perversità, parole più decise di quelle avute da
Paolo VI alle Catacombe di Domitilla).
L'oppio marxista fa, così, nella Chiesa ciò che Marx accusava la Chiesa
di far con la religione nei popoli, con le conseguenze descritte nel libro di un
inglese, John Eppstein, dal titolo La Chiesa è impazzita? e il suo
contegno nei riguardi del Comunismo ne sarebbe precisamente un dei sintomi (fra i
quali, dimostrandone la correlazione, l'autore include l'abbandono della sua liturgia,
«della splendida Messa in latino, in favore di un indescrivibile servizio in
vernacolo»).
Il Comunismo ha effettivamente motivo d'esser riconoscente al Vaticano per questo
suo atteggiamento: riconoscente per il silenzio che permette ai suoi cavalli di avanzar
sempre più sicuri, di portar sempre più avanti le proprie insegne,
trovando addormentate le sentinelle, amici e cooperatori dove si aspettava nemici,
nelle file e tra i comandanti; riconoscente per la sua collaborazione attiva alla
sovietizzazione dell'Europa mediante quella «politica dell'Est», di apertura
alla Russia, che ha il suo agente - il suo Kissinger, come già lo si definisce
- nel monsignor Casaroli.
A lui, alla sua opera di «mediatore», il Comunismo deve già un
grande servizio: quello di avergli ottenuto, sul piatto della Ostpolitik,
la testa di Mindszenty, decapitato, «deposto», propter Herodiadem,
in punizione della sua fermezza, dei suoi non licet all'adulterio, della sua
fedeltà alla Chiesa, e dobbiam credere, nel nostro stesso amore alla Chiesa,
che si possa pur dire, di chi con mano esitante sottoscrisse il verdetto: Et contristatus
est rex propter iusiurandum.
Crediamo infatti al dolore di Paolo VI per il sacrifizio di Mindszenty, di questo
campione della Fede, alla causa dei suoi nemici più radicali, come gli credemmo
quando, arcivescovo di Milano, chiedeva agli «aperturisti» di allora:
«Dove sono i Cardinali Mindszenty e Wvszvnsky? E perché ancora è
segregato il Cardinale Stepanic? Dove si trova e quale sorte ha avuto il degnissimo
Arcivescovo di Praga, Monsignor Beran? Dove sono tutti i Vescovi della Romania? Dove
quelli della Lettonia, della Lituania, dell'Estonia, ed altri che in paesi che si
credono esaltati da una cosiddetta democrazia progressiva, non hanno più alcuno
dei diritti fondamentali dell'uomo, quello di pensare, di parlare, di pregare, di
difendersi, di vivere, per il solo fatto d'esser esponenti della Chiesa cattolica
e ad essa fedeli...?»
Dove sono? Alla domanda rispondeva, allora - per chi non era passato dal carcere
o dal «lager» al cimitero -, l'Annuario Pontificio con l'annotazione
«impeditus», e la risposta, per Mindszenty, è di fatto ancora
quella: «impedito», ma con l'aggiunta, tristissima: dalla Chiesa.
A che pro? Con quale frutto per la Chiesa nei territori dov'essa realizza con più
sofferenza il suo «quarto titolo», come fu detto: «cattolica, apostolica,
romana e perseguitata»? Accettando di togliere, col proprio esilio,
l'«ostacolo» che il giornale vaticano vedeva nella sua persona ai buoni
rapporti fra Stato e Chiesa, Mindszenty aveva da poco detto addio, per Roma, alla
sua amata Ungheria, quando il coesule suo confratello di episcopato e di martirio,
il cardinale Slipyi, levava in Sinodo la voce, affievolita dai diciotto anni di lavori
forzati in Siberia, per denunziare l'acuita ostilità del regime contro la
religione, «col pericolo di una sua cancellazione totale».
Non dissimilmente aveva parlato dieci anni avanti colui che, Vescovo dei Vescovi,
sedeva ora fra i duecento ascoltando il confratello ucraino come un tempo si ascoltavano
nelle catacombe coloro che portavano nelle carni i segni della testimonianza resa
a Gesù nelle carceri o nelle miniere.
Papa da un biennio, giovane, quindi, e libero di cingersi e andare dove voleva, egli
era andato alle Catacombe sacre alla vergine martire nipote di Diocleziano, e vi
aveva detto quelle parole: «Per troppo facile associazione di idee qui penseremo
a quelle porzioni della Santa Chiesa che ancor oggi vivono nelle catacombe... Le
analogie reali fra la Chiesa che oggi stenta, soffre e a mala pena sopravvive nei
paesi a regime totalitario sono evidenti. Identico è il motivo della resistenza
della Chiesa di allora e di oggi: difendere la Verità e insieme rivendicare
il sacro diritto di ogni uomo ad ogni sua propria responsabile libertà, soprattutto
nel campo fondamentale della coscienza e della religione. Identico l'intento degli
antichi e moderni persecutori, che, con la violenza fisica o con il peso di un apparato
legale, giudiziario o amministrativo, vogliono imporre la loro "verità"
e soffocare ogni contraria manifestazione del pensiero». Vi aveva denunziato,
dei moderni persecutori, il conato di «asfissiare la libera vita religiosa
del popolo e delle singole persone», il «proposito deliberato, anche
se taciuto, e la ingenerosa speranza, verso la Chiesa, di farla morire», intralciando
«il normale esercizio del governo pastorale, quando non sia possibile piegare
clero, religiosi e fedeli a "collaborare" con il regime», e monopolizzando,
allo scopo, «tutti i mezzi a disposizione dell'organizzazione totalitaria»,
con la meta di «togliere la gioventù alla Chiesa e imporle il verbo
marxista». Aveva infine ammonito, «i cattolici che per grazia di Dio
vivono in libertà, di ricordarsi dei cattolici che vivono nelle moderne catacombe
e non dimenticare quanto triste, umanamente parlando, sia la loro sorte, riflettendo
che, senza vigilanza e concordia, simile sorte potrebbe diventare comune».
CosìPaolo VI, il 12 settembre 1963, e ciò che allora era vero oggi
lo è più che allora, più che mai sia stato. Il Comunismo, «la
negazione del Cristianesimo», «la più terribile empietà
di tutti i tempi», non è cambiato, da allora - da quando così
lo definiva lo stesso Montini - e più che mai valido, più che mai urgente
è oggi l'invito a riflettere, oggi che, col 15 giugno, la minaccia di quella
comune sorte ci ammonisce tanto più da vicino, più da vicino ci giunge
il nitrite di quei cavalli, sitibondi di abbeverarsi a quelle fontane.