La preghiera... Sì, il
padre Rotondi ha ragione imputando all'«abbandono della preghiera», effetto
della «scomparsa del bisogno di pregare», l'«attuale crisi religiosa»:
crisi paragonabile a quella dell'organismo che non si nutre non appetendo più
il cibo, e non è tanto, per molto che sia, la qualità del cibo, la
repellenza delle preghiere che si dicono, si cantano, si strimpellano oggi nelle
chiese, quanto il deprezzamento della preghiera in questo clima del post-Concilio,
a causarne l'abbandono.
Di questo clima è emblematico il gesto del disgraziato - portacartelli in
tonaca al servizio dei comunisti - che strappa pubblicamente la sua corona del Rosario
per significare lo strappo di ciò che si deve credere e fare da ciò
che si è creduto e fatto prima d'ora, prima del Concilio, ed emblematicamente
si oppone a quello di Pio X che dice: «Datemi una schiera, un "esercito
" di cristiani che reciti la corona e io convertirò il mondo».
La corona, per dire, appunto, la preghiera, il ricorso a Dio - sine quo nihil,
in quo omnia - contro il «nuovo corso», la nuova «religione»
che di Dio fa a meno e si chiama laicismo.
Gli dobbiamo, in politica, noi italiani con una maggioranza legislativa cattolica,
o almeno eletta da cattolici, l'esclusione del nome di Dio dalla nostra Costituzione:
esclusione che ci allinea, fra tutti i paesi civili, anche non cattolici e non cristiani,
alla sola Unione Sovietica, la sola, infatti, che, come la nostra, lo ignori; e voglio,
qui, ricordare, a nostro rossore, ciò che un non cattolico, un famoso «laico»,
non arrossì di proporre per la riapertura del parlamento.
Lo riferisce Gigi Ghirotti in una pagina di quel suo diario di malato inguaribile
(Lungo viaggio nel tunnel della malattia) che ci piace riportare anche per
quello che vi si dice della potenza emotiva d'una di quelle preghiere del passato
che si son volute distruggere per surrogati che lasciano muta l'anima e ghiaccio
il cuore... Era in ospedale, un giorno di primavera, una mattina di Pentecoste, e
sentì, nell'intimo, svegliarsi qualcosa che apparteneva ad anni lontani: un
inno che aveva sentito e cantato in chiesa nella sua fanciullezza e premeva, ora,
nuovamente, con tanta soavità alle sue labbra ma senza poterne uscire non
ricordando egli le parole. «Quel mattino mi sentivo giusto l'anima in forma
di cattedrale e d'inno: ma con chi scioglierlo, quest'inno?» Ne chiese al suo
vicino di letto, ma egli, prostrato dal male, altro non sentiva che quello. Entrarono,
per una visita di carità, due chierici americani, del seminario del Gianicolo,
ed egli li interrogò. «Domandai», egli racconta, «a un di
loro», un giovane di Detroit, «se nel loro seminatio si studia latino
e si canta in gregoriano. «Perché vuol sapere questo? Perché
ho bisogno d'un inno perduto. Tanti anni fa aggiunsi - l'Italia, che era stata per
lungo tempo divisa in due dalla guerra, tornò a riunirsi. Si riapriva il Parlamento;
ma subito, alle prime battute, ci si avvide come e quanto il Paese fosse ancora diviso».
La divisione era circa il modo di «solennizzare l'evento» e tra i modi
ci fu appunto, continua il Ghirotti, quello proposto dal più autorevole fra
i membri del consesso: «Tra questi pareri discordi, si alzò infine la
voce d'un vecchio filosofo liberale, Benedetto Croce, che, da posizioni di insospettabile
laicismo, suggerì che parlamentari d'ogni partito e d'ogni idea intonassero,
nell'atto di aprire la pagina della nuova storia, un inno, il Veni Creator Spiritus.
Ora anch'io», il Ghirotti sèguita (e mi si lasci, per quel che ho detto,
seguitare con lui) «avevo bisogno d'un inno, di quell'inno: m'aiutassero a
ripescare dalla memoria il Veni Creator... Il giovane venuto da Detroit se
lo ricordava: l'aveva cantato - ragazzo - nel coro della parrocchia. Mi prese per
le mani: lo cantammo insieme sottovoce, forse un po' commossi. Alle parole "accende
lumen sensibus", l'infelice signor Saverio» (il vicino di letto) «aveva
già i lucciconi».
Prima di Croce un altro «laico» (e che «laico», in tempi
di che laicismo!) aveva insegnato ai nostri legislatori e governanti d'oggi, e dico
nostri riferendomi principalmente ai cattolici, il Nisi Dominus aedificaverit...
Nisi Dominus custodierit... Insegnato, insegnando loro a vincere il rispetto
umano, la vile vergogna di rammentare, di pronunziare il Nome di Dio, pur se membri
di una parte politica che si cognomina «cristiana». Non se ne vergognò
il fondatore e fu il solo: dopo di lui, decine di uomini eletti coi voti dei cattolici,
raccomandati dai Vescovi si sono succeduti al suo posto di capo del Governo, decine
e decine sono stati ministri, pronunziando, in centinaia e centinaia di discorsi,
milioni e milioni di parole, senza che quella parola di tre lettere, senza che quel
Nome sia uscito da quelle bocche una sola volta.
Ed ecco il «laico», ecco il Carducci (del discorso, più celebre
che conosciuto, di San Marino):
«Dio volle si rifacesse da povera gente latina quassù ciò che
è anima e forma primordiale nel reggimento del popolo italiano... Dio volle
e vuole che questo San Marino rimanga, memoria, testimonianza, ammonizione».
E sollevando, come lo vediamo, con la fronte la voce: «Iddio dissi, o cittadini:
perocché in repubblica buona è ancora lecito non vergognarsi di Dio;
anzi da lui ottimo, massimo, si conviene prendere i cominciamenti e gli auspicii,
come non pure i nostri maggiori dei comuni, ma usavano gli antichi nostri di Roma
la grande e di Grecia la bella». «Superstizione» da un lato, e
dall'altro «orgoglio di osservatori... troppo fidati nelle vittorie del naturale
esteriore, hanno quasi diseducato le genti latine dall'idea divina», ma né
quella né questo «sequestrerà Dio dalla storia. Dio, la più
alta visione a cui si levino i popoli nella forza di loro gioventù; Dio, sole
delle menti sublimi e dei cuori ardenti...» E sul nome di Dio, del Dio cristiano
e cattolico, il Dio di Dante, che «lo annunzia col più alto dei canti
umani», il poeta, qui da politico, conclude: «Ove e quando ferma e serena
rifulge l'idea divina, ivi e allora le città surgono e fioriscono; ove e quando
ella vacilla e si oscura, ivi e allora le città scadono e si guastano»;
per terminare, con un quasi grido di vanto: «Dio fu col principio della nostra
repubblica, o cittadini».
Se in repubblica buona è lecito a un «laico» parlar così,
in repubblica italiana è illecito, come s'è visto, a cattolici nominar
Dio, con tutto ciò che ne consegue, e così si spiega il divorzio (concesso
dai cattolici per non rompere il matrimonio con la bella dagli occhi guerci, l'alleanza
centro-sinistra), cosìsi spiegherà l'aborto, così la droga e
tutte le altre turpitudini per cui «le città scadono e si guastano»
e i delitti più immani e inumani possono diventare insignificante cronaca
quotidiana. Si obliti sumus Nomen Dei, nonne Deus requiret ista? Se avremo
dimenticato il nome di Dio, forse che Dio non ce ne chiederà conto?
Il tragico di questa dimenticanza, di questo pratico vergognarsi di Dio,
di questo laicismo cosìastraente da ciò che un Proudhon riconosceva
e affermava, che «in ogni questione politica vive una questione teologica»,
è per l'appunto che questo sia il fatto di cattolici, che come han voluto
«laico» il principio, laico han voluto e vogliono il seguito della nostra
repubblica, sostituendo all'«idea divina» Fl'«idea democratica»,
senza Dio, sia pur, infine, contro Dio.
Il tragico, ho detto, ricordando ciò che Gesù disse del sale svanito,
che sarà gettato fuori ut conculcetur ab bominibus, perché sia
pestato dagli uomini, e chiedendomi se non siano già in marcia i piedi destinati
a questo.
Quando saranno arrivati, quando il Comunismo avrà piantato la sua bandiera
sul Campidoglio, aspettando l'ora d'issarla sulla cupola di San Pietro - nuovo, più
maestoso Cremlino su una nuova più larga Piazza Rossa - la medaglia di Lenin
andrà di diritto a questi «cattolici democratici» che, servi dei
suoi servi, lo avranno principalmente servito ai danni dell'avversario finale, l'unico,
secondo la sua satanica intuizione del futuro: «Non ci saranno, ben presto,
che due campi e due lottatori: il Cattolicismo e il Comunismo» (Lenin).
Che i piedi possan esser gialli, asiatici, la cosa non cambia, e chissà che
non ne sia il preannunzio in quell'«esercito di duecento milioni» che
Giovanni vide pronto a passare «il gran fiume Eufrate», fra l'Asia e
l'Europa, «Exercitus vicies millies dena millia», che non par più
un'iperbole per significare un gran numero, dacché abbiamo sentito, or è
poco, Mao dirsi precisamente in grado di mobilitare esattamente «duecento milioni
di cinesi».
Per diviso che sembri e diviso marci, il Comunismo è infatti uno solo, come
una sola è la meta: abbeverare i suoi cavalli alle fontane in cospetto
del Vaticano.