Contarsi, contare le proprie forze,
come conviene prima d'imprendere una guerra, sia di conquista o di riscossa, ed è
Gesù che ce ne ammonisce (con una di quelle immagini che gli aggiornatori
ecclesiastici, democratici e pacifisti, radierebbero volentieri dalle pagine del
Vangelo, come han radiato dalla Messa il «Dio degli eserciti» e riveduto
le parole del Centurione): «Quis rex iturus committere bellum, non sedens prius
cogitat si possit cum decem millibus occurrere...?»
Mi riferisco, qui, alla guerra di riscossa, necessitata per i cattolici dalla sconfitta
del 12 maggio, e contarsi vuol significare, qui, scegliere, distinguere, separare
i forti dai vili, i fidi dagl'infidi, i sinceri dai falsi, gli atti e gl'inetti a
combattere, a somiglianza di ciò che il grande capitano dei Giudici
fece per ordine di Dio prima di attaccar Madian: «Il Signore disse a Gedeone:
"Hai con te troppa gente e Madian non sarà dato nelle loro mani... Parla
pertanto al popolo e in modo che tutti ascoltino ordina: Chiunque è pauroso
e timido se ne vada». Così si fece, e i rimasti parvero ancora troppi
al Signore, che ordinò di sceglier fra loro quelli che, condotti al fiume,
non si sarebbero chinati, cosìindugiando, per bere, ma avrebbero portato con
le mani l'acqua alla bocca. Così fu fatto, e i pochi di Gedeone, i trecento
che non avevano curvato il ginocchio, vinsero quelli di Madian «sparsi
per la valle come una moltitudine di locuste».
Contarsi, distinguersi... È ciò che il Gedeone torinese più
amico dei madianiti che degli ebrei - ha proibito nella battaglia del referendum,
con una «notificazione» in difesa dei cattolici che avrebbero votato
contro l'abrogazione del divorzio: notificazione per cui si è guadagnato dal
vaticanista Benny Lai la lode di «uno dei più aperti vescovi italiani»,
tenuto conto poi dei suoi sforzi in Cei per aprire anche gli altri vescovi, raccolti
a fin di stilare una loro notificazione in senso contrario, e, fallito in questo,
il suo abbandono della sala per non si sa quale suo impellente bisogno, al momento
di votarla.
Del suo pensiero e desiderio s'era d'altronde già reso interprete un altro
compagno, quello per cui il compagno Fortuna proponeva al Papa la medaglia al merito:
il già «dom» Franzoni, che uscendo euforico dal suo palazzo e
dal suo abbraccio durante il suo ecumenico giro di propaganda per il divorzio, dichiarava
per conto di lui che il «no» era lecito, ch'egli, il Primate, assolveva
e benediceva tutti, oves et boves (con intuibile predilezione per i bovi),
in armonia con gli altri pastori della sua regione ecclesiastica, degnamente rappresentati
dal nostro Camara, quel Bettazzi d'Ivrea la bella da le rosse torri, cui la
medaglia potrebbe essere appuntata al petto, bene a sinistra, da quello delle Botteghe
Oscure, a meno di non voler scomodare, per un così piccolo seppur zelante
pastorello, il pastor supremo, il sommo pontefice del Cremlino.
L'avversione del cardinale per la «conta dei cattolici» era ben anche
già nota a proposito dei protestanti, come ricorda chi lesse, tempo addietro,
la sua sfuriata contro chi aveva osato scrivere che questi non eran quelli, o quelli
non eran questi e per esser questi dovevano cessar d'esser quelli, cessare, cioè,
d'essere eretici, acattolici e anticattolici, e riprendere la via della casa, «la
casa della verità cattolica, che è la Chiesa». Al contrario di
chi disse così - e fu papa Giovanni - il Cardinale scrisse, infatti: «Il
protestante che si converte non ha da rinnegare il proprio passato; non dobbiamo
dire che (i protestanti) devono tornare alla Chiesa», lasciando quasi intender
che tocca a noi, cattolici, convertirci, a noi rinnegare il passato, a noi tornare
alla Chiesa, alla casa paterna, a noi inginocchiarci pentiti e supplici ai piedi
di Lutero.
Così avviene purtroppo, ed è ciò che in tanti modi e circostanze
va ripetendo a Roma, da Papa, chi, da arcivescovo, lamentò già a Milano:
«Non ci si converte, ci si lascia convertire»; e l'inversione è
continuata, da allora, a un ritmo che preoccupa (o rallegra), come s'è visto,
gli stessi protestanti, né si tratta più, ormai, d'invertiti confessionali,
dal cattolicismo al luteranismo, dall'unica Chiesa a una delle circa trecento partorite
via via dalla feconda Riforma, ma dalla fede all'agnosticismo... all'indifferentismo...
all'ateismo.
A dar man forte, nella questione della «conta», al presule suo diocesano,
in appoggio alla pariglia Fortuna-Baslini, s'è prestato (per rimanere in Piemonte)
il fratel Carretto, con un'autorità e un rendimento che non si sa quante medaglie
gli si dovrebbero dare in premio, considerato anche il sacrifizio che gli dev'esser
costato lasciare il Sahara e i poveri Beduini per venire in Italia a lavorar con
Agnelli per il divorzio: glielo riconosce la Stampa, di Agnelli, anche se
non allusiva al grido di dolore - «Se sapessi, Padre, che cosa ho sofferto!»
- con cui comunica all'arcivescovo la sua decisione. Autorevole, ho detto, questa,
come nessun'altra poteva essere, perché, per prenderla, egli non è
andato all'Isolotto da Enzo, non a Sotto il Monte da Turoldo né
alle Tre Fontane da Giovanni, per dire alcune fra le più celebri trombe
della banda ecclesiastico-divorzista: no, egli è andato, direttamente, da
Gesù, in chiesa, e «dopo una notte di preghiera» (come riferisce,
appunto, pensate con che edificazione, il quotidiano della Fiat), gli ha chiesto:
«Tu, Signore, per chi voti?» (proprio così, com'egli stesso ha
confidato alla Stampa), e Gesù... mica gli ha risposto, Gesù, che il
voto è segreto... Gesù gli ha risposto che lui votava, con Agnelli,
per Fortuna-Baslini ossia per il divorzio. Proprio così (come il medesimo
al medesimo giornale del 7 maggio) e non senza dirgliene il perché ossia i
perché, tanti da far sembrar d'essere coi più arrabbiati divorzisti
alla Tribuna del Referendum: sentitene alcuni: «Io voto no, perché
mi vergognerei di votare si davanti alle famiglie che oggi sono divise... Io voto
no perché voglio essere dalla parte dei peccatori... Voto no perché
voglio stare dalla parte dell'amore e non della legge... Sono stufo della legge...
Voto no» (infine, e nella certezza che gli antidivorzisti, i non stufi
della legge, sarebbero stati, come difatti, sonoramente battuti), «perché
spero che dopo una buona lezione ricevuta sarà l'ultima volta che noi cattolici
oseremo ancora presentarci in pubblico come difensori di un passato compromesso e
senza l'affiato della profezia e dell'amore per l'uomo» (donna compresa, si
capisce, e Fortuna si sarà fregato le mani, già pensando all'aborto).
Convinto, afflatato, da tanti e tanto validi argomenti, fratel Carretto avrà
pur voluto far, con Gesù, come il vicario delle monache con la Gertrude manzoniana,
«la parte del diavolo» (nel caso, del Papa), obbiettandogli che la legge
di cui era stufo era pur la sua, di Gesù, e perciò della Chiesa (Quod
Deus coniunxit eccetera eccetera); obbiettandogli che con lui Carretto, «piccolo
fratello di Gesù», erano, per il divorzio, i grandi «fratelli»
della Loggia, per nulla parenti di lui Gesù, anzi suoi dichiarati nemici,
non meno dei marxisti, in questo loro buoni compagni; obbiettandogli che il Concilio
l'ha pur definito, il divorzio, lues, «piaga sociale»; obbiettandogli
che l'indissolubilità aveva avuto i suoi confessori e i suoi martiri, come
quel Moto (l'nglese, da non confondersi con l'italiano!) che in difesa della legge
aveva sacrificato la testa... A tutti questi e ogni altro contro-argomento Gesù
aveva risposto ribadendo la sua opzione per il «no», con una sicurezza
e una forza tali che il fratel Carlo aveva potuto infine pregarlo di scender lui
stesso, il 12 maggio, non dico proprio in cabina a tracciar lui il segno, ma nella
coscienza degl'incerti, degli esitanti fra la sua legge (di prima) e la legge Fortuna-Baslini:
«Per questo spero che Tu terrai bene nelle tue la mano di chi, semplice povero,
non cercherà votando di appoggiarsi al potere» (non badando che il potere
appoggiava, con la Fiat, precisamente il divorzio). Da ciò la lettera, «con
preghiera di pubblicazione», al giornale di Agnelli: lettera che, riportata,
come previsto, o prestabilito, da tutti gli altri fogli, foglietti, fogliuzzi, fogliolini
della campagna pro-no; che letta e riletta da tutti ì pulpiti, cantata e ricantata
da tutti gli amboni del divorzismo, ha portato, ha convogliato all'ammasso tante
carrettate di «no», di voti per il divorzio, da farlo vincere e stravincere:
voti in gran parte, forse in maggior parte, di cattolici che han creduto per questo
di poter esser tali e antitali, cattolici e anticattolici, di poter accordare il
«Sì» dell'altare col «no» della scheda, il rigetto
della fede nuziale senza quello della fede battesimale.
Quelli gli sono stati grati, per questo: egli ha ricevuto da loro la sua mercede:
mercede di lode, dì fama, di risonanza... che potrebbe anche non escludere
una bella mercedes, se, avendo lavorato in comitanza con la Fiat, questa
non gli volesse far dono di una sua millecento.
Questa o quella, una macchina se la merita e ne ha bisogno, allo stesso titolo, un
altro scarrettatore di «no» pro-divorzio; ne ha bisogno come scarrettatore
di «si», pro-aborto, quando l'ora verrà, al servizio del compagno
Pannella, evitando a questo i tormenti «per voglia di manicar» del conte
Ugolino, o il rischio di scoppiar come Gargantua per l'eccesso del manicare, fuori
degli occhi della gente, fra un turno e l'altro dell'astinenza: quell'astinenza -
per cui l'Italia tutta trepida - che lo manderà certo alla storia come Marco
il Digiunatore.
Lasciando anche lui il suo Sahara a Sotto il Monte (dove pare che abbia messo le
tende per sentirsi più vicino a papa Giovanni ... che lo allontanerebbe volentieri
con una pedata) e affiancandosi nella corsa al carrettiere principale, il nostro
Turoldo (nostro, ce lo consenta, perché lo abbiamo avuto concittadino quando
serviva ancora Maria al suo convento della Santissima Annunziata), il compagno
padre Turoldo, «il frate scomodo che si batte per il divorzio», come
lo chiama elogiosamente con un titolo a cinque colonne in prima pagina quel giornale
dei poveri come la Stampa, ch'è il Corriere della Sera, ha detto
infatti (con esemplare divorzio dalla grammatica, e palese accordo con Pellegrino):
«Qualunque che sia il risultato del referendum, esso non costituirà
affatto la conta dei cattolici», e perché il risultato fosse quello
ch'è stato egli s'è battuto in tal modo, con un tal dispendio di forze,
da farci pena e confondere col suo il nostro cervello nell'insolubile problema di
saper con qual mai visto animale, di quale mai vista specie, egli intenda identificarsi
dicendo, sullo stesso giornale dei poverelli, quanto abbia fatto e, qualunque
che sia il bisogno, qualunque che sia in esso la forza, non gli sia possibile
far di più: «Non ho tempo, non ho più tempo. Sono come un cavallo
da tiro al quale ieri staccano i finimenti neppure di notte. Io ho due gambe e una
sola testa...» Un cavallo bipede monocefalo...? No, io non conosco una simil
bestia da tiro o da zoo, e nel dubbio s'egli vorrebbe aver più piedi, rinunziando
ad aver più teste, così da diventar del tutto un quadrupede ovvero
un quadrumane, gli auguriamo di ridiventare un «cristiano» (sinonimo,
una volta, d'uomo), di tornare il religioso e poeta padre Davide Maria, con la sua
divisa, la sua cintola, la sua corona (i suoi finimenti di servita), come noi lo
abbiamo conosciuto e ascoltato e letto, con nostra edificazione e piacere, quando
era dei nostri. Che la Madonna lo aiuti, in questo, perdonandogli la sua aberrazione,
perdonandogli quella rottura che più di tutto ci ha fatto male nel leggere,
su quel giornale di Como, questa spiegazione della sconfitta: «Abbiamo perduto
perché non si prega più. Se si pensa che Padre Turoldo, a Tirano, sulla
piazza del santuario, per indicare che col Concilio tutto si rinnova, ha rotto la
corona del Rosario come una sfida, si possono capire tante cose, ossia come la Misericordia
di Dio ci possa abbandonare, perché nella Chiesa sono in voga gli pseudocristi
e i falsi profeti». Non lo abbandoni, no, per questo, la divina Misericordia,
e se non lo spronerà a meditare quel buon papa di Sotto il Monte, che del
Rosario faceva la sua quotidiana gioia, sproni, lui artista, la visione di quel tremendo
Giudizio del pio Michelangelo, dove, per non cadere nell'abisso, quelle anime stanno
attaccate alla corona con cui l'angelo le tira al cielo, ansiose ch'essa non si rompa.
Glielo auguriamo e ce lo auguriamo, anche per cancellar dalla nostra mente quell'altra
immagine di lui, il già nostro padre Turoldo, con la sua tonaca, sì,
con la sua cintola e la sua corona di servita, ma al servizio di un'altra causa che
non quella di Maria, e diciamo pur della poesia, come indicava il cartello che i
comunisti gli avevano appeso al collo e fatto portare, in corteo, con altri frati
e preti, tali alla veste, per le strade di Roma: corteo e cartello di protesta contro
il Papa che avendo ricevuto il Xuan Thi, il degno capo-delegazione dell'inumana banda
nord-vietnamita, s'era creduto lecito di ricevere anche il cattolico Van Thieu che
all'avanzar della banda tentava di resistere anche a nome della sua fede, della civiltà
cristiana. Così, e così avevano precisamente disposto, perché
più redditizio fosse per il servizio al Comunismo, i capi-compagni, nella
convinzione che l'abito facesse nel caso il monaco: che li credessero autentici sacerdoti
quelli che sotto tale abito, in tale veste di agnelli, li vedevano pecorilmente sfilare,
tristo branco di rinnegati, ignari, come i loro padroni, di quale onore rendessero,
così adoprandolo per ingannare gli onesti, all'abito sacerdotale. Tali gli
ordini, ed essi, quei preti e quei frati, avevano obbedito riprendendo volenterosamente,
ai fini dei senza-Dio, ciò che con tanto disprezzo avevan buttato disobbedendo
a chi chiedeva che almeno in chiesa, almeno all'altare, fossero anche esteriormente,
agli occhi degli uomini, ciò ch'erano realmente e indelebilmente agli occhi
e ai fini di Dio.
«L'appello a indossare l'abito talare e religioso, da parte di chi spesso e
ostentamente non se ne serve più nemmeno durante i riti sacri, appare come
un controsenso, dal quale potrebbero nascere anche abusi di travestimento e di usurpazione
di indebita qualifica». Cosi, a commento del fatto, il giornale del Vaticano,
ed è per questo che la «conta» s'impone: perché non inganni
il travestimento: perché il manto dell'agnello non mimetizzi il lupo, ai danni
del gregge: perché la qualifica di cattolici, usurpata da chi lo fu, non induca
a crederli ancora, a confonder coi discepoli i Giuda, per differenti che questi siano
da quello d'Iscariot.