Come non a questi, a quello d'Iscariot
rimase, infatti, nell'abisso della sua abbiezione, tanto da inorridir di se stesso
e tirare in faccia ai suoi compratori il prezzo del tradimento: rettulit triginta
argenteos e andò a impiccarsi.
Il loro disprezzo è noto: Quid ad nos? Ossia: che ce ne fr ... ? Quello
che si voleva tu ce l'hai dato e noi siam pari: il resto è affar tuo: Tu
videris... È il disprezzo - naturale, umano - che sente, verso chi ha
tradito, chi del suo tradimento s'è valso e vale a vantaggio della propria
causa, contro quella che fu, che doveva esser di lui; e lasciatemi dir che Giuda
è meno ignobile, di questi giorni, ai miei occhi, davanti allo spettacolo
che ci si è offerto: di «cattolici» che rinnegando e tradendo
la propria fede hanno posto il loro nome e la loro opera al servizio dei suoi nemici,
per il trionfo di una causa anticattolica quale il divorzio.
Meno ignobile - egli che si vergognò, che senti schifo di se stesso fino all'estrema
disperazione - di questi che non si sono vergognati, no, che han tenuto erta la fronte
e han sorriso, davanti alla telecamera che ne registrava il tradimento, lieti delle
lodi di cui, tacendo l'intima ripugnanza, li ricopriva il sinedrio a cui s'erano
offerti.
Lodi meritate, lodi commisurate al servizio, indubbiamente prezioso, ch'essi hanno
reso alla loro causa, sacrificando, a questa, anche il loro proletarismo, condonando,
cioè, al marxismo (Fortuna) la collusione, l'abbraccio col capitalismo
(Baslini). «Tutte le forme di inganno sono adoperate per vincere una dura partita
contro la legge morale; tutte pressoché le forme di comunicazione sociale
sono al servizio di una campagna contro la legge del Signore. Per questa campagna
ci sono tutti i mezzi, tutte le connivenze, tutti i denari». Così un
degno arcivescovo, il cardinale Giuseppe Siri, ed è certo che il più
efficace di questi «mezzi», il più adoperato, il più sfruttato,
da quelli in questa «campagna contro la legge del Signore», è
stato la «testimonianza», è stato l'«esempio», l'incitamento
a tradire, di quelli che del Signore furon discepoli e sono stati, ai fini della
campagna, ai fini del tradimento, ancora presentati - Ave, Rabbi! - per tali.
Li scusa, è vero, attenua la loro responsabilità, la naturale invincibile
propensione, la vocazione al tradimento, con delazione, tanto più forte, si
direbbe, più seduttrice, quanto più sacro n'è l'oggetto, più
consanguinei, spiritualmente, i tradendi, sia Gesù, siano i suoi sacerdoti
e fedeli.
Me lo confermano i rossi autori di un rosso libro sulla rossa Cina di Mao, due ex-cattolici
che ancora si presumono e si spaccian per tali, dopo la più vergognosa campagna
pro-divorzista (condonata e non so se anche premiata dalla gerarchia con nuovi o
rinnovati incarichi nel collegio apostolico, intendo negli organismi ecclesiastici).
Mi riferivo a loro, principalmente, parlando qui sopra dei Giuda senza rossore e
senza rimorsi, senza interna lotta fra una corona di rosario con cui chieder perdono
e un braccio di corda con cui impiccarsi.
Libro di nessun valore in se stesso, quest'inno a Mao dei suoi aedi italioti, Giampaolo
Meucci e Raniero La Valle, infarcito com'è, oltre a tutto, di spropositi d'ogni
genere, storici, etnografici, geografici, culturali; ma di molto valore per la polizia
maoista, cui indica dove e in chi trovare, all'opera, i superstiti, i non ancora
sottomessi o soppressi nemici della Rivoluzione Culturale, e sono preti cattolici
che - orrore di chi li ha visti, e denunziati! - che ancora dicono la Messa in latino!
(Orrore, dove altri avrebbe pianto di commozione, risentendosi, per quella comune
lingua in tanta distanza e differenza di luoghi, a casa propria). Cosìhorrescens
refert l'un d'essi, il Raniero, dopo avere, insieme al compagno, assistito a
una di cotali Messe, con in mano il taccuino per il libro da scrivere, invece del
piccolo messale con cui quelli, i cinesi, pregavano, unanimes uno ore con
tutta la Chiesa, forse pensando che così, con loro, pregassero anche quei
due forestieri, considerati per questo stesso loro fratelli: «Nemmeno la scossa
della rivoluzione culturale è valsa a smuovere la fissità di una Chiesa
rimasta com'era, unica cosa non cambiata in una società tutta nuova, emblema
di come la Chiesa dovrebbe essere, non solo in Cina ma dovunque, e come invece in
Cina era ed in Cina ancora è. Nulla, in quella Messa, era atto ad esprimere
il mistero di novità e di resurrezione che purtuttavia vi si celebrava. Non
il celebrante, che voltava le spalle al popolo, non la lingua, che era il latino,
non le letture, sussurrate sotto voce, non l'omelia, inesistente, non il popolo...»
Particolari orripilanti, cui l'altro, il Giampaolo, altri ne aggiunge orripilanti
non meno: «Anche l'interno» (della chiesa dove tali cose si fanno) «presenta
fin nei minuti particolari identità di sistemazione e di immagini quali è
dato trovare in una chiesa romana: con il suo Sacro Cuore, la solita statuetta della
Madonna sull'altar maggiore, qualche santo, compresa una Santa Rita del culto corrente
in Italia... Sembra di rivivere la realtà di una cinquantina di anni fa: il
prete che borbotta la Messa in latino, rivolto verso l'altare... un vecchio sagrestano
che serve il prete con i gesti di un collega romano, dal sollevamento del camice
al bacio delle ampolle, al borbottio senza senso delle risposte, alle energiche suonate
di campanello» (come dovevan esser le sue, m'immagino, di quando, nella chiesa
della sua infanzia, serviva la Messa allo zio prete). Né basta: in quella
medesima chiesa, egli, il Giampaolo (pratico di questi libri per averli visti in
mano allo zio) ha veduto un prete (giovane, per di più) che ancora, udite!
udite! ancora diceva l'Ufficio! «Dopo la Messa, esaudendo il nostro desiderio,
parliamo con un prete più giovane, mentre ci viene rifiutato il colloquio
col Vescovo che, ci si dice, abita nel recinto di quella chiesa... Il prete, che
tiene in mano la "Pars aestiva " del Breviario, con uno stile da seminarista
romano degli anni venti, non risponde di fatto a quanto gli si chiede» (giusta
prudenza, la sua come quella del Vescovo, nel sospetto di avere a che far con spie)
ma il poco che l'altro, il Raniero, ne coglie conferma ciò che lui, il Giampaolo,
ha detto circa l'anacronismo del meno giovane, di cuore e di labbro ancora romano:
interrogato circa il culto degli antenati, egli «mostrava di non capire la
domanda, e rispondeva che alla morte di qualcuno si faceva» (sentite anche
questa!) «la "Missa obitus", la Messa dei defunti». Larghi
di comprensione e indulgenza verso «l'ateismo di stato vigente in Cina»,
cui «sarebbe difficile attribuire la responsabilità» (della scristianizzazione
del paese), essi, i due rinnegati, concordano nell'attribuirla tutta alla «chiesa
cattolica che è in Peckino: ... un reperto archeologico, un fotogramma
fisso di un film che altrove ha continuato a svolgersi; un'immagine inquietante di
quello che sarebbe tutta la Chiesa se il Concilio non ci fosse stato o se si fosse
riusciti del tutto ad estinguerne il vigore»; concordano nel desiderio ch'essa
muoia: «Comune fra tutti noi» (il Giampaolo e il Raniero) «il giudizio
conclusivo: è bene, doveroso diremmo, che una chiesa di questo genere scompaia,
se si vuole che l'annunzio evangelico possa raggiungere in un domani il popolo cinese
e aprirlo ad un'altra dimensione»: quella della «rivelazione marxista
incarnatasi in Mao-tse-tung».
Reprimendo le lacrime per tanta offesa ai suoi fratelli di fede e di martirio (offesa
di cui si sono fatti diffusori in Italia, pubblicando via via i capitoli poi raccolti
in volume, condegni fogli quali il Giorno, di Milano, la Rocca, di
Assisi, e Politica, di Firenze), un sacerdote cinese, don Ti Chu, ha risposto
ai diffamatori con parole che dovrebbero farli arrossire, se l'incapacità
di questo, di vergognarsi, non fosse, come si è detto, ciò che li distingue
dal modello dei traditori. «E veramente penoso», egli scrive, «che
siano uscite dalla penna di due che vorrebbero passare per cristiani cattolici valutazioni
sanguinosamente offensive per dei fratelli di fede "della Chiesa che è
in Pechino", che ha vissuto e vive, come tutte le altre Chiese locali della
Cina continentale, la dolorosa realtà di una soffocante persecuzione che dura
almeno da 25 anni». E volendo supporre in essi almeno il senso del rispetto
proprio di ogni animo civile verso chiunque pagò col sangue la fedeltà
alla propria causa: «Si sono domandati se dietro la fragilità di quel
prete cinese incontrato nella Cattedrale (meglio: Nan-T'ang) di Pechino si nascondesse
un eroe che ha conosciuto processi e prigioni, e invece di deriderlo avrebbero dovuto
inginocchiarsi e baciargli la mano consacrata e sempre pronta ai chiodi della croce?»
Una di tali mani è quella di chi scrive, come si tradisce allorché,
rispondendo ai loro insulti circa la «lingua propria della Chiesa» (come
detta e ridetta pur dal Concilio), dichiara: «Noi non ci scandalizziamo se
i nostri fratelli di Pechino e di altre parti della Cina celebrano la Messa in latino
su gli antichi altari e con le formule legittime e sante usate per secoli dalla Chiesa...
Lo abbiamo fatto con serena gioia noi stessi nelle prigioni comuniste le volte che
si poteva eludere la spietata sorveglianza delle guardie».
Con serena gioia essi, e con inesprimibile gratitudine per essi, noi, i difensori
di quelle «formule legittime e sante», di quel latino che con Cristo,
nella scritta di Pilato, salse in su la croce; gratitudine, sapendola, cosi, confessata,
professata in carceribus, dai cinesi di questo come dai romani dei primi tempi
cristiani, martiri di una stessa persecuzione, si denomini da Nerone o da Mao, che
a cominciar da Gesù s'è pur valsa di rinnegati e di traditori.
«Da quell'articolo», scrive l'Ordine riportando lo scritto di
don Ti Chu e sottolineando ciò che tocca il principale dei due, «un
Raniero La Valle esce demolito come un apostata, un Giuda, perché, faziosamente
montato col compagno, ha denigrato 700 anni di missioni, ha calunniato martiri, ha
squalificato l'opera della Chiesa come se nell'evangelizzazione essa fosse una parodia
del Vangelo».
E chiede: «Come mai un La Valle ha potuto arrivare a tal punto?»