Battiamoci, dunque e comunque,
seguitiamo a batterci - con la penna, se d'altro non siam capaci - mentre il nemico
avanza le proprie tende sempre più addentro nella Chiesa, favorito dal sonno,
dall'ignavia, dal tradimento dei difensori, dietro la cortina, la foschia che il
fumo di Satana spande di più in più densa e venefica.
Battiamoci, seguitiamo a batterci, contro lo scoramento che può tentarci,
alle volte, ita ut taederet nos etiam vivere, contro il pacifismo che Pascal
condannava in quella sua perentoria maniera: «Non è evidente che, come
è un delitto turbare la pace dove regna la verità, sarebbe egualmente
un delitto rimanere in pace quando si distrugge la verità?» Una domanda
che si farà un non cattolico (il pastore protestante Courthial), desideroso
e impedito d'esserlo proprio da questo nostro irenismo tutto abbracci e baci con
tutti fuori che con chi è per la verità: «Si tratta forse di
essere gentile e "caritatevole" quando la parola di Dio è transustanziata,
trasformata, "demitizzata" al punto che le si fa dire il contrario di quello
che dice? È forse il caso di essere gentile e "caritatevole" quando
si tratta dell'onore della Sposa di Cristo e della salvezza delle anime? Si tratta
forse di essere gentile e "caritatevole" quando soffrono tanti fedeli,
feriti, urtati, scandalizzati da coloro che dovrebbero essere i loro pastori?»
Sappiamo d'esser con la Cattedra seguitando a batterci, non ammaliati dalle sirene
di questa falsa carità sorridente a tutti i nemici della Chiesa, dai massoni
ai marxisti - sostanzialmente amici fra loro, all'occasione fratelli - e solo torva
a chi si batte per lei, come non si era mai visto prima di questi giorni, di questo
Concilio di cui tutti gli errori, tutte le nuove o rinnovare eresie rivendicano la
paternità. «San Pio X», scrive nel suo libro Per un Cristianesimo
autentico il vescovo di Campos Antonio de Castro Mayer, «considerava una
delle caratteristiche del Modernismo una tolleranza estrema verso i nemici della
Chiesa, e un'aspra intolleranza per coloro che difendono energicamente l'ortodossia».
Energicamente, che comporta la possibilità, il rischio di trascendere,
ma, continuava in proposito lo stesso sommo santo pontefice, «ma, in piena
battaglia, chi potrebbe a buon diritto far grave colpa ai difensori se non dirigono
con precisione matematica i loro colpi?» Questa era la risposta che dava anche
San Girolamo a coloro che gli rimproveravano l'ardore, molte volte aspro e impetuoso,
contro gli eretici e i miscredenti del suo tempo»; e ancora: «tra i pericoli
che minacciano la Chiesa da tanti lati, non è consigliabile condannare eccessivamente
gli sbagli dei difensori e scoraggiarli per qualche piccolo eccesso». Parole,
sarei tentato di dire, che mi riguardano, per via di quel mio tale libretto; come
quest'altre scritte al mio arcivescovo illius temporis in difesa di un giornale
che combatteva nei suoi propalatori la febbre modernista allora al suo primo stadio:
«È ottima cosa rispettare le persone, ma nessuno vorrebbe, per amore
di pace, si giungesse a compromessi, e che, per evitare disaccordi, si falsasse anche
di poco la vera missione de L'Unità Cattolica, che è di vegliare
sui principi e di essere la sentinella avanzata che dà l'allarme e sveglia
i dormienti».
Vae mihi quia tacui! e per non incorrete in questa minaccia - supposto ch'essa
riguardi anche chi lasci arrugginir nell'ozio una penna con cui potrebbe parlare
- io considero anche a me rivolto il grido della santa senese, dottore della Chiesa:
«Basta col silenzio! Gridate con centomila lingue! Io vedo che a forza di silenzio
il mondo è imputridito». A me l'ammonimento scritto in quelle sue lettere
di fuoco quando la parola «irenismo» ancora non esisteva: «Voler
vivere in pace è spesso la più grande crudeltà, Quando un tumore
è maturo bisogna inciderlo col ferro e cauterizzarlo col fuoco». A me
la domanda e la risposta del leone francese (il Bloy) i cui ruggiti hanno
svegliato a salvezza tanti dormienti: «Che pensereste voi della carità
di un uomo che lasciasse avvelenare i suoi fratelli per la paura di rovinare, avvertendoli,
il prestigio dell'avvelenatore? lo non voglio una simile corona di carboni ardenti
sulla mia testa, e da lungo tempo ho preso la mia decisione».
Era bene il timore di una simile rovente «corona» che faceva dire a Pio
X, nella Pascendi: «Tacere non conviene più se non vogliamo sembrare
infedeli al Nostro più sacro dovere, e se non vogliamo che la bontà
usata finora, nella speranza di un cambiamento, sia tacciata di oblio della Nostra
carica». E dobbiam credere che tali parole fossero, con tale timore, nella
mente di Paolo VI allorché ricevendo in fronte, il 30 giugno 1963, la corona
di gerente in terra di Dio, diceva: «Noi resisteremo con tutte le forze a questa
irrompente negazione... Noi riprenderemo con somma riverenza l'opera dei Nostri Predecessori:
difenderemo la Santa Chiesa dagli errori di dottrina e di costume, che dentro e fuori
dei suoi confini ne minacciano l'integrità...» Dobbiam crederlo, e credere
che ancora vi siano, anche se la speranza nel cambiamento sembra talora spingere
la sua bontà fino a obliare lo scettro che insieme alla corona gli fu pur
dato, a nome di Dio, per governare, per reggere con mano forte la Chiesa e il mondo.
Se la parola «irenismo» è nata sotto il suo pontificato, egli
non l'ha, tuttavia, legittimata né adottata, e ripetutamente ha avvertito
di guardarsi dai suoi pericoli, dalle sue seduzioni, con parole come queste che vale
rileggere da una sua grande Allocuzione in San Pietro (21 gennaio 1971) di cui non
si è tenuto conto facendosi precisamente all'opposto (Eirene, eirene:
pace con tutti a tutti i costi!) salvo che nei riguardi, torniamo a dire, di quelli
che vi han creduto, vi credono e vorrebbero vi si credesse, credendo in una sola
Chiesa: l'Unam Sanctam Catholicam et Apostolicam del Credo:
«Ora una parola ai cattolici... Essi devono, innanzi tutto, conservarsi fedeli
e sicuri; non devono dubitare della loro Chiesa, la Chiesa cattolica... Il suo Credo,
il suo rapporto con Cristo, il suo culto, il suo tesoro sacramentale e morale, la
sua struttura istituzionale, la sua definizione dottrinale e pratica, in una parola,
non devono essere messi in causa. Non ne abbiamo il diritto. Sarebbe venir meno ad
una nostra irrinunciabile responsabilità verso Cristo, verso gli stessi Fratelli
separati, se per trovare un terreno d'intesa noi mettessimo in dubbio la nostra autentica
professione cattolica, o rinunciassimo alle sue esigenze impegnative, L'irenismo,
l'intesa puramente pragmatica e superficiale, le semplificazioni dottrinali e superficiali,
l'adesione ai criteri da cui furono causate le separazioni che ora lamentiamo non
produrrebbero che illusioni e confusioni; resterebbe nelle nostre mani una parvenza
del nostro cattolicesimo, non la sua vita, non il Cristo vivo, che porta con sé»,
Resterebbe ciò che un di quelli (un anglicano, D'Assac), preoccupato per quello
che avviene da noi, scriveva, col titolo «Quando crollano i pilastri della
Cristianità», sul Times: «e anche Roma dovesse permettere
la sollecitazione dei dubbio perderebbe una grande parte della sua forza d'attrazione...
E il suo attaccamento all'antica fede, mentre il mondo non sa più in che cosa
credere, che fa la sua forza. La qualità monolitica, la immutabilità,
l'apparente immobilità sono tutto ciò che più profondamente
attira uno spirito moderno, turbato dal crollo intorno a sé di ogni fede...
il mio concetto della Chiesa romana dipende dalla sua fedeltà al Credo degli
Apostoli e dei Martiri. Ogni indebolimento di questa fedeltà, sia in nome
dell'ecumenismo sia per qualche concessione alle idee moderne, mi indicherebbe che
Roma ha fatto molto più che prendersi la malattia protestante. Sarebbe piuttosto
come se la ridotta della Cristianità fosse stata travolta e rovesciata dalla
tempesta» È l'angoscia. La desolazione di un altro, che, sentendo lo
squallore del Protestantesimo in cui ha creduto, e avendo cominciato a «scoprire
le magnificenze della Messa romana nel momento in cui i cattolici sembrano volerle
perdere», chiede a un sacerdote (Joachim Zimmermann, di Düsseldorf): «Cosa
accadrà? Sono diventato uno straniero nella mia Chiesa e non potrei più
ormai ormai trovare asilo nella vostra».
Tragica domanda per noi, che potremmo, quel giorno, sentirci rimproverare
di non aver dato in casa nostra ospizio all'errante, perché non più
riconosciuta da lui.