Tornare a combattete comporta
per me riprendere in mano quel mio non so se più famoso o famigerato libretto
col quale già scesi in campo e ognun sa come accolto: quella Tunica stracciata
(oggi avrei potuto scriver: «fatta a brandelli»), che ho infatti riaperto
ritrovandomici... profeta.
Profeta, ahimè, di sciagure, come l'Atride apostrofava Calcante
perché da lui rimproverato dell'oltraggio fatto alla Divinità nella
persona del sacerdote padre della bella Criseide (e buon per essi, i greci, cui il
rimprovero di Ulisse e il tradimento di Sinone fu salutare permettendo loro di sopravvivere
e, presa la spianata, entrate nella rocca troiana, mentre a me non si è riconosciuto,
per ciò che in quelle mie pagine volli difendere, altro che la libertà
di piangere, come il figlio di Anchise: «O patria, o Divûm domus Ilium...»
o come gli ebrei super flumina BabyIonis al ricordo di Sion).
Profeta di sciagure, alle quali non è un conforto l'averle presentite e predette,
ma che può esser utile ricordare quando ciò giovi ad ammaestramento
e ravvedimento.
Si era nel 1966, a pochi mesi da quel 7 di marzo, e la Riforma era ai suoi primi
passi (il padre Balducci diceva ancora, almeno fino al prefazio, la sua messa in
latino e portava ancora la tonaca!) quando io scrivevo: «Non da oggi, ma oggi
più chiaramente, le nostre orecchie avvertono la presenza di termiti nelle
travature della Chiesa: termiti laicistiche, modernistiche, marxistiche, protestantiche,
che allegramente rosicchiarlo, disintegrano, distruggono, al coperto di una dichiarata
intenzione, da parte dei custodi, di non condannare nessuno, o almeno di farlo a
bassa voce, riservando le condanne e la voce forte e il disprezzo a chi come noi
depreca l'andazzo e lancia, appunto, l'allarme...»
L'allarme fu dato e ridato invano (da me e da altri con voce più autorevole
della mia, senza contare la più autorevole: quella, già riferita, del
Papa) e le termiti continuarono a rodere, con crescente voracità, sempre favorite
dai custodi, i vescovi, la gerarchia, che rimangiandosi per conto loro ciò
che in materia di lex orandi avevano solennemente legiferato in Concilio («Linguae
latinae usus in ritibus latinis servetur»), parevano aver solo orecchi a percepire
e voce a richiamare se a qualche prete scappasse ancora di bocca, nei riti latini,
un Dominus vobiscum, tanto peggio se in gregoriano, paghi e beati come dovevan
essere dei loro sostitutivi, quei nuovi testi «in vernacolo» che con
tutto il rispetto per i loro autori mi rammentano i plebei sanniti delle Forche Caudine
che per beffeggiare, mentre passavan sotto il giogo, i vinti romani, «vernacula
faciebant», dice lo storico, con la bocca e le mani.
Continuarono, le termiti riformiste, a distruggere, a polverizzare, avanzando e producendo,
nelle armature della Fede, schianti e sconvolgimenti siffatti da dar lo spettacolo
- come pur detto da Paolo VI - di una Chiesa «in autodemolizione»: demolizione,
cioè, ab intus, dall'interno della Chiesa stessa, a opera di ecclesiastici
gareggianti nel prendersi e nel concedere libertà tali che l'anarchia è,
in paragone, un modello di ordine e di disciplina, e i protestanti, eruditi e scottati
dalla loro storia, ci guardano con occhi sgranati chiedendoci e chiedendosi se Lutero
si sarebbe sognato si potesse arrivare a tanto dietro il suo «libero esame».
I protestanti, ho detto (dimenticando che dovevo dire i «fratelli separati»,
e di quale fraternità si tratti è palese presentemente in Irlanda),
per dire appunto i padri e maestri di questi nostri riformatori da cui essi, come
il paggio Fernando della famosa partita, si riconoscono di gran lunga superati,
e ricordare ciò che il santo pontefice pur ora citato diceva e prediceva,
in quella sua prima enciclica alle soglie del secolo: «L'errore dei protestanti
diè il primo passo su questo sentiero; il secondo è del modernismo;
a breve distanza dovrà seguire l'ateismo». Siamo prossimi a questo,
all'ultimo stadio, la «morte di Dio», e la Riforma, la «nostra»,
n'è la propellente: il principio protestante, cuius regio illius et religio,
ogni regione la sua religione, ha nel «pluralismo liturgico» - nella
legge del culto autonoma, regionale, lingua e riti, rispetto a quella del
Credo - il suo equivalente, con la conseguenza che la religione, la vera, la buona,
langue in ogni regione, che il pluralismo si risolve in nullismo, avverandosi in
tutte, anche in quelle dove il volgare è meno volgare, meno barbaro, ciò
che il Marshall scriveva, per i cattolici riformisti, dell'Inghilterra riformata:
«Non c'illudiamo: non sarà la liturgia in volgare a far venire gl'invitati
al festino di nozze. La Chiesa anglicana canta il più bell'inglese davanti
ai banchi più vuoti, mentre il (cattolico) più ignorante in latino
intende benissimo ciò che fanno i monaci di Solesmes».
Nemo Papirium impune lacessit: nessuno oltraggia impunemente, senza conseguenze,
la tradizione, e ricordo l'invasione di Roma da cui l'origine del detto, per ricordare
in mia difesa non il Marco Manlio salvatore del Campidoglio ma le oche: le oche che
coi loro schiamazzi lanciarono ai dormienti l'allarme. Che i capitolini, nel caso
nostro, della Roma nostra, cattolica, non si scuotano - quando non colludano con
gl'invasori - è ragione per me non di desistere ma d'insistere, di gridare,
di vociar più forte, come faccio con queste mie nuove pagine, con nuova o
maggior molestia di chi deve sentire.
Praedica, insta, argue, obsecra, increpa, come l'Apostolo raccomandò
a Timoteo e ripetè al mio omonimo suo più caro discepolo: loquere,
exortare et argue, con una aggiunta, nemo te contemnat, che nessuno ti
disprezzi, che se avvenisse, nei miei riguardi, ancora il contrario (magari per questo
prender come dette a me cose dette al mio Santo) non dovrei troppo addarmene, vuoi
perché non mi riconosco io stesso, nell'esortare e nell'arguire,
un campione di cortesia, vuoi per ciò che un nostro Cardinale, a cui la porpora
simboleggia ancora il dovere di servir Dio usque ad effusionem sanguinis,
diceva a un laico, Eric de Saventhem, il fondatore dell'Una voce: che per
ostare alla disgregazione (l'«autodemolizione») in atto e in potenza
nella Chiesa al sèguito delle «direttive riformatrici in funzione»,
il cristiano deve battersi fino alla morte.
«Le chrétien doit se battre jusqu'à la mort» - pago, aggiungo
per me, se nella sua pochezza non gli sarà dato di effondere che un po' d'inchiostro.