Non questo, non così egli,
Paolo VI, aveva creduto o mostrato di credere - allorché, parlando dalla finestra
quel non limpido mezzogiorno del 7 marzo 1965, aveva detto: «Questa domenica
segna una data memorabile nella storia spirituale della Chiesa, perché la
lingua parlata entra ufficialmente nel culto liturgico, come avete già visto
questa mattina. La Chiesa ha ritenuto doveroso questo provvedimento... Il bene del
popolo esige questa premura». E quasi dolendosi, quasi rimpiangendo, al contempo,
ciò che si è obbligato a immolare (come Iefte l'amata figlia che ignara
del voto paterno gli è venuta incontro festosa con cembali e danze e saputolo
gli chiede di poter prima andare con le compagne sui monti a piangere la sua giovinezza):
«È un sacrificio che la Chiesa ha compiuto della propria lingua, il
latino: lingua sacra, grave, bella, estremamente espressiva ed elegante», E
ancora, ancora e più conscio della gravità di ciò che diceva:
«Ha sacrificato, la Chiesa, tradizioni di secoli e soprattutto sacrifica l'unità
di linguaggio nei vari popoli...»
Così aveva parlato e scritto il devoto suo antecessore Giovanni, dimenticando
la sua nota mitezza per percuotere con le più dure parole e minacce chi avesse
parlato o scritto, o lasciato, da Superiore o da Vescovo, che si dicesse o scrivesse
in contrario, «contra linguam Latinam in sacris habendis ritibus»; così
il suo ascetico predecessore, pio XII; così il forte Pio XI; così tutti
i sommi Pontefici - nel loro cognome di «romani» - con ragioni e sanzioni
come quelle che la Veterum Sapientia confermava poc'anzi nel nome stesso della
civiltà universale... Tutti, fino a lui, e d'essere stato lui a spezzar la
catena, a chiuder la tradizione, a privar la Chiesa di quella sua «propria
lingua», pareva non essere interamente tranquillo, come di un cambiamento che
i fatti avrebbero potuto giustificare o condannare: «Questo per voi, fedeli...
e se saprete davvero...»
Aveva visto da sé, poche ore innanzi, nell'àrribito di una chiesa,
che cosa comportasse nell'àmbito della Chiesa il sacrificarc, col latino,
«l'unità di linguaggio nei vari popoli».
Vari popoli, d'Europa e d'altre parti del mondo, riconoscibili al colore, all'accento,
alla foggia degli abiti, erano infatti casualmente presenti, quella mattina, nella
chiesa d'Ognissanti, in via Appia Nuova, dov'egli s'era portato a celebrar la sua
prima messa riformata. Erano stranieri, di religione cattolica, affluiti per
diporto a Roma ai primi richiami della primavera in arrivo, e si trovavano lì
per assolvere il precetto festivo; ma, differentemente dal loro solito di ferventi
cristiani, essi se ne stavan lì muti e come smarriti, stranieri, anche
lì, tra quei pur fratelli di fede ch'erano i fedeli romani, dai quali li separava,
precisamente, ciò che prima li univa, li affratellava; e il Papa sentiva con
pena, pena di padre comune, il loro silenzio, le loro mancate risposte ai suoi auguri,
detti in lingua italiana, che il Signore fosse con essi, che il Signore
desse loro la pace; li sentiva, li vedeva assenti, quasi dissenzienti, quando
nella lingua degli italiani diceva ciò che nella lingua di tutti si era detto
- o cantato, nelle dolci universali note del gregoriano - fino a stamani: ...
unum Deum... unum Dominum... unam Ecclesiam... conforme al monito dell'Apostolo:
ut unanimes, uno ore honorificetis Deum... Con pena aveva sentito, il Papa,
quel loro muto lamento: Extraneus factus sum fratribus meis, et peregrinus filiis
matris meae, avvertendo com'egli stesso, il padre, si fosse, così, fatto
loro straniero e pellegrino, in quella Roma patria spirituale di tutti.
Con pena aveva così visto e sentito - in quella sua prima messa dalla brutta
denominazione di «riformata», che nei paesi di molti fra quegli stranieri
equivaleva a «protestante» - i primi effetti del «sacrificio»
detto poi in quel discorso, la rinunzia della Chiesa alla sua univocità, temendone
di conseguenza quello dell'unanimità... Con pena, e si tradiva nel tono stesso
della sua voce: voce di chi dubita, entro sé, dubita di ciò che afferma:
voce che si fece sicura, giulivamente sincera, allorché, terminando, disse:
«Noi pregheremo la Madonna, la pregheremo ancora in latino», e in latino
intonò il Saluto dell'Angelo, a cui si uni, dalla piazza, la folla cosmopolita,
fatta, per quella comune lingua, non più di stranieri gli uni agli altri,
ma di fedeli, di credenti, gli uni agli altri fratelli.