Maggio 1972.
Ritorno in campo, con la penna
che amerebbe tornare ai campi, ai suoi georgici ozi di un tempo, sotto il colpo di
una sconfitta della Chiesa quale quella che farà «storica», come
giustamente detta dai vincitori, la data del 12 maggio.
Sconfitta, rotta, di una gravità tale, per quello che vi ha logicamente portato
e quello a cui può logicamente ancora portare, che sarebbe incoscienza starsene
come Titiro sub tegmine fagi a sonar la zampogna, o discorrer con Mecenate
sul quid faciat laetas segetes, quo sidere terram eccetera eccetera, lasciando
che le cose vadano per il loro verso: il verso senza fondo del male, dell'abisso
che non cessa d'invocare di cateratta in cateratta l'abisso.
«Chi non ha una spada venda il mantello e la compri...» Fu nell'ora del
tradimento che Gesù disse ai suoi queste parole, ed è in questa, è
fra i clamori di una vittoria di cui i nemici della Chiesa si riconoscono con ragione
debitori soprattutto ai suoi traditori, ai suoi Giuda: è in quest'ora di smarrimento
e di abbattimento per gli sconfitti, mentre quelli già non nascondono, nel
loro tripudio, di voler ancora avanzare (e l'aborto non è che il primo ulteriore
balzo in programma); è in questa scoperta, dichiarata intenzione di nuovi
assalti, contro questa minaccia di temibili nuovi travolgimenti per la Chiesa, che
il monito di Gesù torna come non mai imperioso per chi vuol esser dei suoi:
Qui non habet emat gladium: chi crede s'armi e combatta.
Chi crede sa, deve sapere, che nella Chiesa non c'è posto per i «pacifisti»
(«Ogni cristiano», scrisse Pèguy «è un soldato»),
non sono ammessi gli «obbiettor», lavorano per i suoi nemici i «neutrali».
«Chi non è con me», Egli dice, «è contro di me»,
e: «Non crediate ch'io sia venuto a portar la pace sulla terra: non sono venuto
a portar la pace ma la spada: sono venuto, infatti, a dividere» (com'era ed
è logico che fosse e sia finché sulla terra s'opporranno Satana e Dio)
ed è stata la dimenticanza di questo, è stata l'«apertura»,
è stato l'«irenismo», verso tutti gli errori (contro la carità
per gli erranti), è stata la gelosa premura di non passar per «integralisti»,
ossia per integralmente cattolici, la raccomandata attenzione di non parlar di «crociata»,
è stata, col tradimento, questa nostra vigliaccheria che ha dato loro la vittoria,
frutto di una loro crociata condotta con un integralismo senza scrupolo
di mezzi e d'uomini per cui s'è visto la plutocrazia porger la mano al marxismo,
i detestati liberali trescare coi comunisti, la massoneria puttaneggiar con preti
e con frati, ridendo di noi, meno preoccupati, si sarebbe detto, di vincere che di
distinguerci, e con disprezzo, da chi per amor di patria, in difesa della famiglia
italiana, combatteva la nostra stessa battaglia. Salvo questi, e l'eccezione li onora,
si è visto così ancora una volta avverarsi ciò che un grande
arcivescovo, il cardinale Dalla Costa, scriveva a proposito d'altri similari connubi:
«Le divergenze tra partito e partito, tra fazione e fazione, possono esser
molte ma l'accordo perfetto ci sarà sempre fra tutti quando si tratti di avversare
la religione. Si potrebbe purtroppo affermare che l'anticlericatismo imprime il
carattere».
La religione val quanto dire la Chiesa, ed era a questo, all'umiliazione di essa,
che si mirava: questo spiega il calore, l'«embrassons-nous» fra gente
di fé cosìdiversa, questa la base del giolito per la vittoria, subito
e non senza significato festeggiata a Porta Pia, quella da cui i nemici del Papa
erano entrati in Roma.
Lo ha dichiarato per tutti, appena saputo l'esito, uno di quelli in cui il carattere
è più marcato. «Il senatore a vita Pietro Nenni», scrive
sul Giornale d'Italia Alberto Giovannini (non senza ricordar l'orologio di
papa Giovanni avuto in dono da papa Paolo, e si poteva aggiunger la tonaca di frate
rivestita nel papale convento lateranense), «ha avuto, col voto di ieri, la
più grande soddisfazione della sua vita. E il vecchio mangiapreti romagnolo
è esploso all'annunzio della grande vittoria divorzista. " Hanno voluto
contarsi - egli ha detto - hanno perduto. Questa è la sorte dei Comitati civici
e dei fascisti. Questa è la sorte della Chiesa"». La contentezza
per questa nostra «dura e inequivocabile sconfitta» ha dato alla testa
a Fortuna (il socialista compadre col liberale Baslini del divorzio, in attesa di
copulare allo stesso modo per l'aborto) tanto che attribuendone in gran parte il
«merito» ai cattolici che si è detto, nominatamente, per tutti,
il dom Franzoni, non si è tenuto dall'esclamare: «Se fossi papa gli
darei una medaglia»
A parte gli egurgiti dell'ebbrezza per la vittoria, resta ch'essi, i nemici interni
ed esterni della Chiesa, han vinto: resta che la nostra sconfitta è stata
davvero «dura e inequivocabile», e che sarebbe illusione pensare che
si fermino al Piave, per dirlo in termini italiani, le conseguenze di Caporetto:
alla moltitudine dei bambini resi orfani dal divorzio cominceran tra poco ad aggiungersi
gli uccisi, legalmente uccisi, prima di nascere: uccisi in sinu matrum suarum,
a domanda di queste, destinando al cesso, in casa, o, in clinica, al «sacco
dei rifiuti umani per l'inceneritore», ciò che doveva esser per la culla.
Sconfitta e dura, ripetiamolo, battaglia inequivocabilmente perduta, questa del 12
maggio per le are e i fuochi, ma non per questo dobbiam dolerci dì
averla voluta, e non perché una bella causa è bella anche se sconfitta,
anche se l'opposta, la vincitrice, piacque agli dèi («non è
necessario», secondo il motto di Guglielmo d'Orange, «credere nella vittoria
per combattere con onore») e non mi riferisco, qui, alla prima ragione, quella
del dovere compiuto, conforme a ciò che il Notiziario, il bollettino
dei combattenti, ha scritto (nulla di più bello in tutta la sua gloriosa campagna)
dopo avere, appunto, preso atto della sconfitta: «Mai, come in questo periodo,
abbiamo avvertito in noi - e negli altri tredici milioni di italiani che hanno votato
sì - la grande pace, la grande gioia, che dà la certezza di avere compiuto,
sino in fondo, il proprio dovere... Siamo tranquilli, ora, che le centinaia di migliaia
di vittime del divorzio dei decenni a venire - le donne sacrificate dall'egoismo
degli uomini, i figli sacrificati dall'egoismo dei genitori - grideranno vendetta
non nei nostri confronti, ma nei confronti di coloro (e sono vari milioni) la cui
coscienza diceva che dovevano votare si e hanno invece votato no... Sono questi vari
milioni di traditori della loro coscienza che soprattutto ci fanno pena».
Siamo tranquilli, per il dovere compiuto, e quanto a me io aggiungo un'altra ragione
per cui, pur avendo dubitato dell'esito, pur avendo temuto ciò ch'è
avvenuto, non vorrei che si fosse rinunziato a combattere; aggiungo, parlando da
cattolico, che la sconfitta, che questa grave umiliazione è utile, è
provvidenziale per noi se varrà a scuoterci, a farci aprir gli occhi e sorgere
in piedi. È per questo che io - piccolo oscuro fantaccino di un grande e glorioso
esercito come quello che mi arrolò allorché un vescovo impresse col
sacro crisma sulla mia fronte quell'indelebile «segno» - lascio per anche
arbusti e mirici, lascio ciò che non omnes iuvant e torno a
combattere.
Torno nel decennale di una data che fu purt definita «storica» per la
Chiesa, e mi stupisco che non si sia celebrato, come e non senza correlazione con
questo 12 maggio. A celebrarla, a concelebrarla, questa decennale ricorrenza, avrebbero
potuto esser loro, i vincitori della battaglia divorzista, insieme ai vincitori della
«battaglia riformista»: quella, appunto, di cui diciamo, che dieci anni
fa, con quel titolo, duce un Annibale cui nomen omen per chi ricordi l'affricano,
trionfò di Roma, la Roma dei credenti, la Roma «onde Cristo è
romano», proscrivendone la lingua e il rito.
Avrebbero potuto, stante l'analogia fra le due cose: la frattura dell'unità
familiare, rappresentata là dal divorzio, e quella dell'unità religiosa,
in seno alla famiglia cattolica, cui si è tolto, con la Riforma, di poter
chiamare e acclamare a una voce «una voce dicentes», fra l'uno e l'altro
polo, in unione col cielo, l'unico Dio.
Avrebbero potuto, perché da questo «divorzio», dallo scempio dell'unità
in chiesa - nella lex orandi, base e cemento dell'unità nella Chiesa,
nella lex credendi - han tratto origine tutti gli altri scempi, di cui godono,
in ciò amici, i suoi svariati nemici: origine tutte le divisioni e le aberrazioni,
tutti i mali che moltiplicandosi, in un decennio, con la rapidità delle cellule
cancerose, han fatto si che si potesse autorevolmente parlare di «decomposizione
del cattolicismo», e da quella che doveva essere l'alba di una fulgida «giornata
di sole nella storia della Chiesa», provenir ciò che le medesime labbra
avrebbero denunziato quale «il fumo di Satana entrato da qualche fessura nel
Tempio di Dio».