«Sii ardita quanto puoi»:
neri ti trattengano, dal distruggere e dall'«innovare», scrupoli dottrinali
o disciplinari o sentimentali; non leggi di papi o di Concili, non autorità
di tradizione, non reverenza di santi, non amore della cristianità, non attaccamento
di popolo, non invidia di chi non ha e aver vorrebbe, non rispetto dell'arte, della
poesia, della logica, della sintassi. «Sii ardita quanto puoi», e quanto
i secoli fecero a gara perchè apparisse più bella, nelle sue dimore,
nelle sue vesti, nei suoi canti, la «Sposa di Dio», tu abbilo a lusso
e a spreco: ut quid perditio haec? e ritoglile: impoveriscila, volgarizzala,
proletarizzala, levale il manto di regina e mettila in tuta, non temendo l'accusa
di catarismo, non ricusando il plauso marxista per gli «enormi cambiamenti»,
per l'«abbandono del trionfalismo», dello «spirito costantiniano»
di cui quelli (Lombardo Radice) già ci dànno atto e merito.
«Sii ardita quanto puoi»: e dalla porta per cui si è dato lo sfratto
al latino, al gregoriano, alla musica, è entrato il gergo della piazza, è
entrata la cacofonia, piana e sonora, sono entrate le messe ibride, le messe anfibie,
le messe in esperanto, le messe in «jazz», in «yè-yè»,
in «twist», le messe al suono del tam-tam, del mandolino, della chitarra,
le messe Puig, a Parigi e a Roma, accompagnate ossia rumoraggiante dai vibrafoni,
dai tamburi e... dalle risate di quella parte del pubblico (chi vorrà più
dire «dei fedeli»?) che non è fuggita gridando alla profanazione
del rito e del luogo sacro... Dove giunti, pensavamo che bastasse, in fatto di ardire:
che il carnevale liturgico, che l'irrisione, la profazione del rito e del luogo sacro
avessero toccato il culmine: che la messa-pretesto, la messa-cavia per tutti gli
«esperimenti» cui la Riforma ha dato il via non ne reggesse ormai altri,
e ci sbagliavamo: c'era ancora, in Roma, all'ombra di San Pietro, ideata da religiosi
vostri amici (non celebrata, sia detto: solo provata), la messa-Beat» o «dei
Capelloni» o «degli Urlatori» (chi vi ha assistito e ce ne ha parlato
era incerto fra le denominazioni di «manicomio» e «bordello»),
coi testi liturgici, compreso il Pater, modificati, «adattati ai loro strumenti»,
chitarre elettriche, batterie, amplificatoti elettronici al massimo registro, su
«musiche» di un compositore per cinema prestabilitamente «non sacre
ma profane» e l'aiuto di ragazze «in vestitini Courrèges»
e giovinette in «completini op» che le ritmavano con contorsioni
«a tempo di shak», producendo, tra loro e il pubblico astante,
un fracasso che a detta di un giornalista avrebbe superato il muro del suono... Tutta
la stampa ne ha parlato, con disgusto e con sdegno (eco del disgusto e dello sdegno
che là si era manifestato in maniera più sensibile, sia vocalmente
che manualmente), e perfino qualche giornale «cattolico» si è
azzardato a dire che, si, forse, qui si sta esagerando. Quanto agli altri... l'Unità
chiude la sua relazione scrivendo: «Certo, l'idea di trasformare le centinaia
di chiese romane in tanti Piper non è una prospettiva entusiasmante».
Si sta difatti... esagerando, ed è anche in questo che noi speriamo... Deus,
venerunt gentes in bereditatem tuam, polluerunt templum sanctum tuum... Usquequo,
Domine ... ? Siamo in molti, sempre più molti, a pregare, a lamentarci
così con Dio, e cresce, quanto più in voi l'ardire, tanto più
in noi la speranza ch'Egli finirà per ascoltarci.
Ci conforta a crederlo, restando sul piano umano e rifacendoci al principio della
babele, a quel ripudio dell'unità della lingua che sembra aver dato il via
a tutto il resto - a quella «febbre di modernismo», per dirla con l'ultimo
Maritain, recensito summa cum laude dall'«Osservatore Romano»,
al cui confronto quello del tempo di Pio X «era un modesto raffreddore»
- ci conforta a crederlo la fede del nostro papa Giovanni nella vitalità propria
della «lingua cattolica» pur in quanto lingua civile, la quale se nel
corso dei secoli, com'egli afferma, giacque, più volte, oppressa dalla barbarie
dei tempi, «iacuit pluries, temporum iniquitate veluti oppressa», semper
per altro risorse, «at rursus floruit renovata semper», come vediamo
noi stessi nei paesi d'«oltre cortina», e quanto più non dovrebbe
in quanto lingua della Chiesa, per le troppe ragioni per cui egli stesso, papa Giovanni,
anatemizzava l'ipotesi che si osasse attentarle?
Ci confortano col loro scherno - subsannatio et illusio... - a nostra vergogna
e resipiscenza, i «nostri vicini»: i comunisti ora detti, i protestanti
già detti, che ci prendono o c'invidiano la lingua e il canto - il latino,
il gregoriano, le Messe di Palestrina... - e ricordiamo che il capo dei separati
meno distanti da noi, nel suo incontro con noi in San Paolo, volle concludere in
latino, e così in qualche modo quasi avviare, il suo auspicio che la separazione
cessasse: «So may the song of the Angels be echoed in the wilIs and actions
of men: Gloria in excelsis Deo et in terra pax».
Ci confortano a sperare i giovani, coi loro libri e le loro maglie: i giovani a cui
il latino di scuola, per poco che sia e comunque studiato, fa sentire l'inferiorità,
la volgarità del volgare di chiesa e già ne son sazi.
Sappiamo che gli stessi bambini «sentono che pregare in latino è più
bello che in italiano». Ce lo diceva una maestra, che avendo insegnato anche
in latino la preghiera per l'inizio della lezione, ha dovuto seguitare cosi perché
cosi hanno chiesto e voluto - senza saper dei nostri dibattiti! - appunto perchè
le loro vergini anime ne percepiscono la misteriosa bellezza.
Ex ore infantium perfecisti laudem... et revelasti ea parvulis... e questo
concordare dei «piccoli» - bambini e «popolo» - coi dotti
e i santi, il servo di Dio Pio XII, il servo di Dio Giovanni XXIII, vuol pur dir
molto per noi.