Ho assistito a parte dell'ultima,
nella parrocchia cui dianzi mi riferivo, e... non occorreva la denudazion degli altari,
non occorreva vedere allo scoperto, in tutta la sua bruttezza, il trabiccolo su cui,
schiena all'altare, si obbliga tutti i giorni il povero Gesù a scendere, per
sentir tutta la tristezza dell'ora, dico dell'ora o era liturgica che da voi si denomina.
La chiesa semivuota e gl'improperi del parroco contro i popolani che non si prestavano
ad aiutarlo, non gli davano ne una mano nè... un piede (per mettere insieme
i dodici della «lavanda»), accentuavano la diversità dagli altri
anni, quando, pieno il coro e piene le navate, tutto il popolo partecipava con le
labbra e col cuore, cantando e ascoltando, a quelle cerimonie, a quei Mattutini,
quelle Lamentazioni in canto fermo, quel Miserere a quattro voci, quel Vexilla,
quello Stabat Mater solenni, che ti commovevano, ti facevano davvero «lugere»,
piangere, più di qualunque «liturgia della parola» o predica sulla
Passione.
Esser del coro era allora, nelle campagne, un ambito onore (ogni parrocchia aveva
il suo e n'era fiera), per il quale non si badava a sacrifizi, non costava andar
di notte, per le prove, alla chiesa, nevicasse pure o diluviasse, o si avessero pur
l'ossa rotte dalla fatica, o si dovesse rimandar l'incontro con la ragazza, quando
non fosse anche lei del coro ossia delle canterine... Com'eran belle quelle nostre
Messe cantate! All'uscita di chiesa il popolo, entusiasta, faceva festa ai suoi cantori:
«Bravi! Bravi! Bravi!» e festa era anche lo scherzo con cui qualcuno
commentava la stecca che c'era eventualmente scappata, parlando di cappella si-stona...
Era, quel plauso dei popolani, tutta la loro mercede, con l'aggiunta di un desinare
dal parroco la Domenica delle Palme (all'inizio, cioè, della Grande Settimana:
Hebdomada Maior, anche per loro, dico per le loro voci), di un bicchier di
vino ogni tanto, al termine delle funzioni serali, e, a questo si che si teneva,
una Messa da morto cantata dai compagni che rimanevano, per il compagno ch'era andato
a cantar lassù... Aspetto anch'io, come già cantore della mia chiesa,
quella Messa in die obitus, e che sia (faccio conto di parlar qui, ai miei
ex-compagni, e pur nella speranza che il sole sia già risorto quando io tramonterò)
quella stessa che noi abbiamo cantato per gli altri qui nos praecesserunt...
Ve ne prego, amici, per tutto ciò che di sublime (quella sequenza! quel prefazio!)
vorrei pur sentire sulla mia bara, e per tutto ciò che di grottesco e scempio
vorrei non sentire: perchè... dopo avere le tante volte rabbrividito, salutarmente
rabbrividito, col gregoriano o con Perosi, al senso e al suono di quella strofa,
di quelle agghiaccianti rime in urus: «Quid sum, miser, tune dicturus,
quem patronum rogaturus, cum vix iustus sit securus?» non mi tocchi, lì,
vedermi parodiato o parodiante nell'atto di chi, con l'elenco in mano, si chiede
a chi telefonare per la difesa di una sua causa: «Nella mia miseria che dirò?
che avvocato inviterò, se il giusto è appena sicuro?»
(e misero me, davvero, se nella realtà avvenisse come nella «traduzione»,
dove il «vix» riferito a «securus» invece che a «iustus»
fa credere che non basti esser giusti per esser salvi, e chi mai allora si salverà?)
Come non vorrei, nato, vissuto e morto da fedele cattolico, parlare, nella bara,
da eretico, da calvinista dicendo a Dio, nella cui misericorde giustizia avevo creduto:
«O Re di terribile maestà, che salvi chi vuoi, per tuo dono»
eccetera eccetera: cose da far rizzare i capelli, parlo qui della traduzione, non
del Giudizio, e non son che due fiorellini colti a caso dal bosco, su cui grammatica
e catechismo spargono le loro lacrime chiedendosi chi più n'abbia ragione.
Com'eran belle quelle nostre Messe cantate! Come ci commovevano, noi l'«autentico
popolo», come ci facevano credere e amare e sperare, come ci facevano gustar
di cielo quei Kyrie, quei Gloria, quei Credo, quelle sequenze,
scritti «da autori che componevano in ginocchio» e facevano perciò
inginocchiare ... ! Il confronto ravviva in noi l'ammirazione e il rimpianto, quando
non prevalgan la nausea e l'indignazione... Ho sentito poco fa «declamare»
nel vostro testo una di quelle meravigliose sequenze (il Lauda, Sion, il sublime
catechismo eucaristico che san Tommaso compose, parole e note, «in ginocchio»
e sa per noi di ginestre, di siepi in fiore, di campi spigati, di campane sciolte,
di vesti, di luci, di canti a festa: la grandiosa gaudiosa festa del Corpusdomini)
e ho lottato per non fuggire o avvicinarmi al trabiccolo e far ciò che Dante
fece con gli arnesi del fabbro che guastava le cose sue, i suoi versi... Mi
chiedevo, dianzi, se i nemici della Chiesa non vi abbian dato, ai loro fini, una
mano nella preparazione dei testi che portano, autografo e solenne, il vostro Imprimatur;
e chi non se lo chiederebbe davanti a «strofe» come queste che san Tommaso
mi perdonerà di trascrivere (scegliendo fior da fiore) accanto alle sue, non
fosse che per intendere, col suo latino, il significato dell'italiano?
Quantum potes, tantum aude: quia maior omni laude, nec laudare sufficis. Laudis thema specialis, panis vivus et vitalis, hodie proponitur. Sit laus plena, sit sonora, sit iucunda, sit decora mentis iubilatio. In hac mensa novi Regis, novum Pascha novae legis, phase vetus terminat. Vetustatem novitas, umbram fugat veritas, noctem lux eliminat. Quod in coena Christus gessit faciendum hoc expressit in sui memoriam. Doctis socris institutis, panem, vinum in salutis consecramus hostiam. Sub diversis speciebus, signis tantum et non rebus, latent res eximiae. Caro cibus, sanguis potus: manet tamen Christur totus sub utraque specie, Sumit unus, sumunt mille quantum isti, tantum ille, nec sumptus consumitur. Sumunt boni, sumunt mali: sorte tamen inaequali, vitae vel interitus Ecce panis Angelorum, factus cibus viatorum, vere panis filiorum; non mittendus canibus... |
Sii ardita quanto puoi: egli supera ogni lode, non vi è canto degno. Pane vivo, che dà vita: questo è tema del tuo canto, oggetto della lode. Lode piena e risonante, gioia nobile e serena sgorghi dallo spirito. È il banchetto del nuovo Re, nuova Pasqua, nuova legge; e l'antico ha termine. Cede al nuovo il rito antico, la realtà disperde l'ombra: luce, non più tenebra. Cristo lascia in sua memoria ciò che ha fatto nella cena: noi lo rinnoviamo. Obbedienti al suo comando consacriamo il pane e il vino, ostia di salvezza. È un segno ciò che appare; nasconde nel mistero realtà sublimi. Mangi carne, bevi sangue: ma rimane Cristo intero in ciascuna specie. Siano uno, siano mille, ugualmente lo ricevono: mai è consumato, Vanno i buoni, vanno gli empi; ma diversa ne è la sorte, vita o morte provoca. Ecco il pane degli angeli, pane dei pellegrini, vero pane dei figli:, non va gettato ai cani... |
I cani, certo, scapperebbero - come mi pare di aver già scritto a un dei vostri
- a sentirsi tirar dietro di questi «versi», revulsivi per dei cannibali
(«Mangi carne, bevi sangue...») pur robusti di stomaco. E la meraviglia
non è che certe cose si siano scritte (Nil admirari! disse già Orazio):
la meraviglia è che ci sia, fra i preti, forse perfino fra i vescovi, chi
ha la forza di dirle.
Dirle, declamarle, come voi suggerite, nell'attesa e non nell'impossibilità,
per voi, di cantarle, e chissà che non si arrivi o si sia già arrivati
anche a questo, magari con le note medesime di san Tommaso! «Sii ardita quanto
puoi», e a veder quello che si è fatto, quello che si fa, quelle che
in nome della Riforma s'intende di fare in ogni campo, ci par che questa sia la consegna
e la misura data da voi giusto ai vostri arditi, alla vostra compagnia-guastatori
nel metterla all'opera.