Povero popolo, poveri noi, lieti
e fieri già di una Chiesa che abbiamo conosciuto e amato Noemi, e, passata
per le vostre mani, ci ritorna, ora, Mara, gemendo come la donna di Betleem: «Non
mi chiamate più bella, chiamatemi amata, ripiena come seri d'amarezza e ridotta
in miseria!»
«Pregare in bruttezza». Sembra sia l'impresa dei vostri, contrapposta
a quella di san Pio X: «Pregare in bellezza»; e bisogna proprio esser
certi, come noi siamo, che il vostro fanatismo, il vostro furore iconoclastico è
di retta intenzione, rovente del più puro e apostolico zelo del bene, per
credere che la setta, la massoneria, non ci abbia messo lo zampino, non vi abbia
dato una mano, conforme a ciò che ha fatto in passato componendo e diffondendo
certe «preghiere» e certi «santini» fatti per screditare,
col loro cattivo gusto, la pietà e la virtù. Per questo - coerenti
in tutto, nella vostra antipatia per il bello - voi ve la siete presa col canto,
l'espressione più bella della preghiera, imponendo una riforma, un'operazione,
in materia, del genere di quella che trasforma i galli in capponi: via la cresta,
via i bargigli, via quegli aggeggi e tutti a croccolare con le galline e le anatre,
senza quei chicchirichì che san di «trionfalismo», di «estetismo»,
e non vanno, in un'«assemblea comunitaria»... anche se a una di quelle
voci chi aveva rinnegato il Maestro sussultò e pianse: anche se la liturgia
esalta il gallo, per ciò che vale il suo canto: «Gallus iacentes excitat...
Gallus negantes arguit... Gallo canente spes redit...»
Nè si vuol, con questo, negare che anche le galline e l'anatre e l'oche, come
i corvi e le cornacchie, abbian la loro parte e importanza nella polifonia del creato:
si vuole, o si vorrebbe, soltanto che dal canto delle lodi divine non fossero banditi
i galli, o gli usignoli, i fringuelli, le capinere, le allodole... non facendo loro
una colpa di avere avuto da Dio un'ugola più varia, una voce più bella.
A questo siamo, e parrà incredibile, mostruoso, a chi verrà dopo questo:
con lo stesso folle disprezzo con cui s'è parlato (parlato, non potendosi
adoperare il tritolo o disporre di un terremotino locale) contro i Michelangelo,
gli Arnolfo, i Bernini, autori di «chiese non funzionali», si è
proceduto contro un Palestrina, un Victoria, un Bach, un Händel, un Perosi (per
non dir che alcuni dei tanti grandi che hanno con le loro note, «ex auditu»,
innalzato le anime a Dio più efficacemente di ogni parola) intimando loro
il «fuori di chiesa» per darne il posto a... a un Luigi Picchi, che non
conosco, ripeto, ma che non credo lusingato dal gioco che si fa sul suo nome per
dire da dove a dove voi ci avete portati in fatto di musica sacra: dalla Missa
Papae Marcelli alla messa dei picchiatelli.
L'ho risentita, mesi addietro, a Roma, cantata dagli «Ambrosian Singers»
di Londra, l'ho risentita a Firenze, nella stupenda esecuzione della Cappella Sistina,
questa Missa Papae Marcelli, antica di quasi cinque secoli, e ho sentito nella
mia anima e ho letto negli occhi degli altri che ascoltavano insieme a me, cattolici
e protestanti, come Paolo VI abbia potuto, ricevendo nel gennaio dell'anno scorso
il complesso della «Deutsche Oper» di Berlino, parlar di musica religiosa
ambasciatrice di Cristo. Infatti! «Non vogliono leggere il Vangelo e io
glielo faccio conoscere in musica»: cosi il Perosi, e chi riferisce le sue
parole - Armando Dadò, uno che cantò nel suo coro - aggiunge: «La
folla anonima e profana nell'ascoltare le sue opere ha sempre inconsciamente subito
questo sublime tranello, tanto è vero che alcune conversioni al cattolicesimo
furono un prodotto della sua musica».
Bellezza santificante, «beauté sanctifiante», diremo dunque con
le parole di una poetessa francese, Maria Noél, che chiede, piangendo anch'essa
sullo scempio che voi, i «clercs novateurs», propugnatori di una religione
parolaia, «une religíon discoureuse», avete fatto di ciò
che l'arte, figlia di Dio, aveva creato in sua lode: «Hanno mai riflettuto
questi riformatori - calvinisti in ritardo - sul Dono, fatto alle folle, di questa
liturgia cattolica grazie alla quale la Chiesa militante, percorrendo la sua strada
terrestre, sfiora talvolta i primi radiosi gradini della Chiesa trionfante e gusta
un istante il cielo? Il Dono della Chiesa al popolo, che ben lo comprende?
La molteplice ricchezza liturgica, l'appello fra cielo e terra del Rorate
dell'Avvento, la sua sublime aspirazione desolata e consolata; il Gloria, laus
marciante e verdeggiante della Domenica delle Palme; l'Exsultet della veglia
pasquale; i grandi Alleluia di Pasqua nel tripudio delle campane; il gemito
d'oltretomba dell'Ufficio dei Morti, il suo terrificante e supplice Dies irae;
il Parce, Domine, implorante delle pubbliche calamità; il Te Deum
folgorante, sovrumano, degli epici rendimenti di grazie... tutta questa magnificenza
cantata, la Chiesa cattolica la dona al popolo, nell'ineguagliabile eguaglianza della
sua carità universale, al re come al più piccolo dei suoi piccoli,
al primo morto che entra, al primo mendicante che passa...» Eguaglianza, altro
che «comunitarismo»! ma eguaglianza in alto, torniamo a dire con la poetessa,
che aggiunge: «Le parole tanto ripetute di Veni, Creator, Miserere, De Profundis,
Magnificat, Te Deum e via e via erano diventate nostra ricchezza familiare, grazie
alla magnificenza della Chiesa cattolica, la cui preghiera secolare innalza e valorizza,
a loro insaputa, gli umili più che le lezioni e i discorsi di tutti i tempi
e di tutti i luoghi».
La musica sacra ha in questo un posto e un primato, che solo i sordi possono ignorare.
«Se l'Arte», scrive un illustre musicista, «è un dono di
Dio all'umanità, l'artista è come uno strumento che opera, talvolta
inconsapevolmente, al di fuori e al di sopra di qualunque ragionamento intellettualistico
e giunge là dove nessun altro potrebbe arrivare. La liturgia della Chiesa
ha trovato nel canto e nella musica la sua anima. Certi inni festosi o certi versetti
tristissimi ricevono dalla musica la loro caratterizzazione più evidente e
più immediata. Chi non riconoscerebbe la letizia che scaturisce dal repertorio
sia gregoriano sia polifonico che i musicisti nei vari secoli, hanno preparato per
la festività pasquale? Basterebbero le prime note del Kyrie nella notte
del Sabato Santo! O la bellissima sequenza di Pasqua, o il sereno Sicut cervus
palestriniano per la benedizione del Fonte, o il sublime offertorio Terra tremuit
col trepidante Alleluja... Chi non riconoscerebbe l'intensità dei canti gregoriani
della liturgia del Venerdì Santo per lo scoprimento e per l'adorazione della
Croce, così come ce li hanno tramandati i secoli, o degli immortali Improperia
palestriniani?... E così potremmo proseguire all'infinito, e dovremmo dire
dei canti dell'Avvento, della liturgia dei Morti, eccetera. Insisto sulla Settimana
Santa perché essa ha avuto una tale interpretazione nelle musiche liturgiche
da costituire un monumento a se di universale bellezza».
La Settimana Santa ... ! E ricordando e confrontando mi viene ancora da piangere.