Tale, appunto, il latino, la lingua
che non invecchia, la sempervirens, la sempre giovane lingua dei giovani,
che la fanno risonar negli stadi, che la portano con fierezza nelle loro divise sportive.
«luventus», «Fides», «Robur», «Ignis»,
«Albor», «Rari nantes», «Excelsior», «Pro
Patria», «Virtus», «Libertas» non son che alcune delle
tante denominazioni che il naturale senso del bello ha suggerito ai giovani d'oggi
e d'ogni paese del mondo, in luogo delle corrispondenti volgari, per le loro associazioni
di calcio, di corsa, di nuoto, d'alpinismo, di pugilato e così via; la più
nuova delle automobili presentata or ora in America si è denominata, latinamente,
«Secura»; e la gara spaziale ha dilatato ben oltre Garamantas et Indos
(Virgilio), ben oltre quodcumque terrarum iacet (Prudenzio), il regno della
«lingua cattolica», lanciandola fuor della terra, nel punto più
lontano fin qui raggiunto da opera d'uomo. E la Russia, che con tre mesi e mezzo
di corsa l'ha portata su Venere, la dolce Stella del mattino, cento e otto milioni
di chilometri distante da noi, col suo missile chiamato Venus, tanto è
parso più bello - a loro, ai russi, che pur avevano un nome simile: «Veniera»!
- chiamarlo in latino: «vincolo mirabile di unità» (si direbbe
con Pio XI), qui addirittura interastrale, altro che «diaframma»!
Lingua del presente come del passato e dell'avvenire, lingua dello sport come del
domma, lingua della scienza come della politica (abbiamo sotto gli occhi il programma,
scritto in latino, di un congresso internazionale di medici tenutosi l'anno scorso
a Praga, e ricordiamo che all'Onu si è proposto di redigere in latino i verbali),
lingua universale, in una parola, sotto tutti i rapporti, sarebbe da ciechi non vedere
nella lingua di Roma la lingua predestinata della Chiesa «universale»,
e da... non osiamo dir la parola, il volerla sostituir con «le lingue»,
con la babele delle lingue, che dividono e oppongono; e volerlo, questo, oggi, proprio
oggi che le nazioni, quelle dell'Europa in particolare, aspirano e lavorano a ricongiungersi,
a ricomporre la tunica della loro antica unità, favente e benedicente la Chiesa
stessa che per bocca di Paolo VI così parlava or è poco ai promotori
del movimento europeista: «Voi sapete come la Chiesa veda con particolare simpatia
questo nobile intento di fusione... L'evoluzione spontanea della vita fa di questo
continente una comunità... che non domanda di meglio che di essere vivificata
da uno stesso spirito...» Parole a cui mal s'accordano le parole di quella
vostra conferenza: «Quanto all'uso della lingua nazionale abbiamo concesso»
(per l'Italia) «quattro lingue: il francese per la Val d'Aosta, il tedesco
per l'Alto Adige, lo slavo per le Venezia Giulia e l'italiano per tutto il resto
d'Italia», e ci si chiede, logicamente, perchè non anche il sardo, il
siciliano e tutti i dialetti e vernacoli della penisola. (Per il napoletano, un umorista
ha già offerto un saggio di traduzione: «Jatevenne, 'a Messa è
fernuta». Non vi dico come ho sentito parafrasare qui nella mia città,
in borgo San Frediano, il vostro «Andate in pace». De Maistre aveva ragione).
Vero è che la logica e la convenienza, per i figli di una medesima Madre,
di pregare con una medesima voce il medesimo Padre celeste non è del tutto
esclusa da voi, se in un grande quotidiano cattolico abbiamo potuto leggere, tempo
fa, queste righe: «Uniti nella lingua comune, tutti i partecipanti di diverse
nazioni poterono pregare insieme... Il commovente ricordo di quell'unione di tanti
uomini non più divisi dalla barriera delle lingue, ma ritrovatisi fratelli
di una stessa famiglia, rimarrà a lungo impresso nei cuori di tutti».
Infatti ... ! Solo che quella «lingua comune», da voi ammessa, e con
tutti gli onori, in chiesa, non era il latino (come ci si poteva, il corrispondente
non ci aveva pensato, ingannare) e neanche era una lingua, era un gergo artificiale,
una lingua-«robot»: era l'esperanto, che fuor di chiesa, in altri campi,
può ben avere il suo posto e la sua utilità, ma che lì, nella
Messa, in luogo e vece della «lingua universale», mi sa di «simia
Dei».
Come all'esperanto, le porte di chiesa si sono aperte, s'aprono al «jazz»,
al «twist», a qualunque cosa fuorchè al latino. Per questo, per
il latino, le vostre disposizioni son rigorose: via di chiesa, via dalla Messa, a
meno che la chiesa sia vuota, che nessun senta o veda, ossia (parole vostre) «quando
il sacerdote la dicesse senz'assistenza di popolo»; ossia (vostra ripetizione)
«per le Messe cui non assistono Fedeli» (quasi si trattasse di cosa poco
meno che scandalosa!) Abbiamo chiesto, difatti - in nome di quella grande «democrazia»,
o «libertà», di cui ci avete riempito il capo - che il nuovo rito
fosse facoltativo e ce lo avete negato; abbiamo chiesto che la domenica, nelle chiese
dove si dicon più messe (e in alcune se ne dicono, presenti pure stranieri
d'ogni paese, cinque, sei, sette) almeno una, d'orario, fosse in latino, e, cosa
spaventosamente incredibile, anche questo ci si è negato!
Incredibile, mostruosamente incredibile, ma non illogico per voi, che avete temuto,
concedendo, ciò che noi speravamo, è vero, chiedendo: avete temuto,
come noi sperato - per le conseguenze - il confronto: quel confronto di cui, scusate
l'immagine, diffida la donna male accettata in casa, con una figlia sua propria,
dai figli dell'altra, per cui si dà premura di togliere dalla vista di questi
ogni ritratto, ogni cosa che possa loro ricordare l'altra, la mamma, e farla rimpiangere.
È umano che voi prediligiate la vostra e che vi sembri bella, più bella,
anche se tutti, proprio tutti, anche quelli che la trovano «buona», anche
i vostri amici, la trovano e - «una voce», in questo, con noi - la dichiarano
brutta.
La differenza, in questo, fra i vostri e noi, è che per loro la bellezza non
vale, o val così poco che chiamano, spregiativamente, noi, noi per i quali
essa vale e molto, «estetisti».