SUPER FLUMINA BABYLONIS
lettere dall'esilio


di Tito Casini




«Contra spem in spem»

«E continui, mi raccomando, continui la sua battaglia! La causa è santa e Dio la benedirà...»
Era un venerando vescovo, veterano delle Missioni, che mi parlava, in Roma, cosi, al termine di una davvero «santa» Messa (in latino) e di un successivo colloquio in cui mi aveva fra l'altro fatto capire come il latino in liturgia sia necessario, più che altrove, proprio là dove meno avremmo creduto («necessario», e m'è parso di risentirlo leggendo ieri, in Paris - Match, la risposta dell'arcivescovo di Dakar, monsignor Thiandoum, a Robert Serrou che lo interrogava in proposito: «La suppression du latin dans nos offices, au sein d'une population de pluralité linguistique, est une folie»).
Era una voce così autorevole che avrebbe potuto bastar da sola a convincermi di riprender la penna, se già non avessi scritto, sulla coperta di un fascicolo, le parole che fan da titolo a queste pagine. Parole, è vero, non incuoranti, parole (come ho detto nella prima di queste «lettere») di nostalgia più che di speranza, fatte per compagni di esilio più che di battaglia, e non ad altro, infatti, intendevano che a intitolare ricordi, rievocazioni della bella, della cara patria perduta, dacchè «Sion», la nostra santa Chiesa Cattolica, è in mano ai babilonesi».
Super flumina Babylonis... Esse mi caddero sulla carta in un momento di particolare tristezza, mentre le lacrime mi cadevano materialmente dagli occhi davanti a una nuova frana, a una nuova profanazione di quella liturgia, lingua e riti, che aveva già provocato le mie più gaudiose lacrime di commozione spirituale. Super flumina Babylonis, illic sedimus et flevimus, cum recordaremur Sion! E non perché fosse possibile ma per protestare, per gridar con un giuramento il mio amore a questa divina patria perduta, ripetevo con essi, gli esuli d'Israele, alla mia, alla nostra «Gerusalemme»: «Se avvenga ch'io mi scordi di te, l'oblio colga la mia destra. La lingua mi s'attacchi al palato, se cesserò di ricordarti... se non farò di Gerusalemme la cima d'ogni mia gioia!»
Ricordare significava, per me, staccar dal salice la cetra, riprendere cioè la mia penna d'un tempo e ricantare, come un tempo, i canti di Sion, quelli che piacquero, un tempo, anche a coloro qui captivos duxerunt nos; significava riconoscerci, quali siamo, vinti e prigioni, e, detto per noi addio a ogni illusione di ritorno, dire, mostrare ai «figli», a coloro che verranno, e che non han visto, e a cui è tolto, ora, di vedere, quant'era bella la nostra patria, bella la nostra Chiesa Cattolica, augurandone per loro e da loro la liberazione... Tale il proposito nell'intitolare con quelle parole il fascicolo; ma... quomodo cantabimus canticum Domini in terra aliena? E come rassegnarci a guardare e piangere, seduti all'ombra dei salici, vedendo là in terra nostra i babilonesi, i vincitori, che si eccitano a distruggere, qui dicunt: Exinanite, exinanite usque ad fundamentum, a smantellare una dietro l'altra omnia desiderabilia eius? Ed è cosi che lo sdegno ci ha preso ancora la mano, e sull'elegia del ricordo è prevalsa ancora la saffica, l'invettiva dell'amore che insorge, del dolore che impreca, a Babilonia e ai suoi portati: Beatus qui retribuet tibi... qui allidet parvulos tuos ad petram!

*
* *

I capitoli di questo libro sono stati in prevalenza scritti così, senz'ordine, nell'indignazione che fa il verso, davanti al crollo, annunziato o visto, ora di questa ora di quella parte ancora scampata all'abbattimento avviato nella nostra «civitas sancta» quell'infausto 7 di marzo... Capitoli non tutti o del tutto nuovi per tutti, avendone già pubblicati - e mi scuso, con questo, delle ripetizioni, che non potevo evitare e non mi son qui dato il tempo di togliere - qua e là su giornali e riviste in linea con noi nel detestare lo scempio e nella volontà di resistervi: più «cattolici», anche se non di nome, d'altri che ne hanno il nome e ci si chiede come l'abbiano vedendo come lo portano. Capitoli, a ogni buon conto, datati (seppure con qualche aggiunta, qua e là, posteriore), perchè di scempio in scempio, di abisso in abisso, al punto in cui siamo può accader di stupirci d'esserci ieri stupiti, di sorridere - compatendoci - di ciò che ieri ancora ci fece piangere, e la frana continua.
Fino a quando? Fino a dove? E con quali speranze per noi, i fedeli, gementi sui fiumi di Babilonia o resistenti pur di qua, dall'esilio, perché ad altri, se non a noi, sia concesso rivedere la patria, riudire e ricantare i suoi canti? Con quale opportunità per noi di combattere, di continuare, come che sia, come che avvenga, a combattere? Richiesto del suo pensiero in merito, un nostro amico francese, il padre Louis Coache, fondatore del movimento «Combat de la Foi», rispondeva giorni addietro (Lo Specchio, 2 marzo scorso): «Non so. Dipende da Dio e Dio non abbandona ma può inviare delle dure prove. Ma è nostro dovere lottare. La nostra lotta incoraggia un numero enorme di fedeli. Anche se dovessimo momentaneamente soccombere dobbiamo combattere la buona battaglia. Dobbiamo incoraggiare i fedeli ad essere saldi nella fede - a essere forti nella dottrina - e soprattutto a pregare, a fare qualsiasi sacrificio perchè i meriti della Santa Chiesa ci salvino dall'eresia e dal marxismo, da ogni sorta di deviazione ».
Ecco: dipende da Dio e noi lo pregheremo, non cesseremo di pregarlo, di sollecitarlo: festina, affrèttati ad adiuvandum; non ignorando che se l'aiuto può tardare, se la durezza della prova può farci credere ch'Egli si sia scordato di noi, scordato della sua Chiesa, credere che Dio sia morto, come si bestemmia e si vuole, questo è appunto per nostra prova, e la prova avrà fine. Dio stesso, avvertiva agl'inizi di questo secolo, e dell'alluvie modernista oggi dilagante dalla Liturgia in ogni campo, il nostro santo Pio X, «Dio stesso ci assicura nei santi libri: "Quasi dimentico della Sua forza e della Sua grandezza, dissimula i peccati degli uomini; ma ben tosto, dopo queste apparenti ritirate, scosso quasi fosse risorto dall'ebbrezza, stritolerà il capo dei Suoi nemici, affinchè tutti conoscano che Dio è il Re di tutta la terra e sappiano le genti che son uomini"». E aggiungeva, incitando anch'egli, il grande Papa, alla preghiera e alla lotta: «Tutto questo noi crediamo e aspettiamo con fede incrollabile. Ma ciò non toglie che ancor noi, per quanto a ciascuno è dato, ci adoperiamo di affrettare l'opera di Dio; non già solo pregando assiduamente: "Lèvati, Signore, non prenda ardire l'uomo -, ma affermando, "con fatti e con parole, a luce di sole, il supremo dominio di Dio sugli uomini e su tutte le cose..."»
Noi pregheremo dunque lottando, lotteremo pregando, e chi sa? Chi sa che non sia dato a noi stessi ciò che, invidiando, fatichiamo perchè ad altri sia dato? Che anche per noi non sia la promessa che confortò nella sua amarezza il Profeta? «Dice il Signore: "Saranno portati in Babilonia e vi rimarranno, fino al giorno in cui li visiterò e li farò riportare e restituire in questo luogo... Voi m'invocherete e io vi esaudirò... vi ricondurrò dal vostro esilio... e uscirà da loro un cantico di lode e voci di giubilo... I loro figli saranno come per l'addietro... Muterò il loro lutto in gaudio, e voi sarete il mio popolo e io sarò il vostro Dio"».

Ci affretti Lei, la nostra Regina, Regina delle Vittorie, quel giorno!

(Aprile 1969)


precedente

indice di
«Super Flumina Babylonis»

home

prossima