Il latino, Eminenza,
qui sta in omaggio: per dirvi, fino dall'indirizzo, con Stazio, ciò che questa
lettera, dopo quella, viene a dirvi: Voi avete vinto!
Avete vinto, ed è il vinto che ve lo dice, all'inizio di queste sue nuove
pagine, che se parranno, come sono, d'uno che non s'è arreso, d'uno che sèguita
a combattere, tradiscono già dal titolo come il rimpianto - la nostalgia del
perduto - prevalga in lui sulla speranza.
Avete vinto, ed è lealtà da parte mia il dirvelo, non potendo io
non riconoscere, oltre a tutto, in Voi una tempra, un carattere cui è giocoforza
inchinarsi. «Io debbo resistere e reagire, anche lottando fino al sangue, per
salvare non me ma la Riforma...» È cosi che, informandolo dell'attacco
da me sferrato «contro l'opera della Riforma liturgica», da Voi impersonata,
Voi dichiaraste al vostro amico e confidente Bedeschi; e pur trovando esagerato,
in una lotta del genere, il parlar di sangue, io ho ammirato sinceramente - io che
non dubito della vostra retta intenzione nel voler distrutto ciò che io difendo
- il vostro cosi manifestato proponimento... Usque ad effusionem sanguinis! È
una divisa che raramente s'incontra, di questi tempi in cui i cardinali buttan la
porpora, simbolo per l'appunto del sangue che devon esser pronti a versare per la
causa di Dio, e ad instar dei loro preti, licitati o spinti da loro stessi
(lasciando al Papa le sue pur recenti lagnanze sui sacerdoti che voglion essere come
tutti gli altri uomini «a cominciare dall'abito»), vanno alla borghese
in calzoni e giubba, ridicoli quanto si vuole ma tanto meno impegnativi.
Comunque disposto - e forse intendendovi solo metaforicamente impegnato a pagare
un cosi alto prezzo per la salvezza della Riforma - la Riforma è salva
e Voi trionfante, ed è probabile che Voi stesso abbiate trovato eccessivo
intitolar la vostra vicenda Il Martirio di Sua Eminenza, come fa Cesare Falconi
su quell'Espresso che con tanto zelo difende la vostra causa. Esso martirio,
«iniziò», dice per l'appunto il Falconi, «ai primi di aprile
1967, quando nelle vetrine di tutta Italia apparve un libello intitolato "La
Tunica stracciata". Il suo autore, Tito Casini, accusava fra l'altro l'arcivescovo
di Bologna di essere, con la riforma liturgica da lui impostata attraverso il Consilium,
l'eretico più esiziale alla Chiesa cattolica, da Lutero a oggi» eccetera
eccetera... e caso vuole che negli stessi primi di aprile di due anni dopo io venga
con questa a dirvi che ho perso.
Voi avete vinto, torno a ripetervi; e, «dimesso» o «dimissionato»
o «destituito», i vostri idi di febbraio non furono che una momentanea
disgrazia, una breve sosta nell'avanzata, un fugace ecclisse da cui il vostro astro
di riformatore uscì più nitido e fulgente ad currendam viam,
quel resto di via che vi era rimasto quando con la vostra ordinanza ai vescovi dell'agosto
precedente li informavate che la Riforma marciava verso «l'ultima tappa»:
la definitiva cacciata del latino dai riti della Chiesa latina. Voi avete vinto:
vinto al di là delle vostre medesime previsioni, e basti dire che dell'«ultimo
baluardo», il Canone, in cui il latino s'era arroccato, non resta, da questa
IV di Quaresima di questo 1969, non resta più neanche il nome.
Laetare, dunque, Eminenza (lasciando che noi, per la Chiesa intoniamo oggi il
Plange), che il vostro trionfo esser più pieno: se un Cardinale vi
aveva detto in faccia: «Basta!» (come Voi stesso confidaste all'amico),
una voce ben più autorevole vi ha detto: «Ancora», e di avervi
momentaneamente fermato vi ha chiesto poco meno che scusa.
*
* *
Sì: chi vi disse,
quel giorno: «Vai», non ha tardato a dirvi «Ritorna»: e solennemente
e ripetutamente, a, parole e coi fatti, ha voluto dirvelo, sia ricevendovi, poco
dopo, in particolare udienza per riconfermarvi (come dettato all'Osservatore
Romano) «il Suo alto apprezzamento e la Sua stima per l'opera assidua e
saggia» da Voi prestata «quale Presidente del Consilium ad exsequendam
Constitutionem de Sacra Liturgia», sia per gratitudine, suo legato al Congresso
Eucaristico di Bogotà, con una lettera, in italiano, che il Falconi definisce
«calorosissima»: una lettera, è più che vero, tutta riboccante
di elogi, fra cui e principalmente quello di aver «dato impulso alla riforma
liturgica, già maturata nel suo animo, attraverso varie iniziative precorritrici»
(deroganti, cioè, alla legge in vigore), «con un lavoro a cui resterà
perennemente legato il suo nome». E come deve aver goduto il cuor vostro sentendo
il Papa, lo stesso giorno (nel suo discorso agli scrittori di Latinitas),
rivolgere le sue censure a coloro «qui, cum sint nimii vetustatis servandae
cultoribus ob inane quoddam pulchritudinis studium, vel quibuslibet rebus novis praeiudicata
opinione adversi, recens invectas mutationes acribus notavere verbis», e
avvertire che non se ne tenga conto: «ne... inferantur impedimenta aut freni
adhibeantur»! Il vostro disprezzo per gli «estetisti» (per coloro
che, come detto argutamente da Voi, «vanno in estasi per un pezzo di corda»:
il Sursum corda del Prefazio), il vostro vanto d'esser sempre stato un «innovatore»,
non potevan certo aspettarsi eco più gradevole.
Tanto elogio nullum par, e ne godo. Se ciò non bastasse a tranquillizzarmi
- dico a credervi riparato delle mie acri parole a vostro riguardo - vi direi di
metter nel conto tutto quello che in vostro onore i vostri amici, verdi, rossi e
di misto color cattolico-progressista, mi hanno rovesciato addosso di contumelie
per la vostra temporanea caduta, attribuendomene almeno in parte la colpa con quel
giudicar passionale con cui «si fa alle volte gran torto anche ai briganti»:
cosa che Manzoni dice per don Rodrigo e vedete se non è il mio caso sentendo
ciò che, fra gli altri, scrive sul Figaro quel famoso abbé Laurentin:
«L'an dernier, une attaque particulièrement sévère fut
faite sous la forme d'un pamphlet, rédigé par l'écrivain Tito
Casini... Mgr Lercaro y était tout simplement accuse de trahir le Concile
et de "déchirer la tunique sans couture du Christ". Cet affront
était survenu, par manière d'intimidation, avant une réunion
importante du Conseil liturgique: celle qui prévoyait le réforme du
Canon...»
«A modo d'intimidazione»...! A chi non vien di pensare ai bravi del
signorotto incaricati di dissuader don Abbondio dall'idea di far quel tal matrimonio?
Con una variante, se vogliamo, ossia incolpandovi, io, di far guerra a ciò
che nel concetto di quelli era segno d'istruzione e d'intelligenza: «Oh! suggerire
a lei che sa di latino!» Voi volete per l'appunto che in chiesa non si sappia
più di latino.
Sia come sia, le mie pistole, o pistolotti, il mio «pamphlet» e il
mio «affront», non hanno impedito che il matrimonio si facesse, e il
mio scorno e la vostra gloria non posson esser stati minori per il fatto che a celebrarlo,
a toccar col Canone scanonicato l'«ultima tappa», non siate stato Voi
di persona. Già si sapeva che dir Voi, fra i membri del gran Consilium, era
lo stesso o meno che dir Bugnini e Bugnini è rimasto.
*
* *
Bugnini è rimasto,
senza cadute, senza ecclissí (mentre scomparivan nell'ombra, colpevoli di
aver tentato di frenare la marcia, uomini come il cardinale Larraona), e Voi ne avete
certamente goduto essendovi cosi risparmiato, per la sorte della Riforma, il «s'io
vo chi resta?» di Dante. Con Bugnini voi siete andato e siete restato. Bugnini
vi è succeduto - lasciando all'altro, il benedettino, il titolo - e succeduto
con propositi e rivelatosi già con atti che ci ricordano il discorso di Roboamo
a chi si doleva del giogo imposto al popolo da Salomone: «Il mio dito mignolo
è più grosso del dorso di mio padre». L'antiromanesimo che vi
fece subito cercar di lui quando vi accingeste all'impresa di sromanizzar la Chiesa
Romana, par che sia in lui quasi un istinto, un omen legato al nomen
di Annibale, se non vogliamo pensare addirittura a un impegno sacro, come quello
che lo storico ci riferisce del Cartaginese: «Hunc adbuc impuberem iureiurando
ante aras pater adstrinxisse fertur, ut, quam primum per aetatem liceret, arma contra
Romanos sumeret...» Aggiungete, Eminenza, la carica di Delegato per le Cerimonie
Pontificie, conferita ben anche in omaggio a Voi, caduto e rialzato - a questo vostro
luogotenente, e vedete se occorra impegnarvi al sangue per la salvezza della vostra
Riforma o dubitare dei suoi «sviluppi» fino a... Fin proprio a dove non
lo sappiamo, ma sappiamo che giorni addietro il padre Bugnini, nella sua qualità
di Delegato come sopra, ha proibito, per l'arrivo del Papa in una grande chiesa di
Roma, il canto del Christus vincit perché «trionfalistico»,
ha ridotto a una sola strofa, dove non si parla di «re», il Vexilla
Regis, lavora, come si dice, a far fuori, per la stessa ragione, la festa di Cristo
Re, e chissà che per la ragione stessa non si riformin Pater e Credo
mettendo «repubblica» al posto di «regnum» e «regni».
Nolumus hunc regnare super nos? Lasciando star se questo rientri negli «sviluppi»
della Riforma, certo è che «presidente» suona meglio, è
più democratico di «re»; e via, intanto, via del tutto, via per
sempre il latino, che quel trionfalista di Pio XII definì addirittura «lingua
imperiale»: «basilikè glossa, quae vera non enuntiat sed
sculpit».
Non ignaro che anche a papa Paolo sono sfuggite espressioni consimili, non immemore
di quella sua Sacrificium laudis dove il concetto ripetutamente risuona -
«... preces illae, antiqua praestantia ac nobili maiestate praeditae...
Sermo ille, Nationum fines exsuperans et mirabili vi spirituali pollens...»
- padre Bugnini, dal suo alto posto, veglia e sorveglia; e, pur guardando con occhi
di desiderio, noi non vediamo, all'orizzonte, nulla che v'impedisca di riposar sugli
allori, nulla che seriamente minacci le vostre conquiste: chi osò levarsi
contro, agli inizi, e restare in campo nonostante la reazione fierissima dei vostri
fedeli, vi dice, vi ripete, oggi, lealmente: Voi avete vinto.
Vinto, Voi avete, e il vostro nome è glorificato, più che a Voi
stesso, vogliamo credere, non piaccia. La religione dell'Isolotto vi annovera e vi
proclama, insieme al Torinese, al Ravennate, al Chietino, tra i suoi massimi profeti
e apostoli. È d'ora, di questo 30 marzo, domenica delle Palme, la marcia dei
missionari mazziani attraverso la mia città, durante la quale, voltando con
ostentato disprezzo le terga alle nostre chiese, «le chiese degli oppressori»
(la Cattedrale, in primo luogo, senza un riguardo al fatto che in essa s'era pur
poc'anzi solennemente pontificato il Vespro in vernacolo, ossia in rito vostro -
con quale raccapriccio dei nostri santi vescovi ivi sepolti, da san Zanobi al santo
Elia Dalla Costa!) si sono lette e acclamate pagine vostre, e anche in vostro nome
si è rivolto «a fratello Giovan Battista» l'invito a convertirsi,
anche lui, a farsi anche lui un isolottiano, che, sarebbe per lui l'unico titolo
per poter legittimamente godere di un tal qual primato, inter pares: «Noi gli
diciamo» ( «a fratello Giovan Battista»): «Esci dal Vaticano
e liquida le strutture della Chiesa; rinuncia così alla ricchezza e al potere:
in tal modo potrai davvero essere il primo fra i cristiani». Al «cittadino
Mastai», «quel di sé stesso antico prigionier», il massone
Carducci rivolse già similmente, col «tu», seppur con meno confidenza,
l'invito a uscire (senza chiedergli, sia pur detto, di buttar giù San Pietro
e liquidare la Chiesa), e vogliam credere che similmente a Pio IX risponderà,
non rispondendo, Paolo VI, sebbene a Questi l'invito sia rivolto con la commenda
di una porpora, la vostra, nello spirito, per l'appunto, e nella logica di una Riforma
che da Voi rivendica le sue premesse, le sue origini, le sue prime mosse; resta,
però, che nonostante le sue e vostre vicende, la vostra Riforma è salva
e avanza: resta che Voi avete vinto - e a noi, i vinti, non rimane che domandarci:
Per sempre?
*
* *
Per sempre? La speranza,
la tenace speranza che mi faceva scrivere, rispondendo a chi temeva o contava ch'io
desistessi: «Propter Sion non tacebo, non quiescam, donec egrediatur splendor»,
non è caduta, pur facendosi più malinconica, per l'ispessirsi delle
tenebre che gli «sviluppi» della Riforma hanno addensato sopra la Chiesa;
ed è per questo che ho impugnato ancora una volta la penna. Victrix causa,
vorrei dire, diis placuit, sed victa Catoni; preferisco, come cristiano, il
Contra spern in spem di san Paolo, pur pensando che il cielo possa farsi ancora
più chiuso, che l'abisso possa chiamare l'abisso verso profondità ancor
più paurose, per difficile che paia al punto in cui siamo: il punto detto
pur ieri, 2 aprile, dal Papa: «Soffre oggi la Chiesa? Figli, Figli carissimi!
Sì, oggi la Chiesa è alla prova di grandi sofferenze! Ma come? Dopo
il Concilio? Sì, dopo il Concilio!... Soffre per l'abbandono di tanti cattolici
della fedeltà, che la tradizione secolare le meriterebbe... Soffre soprattutto
per l'insorgenza inquieta, critica, indocile e demolitrice di tanti suoi figli, i
prediletti - sacerdoti, maestri, laici, dedicati al servizio e alla testimonianza
di Cristo vivente nella Chiesa viva -, contro la sua intima e indispensabile comunione,
contro la sua istituzionale esistenza, contro la sua norma canonica, la sua tradizione,
la sua interiore coesione; contro la sua autorità, insostituibile principio
di verità, di unità, di carità; contro le sue stesse esigenze
di santità e di sacrificio; soffre per la defezione e lo scandalo di certi
ecclesiastici e religiosi, che crocifiggono oggi la Chiesa...» E («per
la prima volta dopo molti secoli», come si è rilevato: «dal tempo
dell'abbandono della Chiesa da parte di Enrico VIII d'Inghilterra, un Pontefice»,
in lui), «ha parlato apertamente di "scisma"»; ha parlato,
aggiungiamo, di «un'attività», interna alla Chiesa, «guidata
da tendenze apertamente centrifughe» - e come non veder la prima di queste
nella guerra alla «sua lingua propria», «vincolo della sua unità»,
il latino?
Ma io m'accorgo, a questo punto, di non parlare più a Voi, Eminenza, sibbene
ai miei amici - ai tanti amici che in tanti modi mi hanno esortato a non tacere -
e per essi vi lascio ai vostri, non senza e con Voi e con loro scusarmi se avessi
anche in queste pagine parlato più forte che non dovessi, dimenticando per
l'amore della verità la verità dell'amore.
Prostrato al bacio del sacro anello. vi prego, Eminenza (tollerate che vi chiami
e vi ossequi ancora così, riservando ad altri come me o il mio calzolaio espressioni
più democratiche), di accordarmi la vostra ambita benedizione.
Firenze, 7 aprile 1969.
TITO CASINI