Che cosa ci sarebbe di
male? Davanti a Dio e davanti agli uomini (ragionevoli), nulla; ma davanti ai «nuovi
preti», davanti ai «cattolici progressisti», ci sarebbe magari
tanto da farmi andare in galera.
Non sarebbe, il mio, il primo caso, e per chi non lo sapesse riporto questa notizia
da Detroit: «John Tamplin, di 58 anni, e la sua figlia Margaret, di 19 anni,
saranno processati sotto l'accusa di aver disturbato i servizi religiosi rispondendo
in latino alle Messe che venivano celebrate facendo uso della lingua inglese. I due
sono stati denunciati dal vice parroco della Chiesa Cattolica di Santa Rita, di Detroit,
padre Charles Zeeh. John Tamplin e la figlia non hanno fatto dichiarazioni. Il loro
legale ha dichiarato che i due sono innocenti e ha versato per loro una cauzione
di 100 dollari». Sappiamo che il processo c'è stato e che il vice parroco
l'ha avuta vinta: i due sono finiti in prigione. Così, con l'aiuto dello sceriffo,
il padre Zeeh non sentirà o non ha sentito più, per un pezzo, rispondere
et tibi, pater, rispondere: et cum spiritu tuo, rispondere:
et in terra pax eccetera eccetera; e noi, nemici delle parole grosse, noi
non li diremo, per questo, padre e figlia, martiri o sia pur confessori. Diremo solo
che ai « novatori », spregiatori acerrimi del Medioevo e anticostantiniani
arrabbiati, non ripugna ricorrer contro di noi al braccio secolare, forse
rimpiangendo, per noi, per i nostri scritti, se non il rogo per lo meno l'Indice,
abolito con tanto loro giubilo per gli scritti contro la fede e la morale. Non
per nulla nelle lettere che mi si mandano (e non credevo, in verità, di aver
tanti amici!) si loda di coraggioso il mio libro, come se fosse coraggio, per un
cattolico, valersi del rationabile obsequium raccomandato dall'Apostolo, per
citare - magari a voce un po' alta - atti conciliari e papali che fanno parte del
Magistero.
Non di martiri, dunque, noi parleremo, o sia pur confessori, nè, per quanto
riguarda me, di «coraggio», pur ricordando quelle parole di Camus nella
Peste: «Arriva sempre un momento nella storia in cui chi osi dire che
due più due fa quattro è punito con la morte». Chi mi ha dato
del texano, per il mio libro (dove si sostiene, precisamente, che due più
due non fanno cinque, che Linguae Latinae usus servetur non si traduce: «l'uso
della lingua latina sia proibito», che Thesaurus Musicae sacrae summa cura
servetur non si traduce: «via Palestrina, via Perosi e avanti la Messa-yè-yè
») non mi augurava per certo la fine di Oswald; e la consolante certezza
che due più due torneranno a far quattro, che l'errore è dei banchi
e non della Cattedra, mi risparmia pur la più amara delle due pene dette dal
padre Sertillanges: «Soffrire per la Chiesa non è niente: il duro è
soffrire per parte della Chiesa» (da non confondersi, giova ripetere,
con le persone degli ecclesiastici).
Questa certezza non consolò, forse, o non abbastanza, il fragile cuore di
un sacerdote tedesco, il reverendo Burckarhart, non unica «vittima» della
«messa nuova», come dirò per non dir «martire» della
Messa (e morda ancora, se vuole, chi già mi morse per via di questa maiuscola).
È uno dei due di cui ho parlato a proposito di «sentimentali»
in quelle mie pagine, e torno a parlarne in queste perchè su lui ho avuto,
da una sua figlia spirituale, notizie che mi han commosso più della semplice
cronaca giornalistica circa il suo caso.
Per il reverendo Burckarhart l'avvicinarsi del 7 marzo 1965 era un pensiero che non
gli dava requie. La Chiesa «cattolica» che tutt'a un tratto s'intedeschiva
rinnegando la propria lingua, la propria sacra sublime lingua, predestinata a salvaguardia
della sua unità nella sua universalità! Era mai possibile? Possibile,
dopo tante gloriose lotte sostenute e vinte dai padri a difesa della propria «romanità»,
che fosse Roma a dire e comandare di rinunziarvi, facendo suo il «los-von-Rom»
(«via da Roma!») del Kulturkampf protestante e nazionalista? Ne
soffriva, per sè e per la Germania cattolica, quasi fisicamente: quasi un
tralcio che si sentisse recidere dalla vite materna e fosse la vite stessa a reciderlo,
a staccarlo, ad allontanarlo da sè. Ich trete hin zum Altare Gottes...
Le sue labbra si stringevano, come per istintiva avversione, all'idea che quelle
dure parole nuove e vernacolo avrebbero dovuto da quel giorno prendervi il posto
delle eterne, familiari a tutti e da tutti amate: Introito ad Altare Dei... Seguiva
con lui, alla televisione, una solenne cerimonia papale colei che m'informa di queste
cose, e le sorrise, mesto, annuendo, allorchè essa battè giuliva le
mani all'immagine del cardinal Bacci. O belle agli occhi miei tende latine...!
ed è lei che, colta di poesia italiana, gli presta il sospiro di Erminia
alla vista dell'accampamento cristiano... Non osa dir s'egli facesse anche sua l'invocazione:
Raccogliete me dunque ... ma la sua tristezza era tale, quella vigilia del
7 marzo, che si può credere egli abbia chiesto a Dio, coricandosi, di risparmiare
alle sue labbra quelle dure parole nuove. La mattina, chi andò a chiamarlo,
visto il suo insolito ritardo a scendere per la Messa, lo trovò morto nel
suo letto: sereno e lieto nel suo viso come se le sue labbra dicessero: Introibo
ad Altare Dei, o parlasse già di lassù: ...ipsa me deduxerunt
et adduxerunt in montem sanctum... Il giovane sacerdote che celebrò, poco
dopo, e già si era preparato alla messa nuova, giunto all'altare si voltò
e disse: «La Messa sarà in latino... tutta in latino». E il popolo
fu contento di poter continuare a rispondere: Ad Deum qui laetificat...
Non ho avuto modo di assistere, nel giugno scorso, alle esequie del mio povero caro
amico don Lorenzo Dilani e non so se anche per lui, devoto del buon papa Giovanni,
furono nella « ingua materna dei figli della Chiesa», come il buon papa
Giovanni, nella sua Iucunda laudatio, chiamò il latino... Partivo e
dovetti contentarmi di visitarne, in casa, la salma, che trovai circondata, stretta
da popolani, donne e uomini, in atto di dire il rosario: Ave, Maria, gratia plena,
Dominus tecum... Era popolo, tutto autentico popolo: quel popolo ch'egli aveva
amato di vero amore, pur se in forme, talvolta, che sembravano aver dell'odio, certo
del non-amore, per gli altri, i «signori». Per il popolo egli aveva pubblicato,
poc'anzi, il suo ultimo libro: quella Lettera a una professoressa, dove il
latino, sempre per ragione del popolo, era trattato da... signore, e lo aveva sostenuto
anche parlando con me, autore pur d'una recente Lettera (che non aveva ancora
letto): «S'ha bisogno di lingua d'oggi e non di ieri... perchè è
solo la lingua che fa eguali». E proprio con questo, io gli avevo risposto:
il latino è appunto la lingua che fa eguali: europei e americani, bianchi
e neri, nord-vietnamiti e sud-vietnamiti, «popolo» e «signori».
Antinazionalista (fin quasi all'internazionalismo) e perciò antibellicista
(fino al suo più che noto antimilitarismo), egli aveva accusato, restando
muto, il valore dell'argomento, tanto più che glielo avevo portato con le
parole, a lui nuove, della Veterum e della Iucunda laudatio, del buon
papa Giovanni... Dovevo rivederlo cosi, fra quei popolani che dicevano per lui il
rosario. Aveva sulle labbra quel suo sorriso (senza più traccia del sarcasmo
che noi pur gli conoscevamo), il sorriso che aveva per i suoi ragazzi e i suoi poveri,
e pareva che anch'egli (avevano anche a lui messo fra le mani una corona) lo dicesse
con loro: Sancta Maria, mater Dei, ora pro nobis peccatoribus... Non ho assistito,
come dicevo, alle sue esequie, e non so se gli abbiano risparmiato il ridicolo, la
domanda «che avvocato inviterò?» del nuovo, del tradotto Dies
irae, l'eresia, l'appello al Dio che salva chi vuole... Certo che Dio
(il Dio nostro, non dei traduzionisti, non di Calvino) ha guardato al merito, alla
carità praticata, alla sofferenza accettata, io lo vedo, ora, lassù...
dove spero pur di raggiungerlo, e invoco per questo le sue preghiere.