Già, perchè
il telegramma, che di per sè non diceva nulla e anzi anzi, contro il mio libro,
aveva per altro una presentazione, anonima, ossia ciò che in giornalismo si
chiama precisamente un «cappello», che, potendosi attribuire all'autore
stesso del testo, il cardinal Cicognani, consolò non poco i delusi, che si
diedero a buccinarla a gran fiato, non senza insinuare che a dettarla poteva essere
stato (troppo onore, per me!) il Papa in persona. Essa diceva, comunque, che il telegramma
era stato scritto e spedito «con riferimento a spiacevoli pubblicazioni in
materia liturgica», e buon per me che potei subito esser certo che l'anonimo
non nascondeva nomi tanto alti: che si trattava addirittura di un cappello borghese,
seppure di una cappelleria vaticana, come poi rivelò il Borghese riducendone
le dimensioni e dichiarandone l'appartenenza: «... un breve "cappelletto"
dell'Osservatore Romano, dovuto alla penna del vice-direttore Alessandrini».
Respirai, e voi mi capite. Alessandrini? Io lo conosco e lo stimo molto, per la sua
salda fede e la sua colta penna, ma i suoi cappelli non hanno, per me, autorità
religiosa, ed è ridicolo che altri gliel'attribuisca a mio danno: altri che
stentano a riconoscerla alla Tiara. «Un dispaccio», scriveva sulla stessa
rivista, parlando del mio libro e della vicenda, Fabrizio Sarazani, «non comporta
l'obbligo dell'obbedienza», e tanto meno, io credo di poter dire, un... cappello,
sia pur d'un bravo giornalista cattolico come Alessandrini.
Tant'è vero che neanche il cappello finì per soddisfare e placare gl'irritati
numi, e io... io mi segnai e pregai - come m'insegnava a far la mia povera mamma
quando un lampo guizzava nel cielo scuro - allorchè, il 19 aprile, lessi nei
giornali o sentii alla radio questa notizia da Roma: «Stamane Paolo VI ha ricevuto
in udienza privata il cardinale Lercaro, presidente del "Consilium" per
l'esecuzione della riforma liturgica. È prevista per domani l'udienza del
Papa ai membri del "Consilium"». Dopo il lampo viene il tono:
Gesù Cristo s'è fatt'omo} s'è fatt'omo di Maria per salvar l'anima
mia, e mi raccomandai proprio a Lei, la Madonna, che, se non pure dal tono, mi
scampasse dal fulmine (soprattutto per i miei cari, che trepidavano per me assai
più di me). Sappiamo che quell'incontro, chiesto dal cardinale Lercaro, fu
lungo: segno forse che le cose non andarono tanto lisce, ma all'uscita il suo volto
pareva comunque dire: Vixerunt. Il giorno dopo, infatti, il Papa parlò
[Si tratta del Discorso di Paolo VI a chiusura dell’VIII sessione plenaria del
«Consilium ad exequendam Constitutionem de Sacra Liturgia»; vedi
http://tinyurl.com/2wjb3e (N. d. R.)].
Parlò di me, del mio libro, parlò in solenne seduta, parlò in
solenne latino... e non crediate che io voglia, magari per quest'ultimo fatto, interpretar
come un encomio un discorso che il Corriere della Sera definì «un
severo biasimo» e la rivista succitata «una sventola pontificia di cui
Tito Casini ancora conserva il rossore». Pur nondimeno, io non sono affatto
pentito, io sono più che mai sereno per quello che ho scritto, in Dei honorem,
Ecclesiae Sanctae decorem, e ardisco credere, dico di più, ho ragion di
credere, che la mano che mi ha colpito non nascondesse, sotto o in un con la «sventola»,
una benedizione.
Lo dico riferendomi alla riluttanza e al lungo indugio con cui - secondo l'organo,
informatissimo, dei radicali - Paolo VI avrebbe accolto la pressante e poco meno
che ultimativa richiesta del Cardinale; lo dico dietro la sfacciata affermazione
dell'Unità (Alberto Chiesa): «Il Papa è stato costretto
a tributare a Lercaro un pubblico attestato di solidarietà»; lo
dico in base a quello che, sul Borghese, ha scritto un Bussolante che
se non in Vaticano deve stare almeno da quelle parti: «Non soddisfatto di un
telegramma papale, vagamente laudativo, l'Arcivescovo di Bologna si è recato
in udienza privata dal Pontefice, sollecitando un più forte intervento»
(e, nella stessa rivista, lo Svizzero aggiunge che, «il giorno successivo
al discorso pontificio», il Cardinale uscì da una nuova udienza «scuro
in volto e amaro nei commenti, quasi che, invece di un elogio, avesse subìto
una reprimenda »); lo dico (per raccogliere, tra le tante, anche qualche
voce straniera) leggendo su L'Aurore (Georges Merchier), già a proposito
del telegramma, che «en publiant le texte, L'Osservatore Romano s'est
contenté d'évoquer le livre de Casini en parlant de "regrettables
publications en matière liturgique"», e su Le Monde (Jacques
Nobecourt), che io, che noi avremmo «visiblement compté sur l'inquiétude
légitime del Paul VI, qui n'écarte de lui aucune voix, et sur sa compréhensible
préoccupation de prudence...»
La prudenza, già: la grande virtù che il Papa non cessa di raccomandare
al vento, ossia agli arbitri della Riforma (O rebus meis infideles arbitrae! è
Orazio, e par la voce del Concilio), e io ricordo, fra le altre, le sue parole al
gran Consilium di due anni addietro: «... est res tantae prudentiae,
tanti momenti, tantae difficultatis...»; la sua preoccupazione che la loro
opera «expectationi Ecc1esiae et fidelium fortasse non respondeat»; il
suo richiamo al rispetto dei sacri testi, per tanti titoli venerandi: «antiquitate,
pietate, pulchritudine, diuturno usu venerabiles»; il suo monito a tener presente
che le loro versioni sarebbero state non più, come quelle dei «messalini»
già in uso, «subsidia populi», ma sostanza, ma parte dei sacri
riti, «partes ipsorum rituum», ma voce della Chiesa, «factae sunt
vox Ecclesiae»; ricordo, sempre di quel suo discorso, il ripetuto avvertimento
(conforme alla Costituzione liturgica) che il latino «venustas et ubertas Romani
eloquii, quo per saeculorum decursum in Ecclesia Latina Deo est supplicatum»,
si può solo in piccola parte omettere, «sunt ex parte amissae»;
e l'insistenza con cui si dice e ridice che il nuovo sia il meno indegno possibile
dei riti altissimi cui ha da servire, «dignus sit oportet rebus celsissimis,
quae eo significantur...»
Parole, si direbbe, d'uno che esita a concedere pur quel poco che il Concilio ha
concesso (non ordinato, non «esigito», come porta la loro presentazione
italiana) e a cui si è risposto traducendo e imponendo TUTTO, e tutto in maniera
così platealmente volgare che mai quest'aggettivo convenne meglio alla cosa,
e ne trabocca il disgusto in chi ha un minimo di gusto... come questo Dino Marranci,
un sacerdote della mia diocesi, che così scrive (forse pregiudicandosi col
suo coraggio un possibile monsignorato) al giornale diocesano: «Quale disagio
continuare con questo testo italiano così umiliante! È una vergogna
per tutto il clero italiano continuare a leggere in chiesa simili aberrazioni. In
qualche Messa vi sono sfilate di spropositi di grammatica e di dottrina alle volte
veramente incredibili»: parole che mi riportano naturalmente a quelle da cui
ho deviato, perchè se in quelle il mio libro vien deplorato per la forma,
ciò che accade in campo liturgico vien deplorato, e assai più a
lungo e in termini ben più duri, per la sostanza, ossia per i motivi
per cui il mio libro è stato scritto: la violazione delle norme conciliari
in materia, l'umiliazione e la profanazione del culto, contro gli avvertimenti e
i richiami del Papa stesso, che bollò già gli smaniosi demolitori di
ciò che «per saeculorum decursum» era stato legge e onor della
Chiesa, con l'epiteto d'«iconoclasti».
Nella parte stessa che mi riguarda - la «sventola» - c'è un punto,
c'è un'affermazione che mi ristora, come un soffio di ponentino sul viso che
brucia. Brucia, difatti, sentire il Papa rammaricarsi, con tutti quei Venerabiles
Fratres ac dilecti filii del Consilium, per il mio libro, sia pure in
quella benedetta lingua e in termini così condegni come quelli che ognuno
lesse sui giornali o ascoltò, quel giorno, trasmesse e ritrasmesse dalle antenne
della radio-tv (installate, si sarebbe detto a giudicare dalla frequenza, sulla torre
della Garisenda): «Tacere nequimus de amaritudine animi Nostri propter... oppugnationem
iniustam parumque reverentem, scripto typis nuper edito illatam Iacobo Cardinali
Lercaro, Praesidi illustrissimo et eminentissimo eiusdem Consilii. Cui quidem scripto,
ut patet, Nos non consentimus...» Brucia, per me, questo «non consenso»
- pur volendolo interpretare per qualche cosa di meno netto di un «dissenso»
- ma non so se sia stato zeffiro per chi ascoltava sentire il Papa passar così,
dalla forma alla sostanza, alla finalità dello scritto, «idest
defensio linguae Latinae in sacra Liturgia servandae» (evidentissimo letterale
richiamo alla Costituzione liturgica: Linguae Latinae usus servetur): «quae
certo est quaestio», aggiunge ben di proposito il Papa, «digna ad quam
diligenter attendatur»: e la risposta, diciamo subito, a questo richiamo, a
quest'ammonizione del Papa è stata l'Instructio altera che ha risolto
radicalmente la quaestio dando al latino il colpo di grazia, proprio come
a un «cane lebbroso», cacciandolo cioè, anche dal Canone, ultimo
suo nascondiglio.
E veniamo a loro. «Sed alia de causa», continua il Papa (ed è
un sed che qui val ben di più), «afficimur maerore ac
sollicitudine...» E sono (proseguiamo, per i volgaristi, in volgare)
«gli episodi d'indisciplina che in varie regioni si diffondono nelle manifestazioni
del culto comunitario, e che assumono spesso forme volutamente arbitrarie,
alcune volte totalmente difformi dalle norme vigenti nella Chiesa, con grave turbamento
dei buoni Fedeli e con inammissibili motivazioni, pericolose per la pace e l'ordine
della Chiesa stessa...» Episodi di una tendenza, «quaedam propensio»,
che di aberrazione in aberrazione porta a dissacrare la Liturgia, se così
potremo ancora chiamarla, «eo tendens ut Liturgia, si hoc nomine adhuc appellari
potest, "sacra indole exuatur" » e con essa, di conseguenza (come
a dir che l'abisso chiama l'abisso), la stessa religione cristiana,
«et una cum ea, quod necessarie consequitur, ipsa christiana religio».
Questa «nuova mentalità», incalza il Papa (e torniamo al volgare),
«di cui non sarebbe difficile rintracciare le torbide sorgenti e su cui tenta
di fondarsi questa demolizione dell'autentico culto cattolico, implica tali sovvertimenti
dottrinali, disciplinari e pastorali, che Noi non esitiamo a considerarla aberrante;
e lo diciamo con pena, non solo per lo spirito anticanonico e radicale che gratuitamente
professa, ma per la disintegrazione religiosa, ch'essa fatalmente porta con sè...»
Riferendo il discorso, una rivista francese, Nouvelles de Chrétienté
(8 juin) ha scritto: «Après l'affaire Casini, le Saint-Père
a défendu le cardinal Lercaro mais il a profité de cette occasion pour
ajouter des paroles graves qui ont du consoler le coeur de l'artiste et poète
qu'est Tito Casini...» È vero, è logico, ed è per questo
che quella sera, dopo avere spento il televisore che ripeteva ancora e ancora il
discorso, me n'andai come sempre a innaffiare i miei ciclamini (i miei famosi
ciclamini!) mentre il telefono seguitava da ogni parte a chiamarmi per farmi
saper che si era con me.
Anche in Italia i giornali più spassionati interpretavano in tal senso il
discorso, e cito fra i maggiori il Tempo (Fausto Gianfranceschi), secondo
il quale «più significativi» del biasimo «sono tutti gli
altri passi del discorso in cui Paolo VI ha ricordato il principio conciliare di
non introdurre innovazioni se non quando lo richieda una vera e accertata utilità
della Chiesa... ha denunciato con accorate parole la tendenza a "desacralizzare"
la liturgia, ha infine sottolineato quanta parte la preghiera e la bellezza, ancella
della verità e della spiritualità, abbiano nel rito cattolico»,
per concludere: «Insomma il Pontefice, rivolgendosi ai medesimi destinatari,
ha ripercorso con altre parole e con pastorale prudenza molte delle linee tracciate
nella "lettera aperta" di Tito Casini, il quale alla luce di questa osservazione,
non dovrà pentirsi troppo della sua audacia». Lo stesso o press'a poco
il Corriere della Sera} a parer del quale il Papa ha parlato del mio libro
come ha parlato, «non tanto per il contenuto quanto per la forma aspramente
polemica», e va aggiunto, dice, «che nella seconda parte del suo discorso
non lesina i rimproveri per coloro che sostenendo la necessità di esperimenti
liturgici rivoluzionari dànno prova» eccetera eccetera.
Della stampa dichiaratamente cattolica (avrò bene il diritto di citare anche
quella!) ecco come Realtà politica, per la penna del suo direttore,
Alcide Cotturone, crede di poter accordare il libro e il discorso: «Le cento
pagine del Casini sono una documentazione inoppugnabile, viva, sofferta, indignata
dello scempio che si sta perpetrando a danno della liturgia, della bellezza del culto
cattolico, della lingua latina, del canto gregoriano e polifonico, di tutta la musica
sacra, che nei secoli hanno rappresentato il più suggestivo splendore della
casa di Dio e che per le anime dei fedeli e non fedeli erano le grandi forze ascensionali,
purificanti della pietà, della devozione e delle conversioni...» E siccome
è logico, lapalissiano, che il Papa non disapprovi meno lo scempio, ecco la
risposta del Cotturone alla logica domanda circa il perché del discorso: «La
cosa si risolve facilmente o almen crediamo... La nostra opinione verteva sul contenuto,
sulla sostanza del libro del Casini, entusiasmante, travolgente per quella carica
di passione, di amore e di trepidazione per la furia iconoclastica che si sta abbattendo
sull'incomparabile patrimonio liturgico tramandatoci dalla Chiesa» (scusatemi
se per difendermi dalle critiche devo trascrivere anche degli elogi) «mentre
il giudizio del Papa appare di carattere formale... Il Papa ha il diritto e il dovere
di difendere un suo vicino collaboratore, anche se per caso questo collaboratore
avesse tralignato e tradito. Ma che il Papa possa aver revocato in dubbio, possa
disapprovare in tutto e per tutto quel che ha scritto il Casini è da dimostrare.
E noi crediamo che, in ultima analisi, ad andar al fondo, alla radice della questione,
il Papa sia più con il Casini che con il fanatismo di certi innovatori...
» È quello che credo, e l'ho detto, anch'io; tant'è vero che
ne son grato al Papa, anche se a qualcuno è parso che il Papa sia stato con
me eccezionalmente «severo».
Tal sembrerebbe l'impressione di quelli stessi che stanno vicino al Papa, come riferisce
il medesimo Corriere della Sera, dietro l'indagine svolta dentro le sacre
mura immediatamente dopo il discorso. «Nell'ambiente vaticano», manda
infatti la sera stessa (mentre io innaffiavo i miei ciclamini!) il suo corrisponde
da Roma, «si nota che mai prima d'ora Paolo VI si era espresso in una maniera
più chiara e netta, nè aveva formulato su uno scrittore cattolico un
giudizio tanto severo». E il Bussolante, riportando anch'esso giudizi
circolanti oltre il Portone di bronzo: «Tutto ciò» (il miramur
del Papa nei miei confronti, in ossequio al cardinale Lercaro) «è
invero molto strano, quando si pensa che esiste oggi una vera alluvione di libri
ed opuscoli, spesso scritti da religiosi, diretti non già contro la persona
di un cardinale, ma addirittura contro la Persona divina di Cristo, contro i dogmi
della Chiesa e la morale cristiana, e che tali scritti non sono mai stati indicati
dal Pontefice alla deplorazione della Chiesa universale». E Giuseppe Panciroli,
su L'Eco d'Italia, echeggiando altri echi italiani ed esteri circa il discorso
del Papa e un famoso apporto di preti petroniani alla fortuna di un progetto di un
onorevole psuino: «Non mi consta che Egli abbia manifestata pubblicamente nessuna
disapprovazione per l'articolo sul divorzio della rivista bolognese "Il Regno"».
Cosi altri, molti altri, da varie sponde; ai quali tutti io rispondo che san contento
e mi onoro dell'eccezione: che troppo mi sarebbe doluto se il mio e quello e quegli
scritti avessero fatto mazzo nella «disapprovazione» del Papa; e aggiungo
che se il Papa mi ha trattato con particolare rigore, con un intervento «che
mai prima d'ora» nei riguardi di uno scrittore cattolico, è segno -
Ego quos amo arguo... - che mi vuoI bene: un bene, anche, particolare, e potrei
non esserne lieto? non onorato? non - starei per dire - invidiabile?
È un fatto, e n'è prova, fra altre, la lettera ch'Egli si degnò
di farmi scrivere quel marzo di quel 1965: lunga lettera di cui non posso,
non debbo riportare che una minima parte, un periodo, e me lo consenta il cardinale
Dell'Acqua che sa a quanto di più e di meglio io rinunzi: «... Sua Santità
desidera farLe giungere una parola che Le assicuri l'immutata benevolenza, con cui
accompagna la Sua persona di credente e la Sua opera di fine e sensibile letterato,
tanto devoto alla Chiesa...». Il corsivo è mio; e non è
tanto per me quanto per i miei stracciaioli, dei quali sono per presentarvi il caporeparto...
Un momento: i giornali da cui ho trascritto discorso e commenti parlano di Adenauer
(morto il 19 aprile, mentre il cardinale Lercaro era in udienza dal Papa), e concedetemi,
dato che l'ho qui sotto gli occhi, di riportare da uno di questi, L'Ordine, alcune
considerazioni in merito al funerale di questo grande statista, cui hanno partecipato,
nella cattedrale di Colonia, uomini d'ogni paese, che qui vuol dir d'ogni lingua:
«Il Pontificale è stato celebrato in latino. Certamente, l'impressione
deve essere stata grandissima. Nella Chiesa cattolica, anche quando il mistero della
morte richiama a meditazioni tremende, c'è sempre quel calore che è
dato dall'unità. E l'unità non è espressa soltanto dal rito,
ma dalla lingua in cui vengono annunciate le verità e profferite le preghiere.
Rappresentanti di ogni popolo si sono trovati uniti non solo perchè hanno
"pregato insieme", ma "nella stessa lingua". Il valore del latino
nella liturgia è esattamente in questa forza misteriosa che, senza mancare
di rispetto alle differenze dei popoli, le supera, chiamandole ad una concordia che
è data dall'essere più grandi di se stessi. E i grandi testi latini
hanno una maestà unica, sono veramente la lingua del "Corpo Misticodi
Cristo". Nessun "volgare" potrà mai essere vivo come questa
lingua che i superficiali chiamano "morta": essa è come Roma di
cui Chesterton, intelligentissimamente, sostiene che è per eccellenza la città
risorta per non morire più. Il latino ha una grazia speciale come lingua della
Chiesa: un dono dello Spirito Santo per essere ben pronunciato e intimamente compreso.
E il "requiem aeternam" che, per accompagnare Konrad Adenauer dalla cattedrale
al Paradiso, ha unito in una vocesola le più diverse presenze che gremivano
il duomo di Colonia, ha detto molte cose non soltanto per la gloria di lassù,
ma anche per la battaglia di quaggiù...»
Dalle quali parole riconfortato, eccomi a continuare la mia: eccomi alle mani del
padre Martino Morganti.