Oggi, per riposarmi, voglio parlare
del Sarto. - Se avessi la fede del Sarto... - Quante volte, nella mia vita, mi scappa
detto così! E poi, se ci penso bene, ho quasi paura. Aver la sua fede vorrebbe
forse anche dire aver le sue prove. Pover a me! E tuttavia, eccolo lì: sereno,
sorridente... ma sì, felice! chi non lo invidierebbe, a vederlo?
Lo veggo tutte le domeniche, alla messa e alle funzioni, insieme ai suoi due compagni
«magi»... Li chiaman così, «i re magi», per soprannome:
lui, sarto, un altro che fa il calzolaio e un terzo che lavora per conto proprio
due o tre staia di terra. Tutti e tre vecchietti, tutti e tre della medesima borgata
- gli unici vecchi della borgata -, tutti e tre religiosi, onesti, queti, all'antica,
uno un po' sordo, uno un po' cieco, uno un po' balbo, grandi amici fra loro, compagni
nell'andare alla chiesa (unica loro gita oramai), compagni nello starvi, compagni
nel ritornare. A vederli, arrivare o partire, in fila, appoggiati al loro bastone,
tutti e tre un po' curvi, lenti, solenni, l'immagine dei Re Magi si presenta spontanea,
tanto più con quei loro occhiali che fan pensare alla scienza, e, in mano,
quel loro astuccio del tabacco dal quale ogni tanto, fermandosi, attingono tutti
e tre. I loro stessi nomi, Domenico, Adeodato, Adenafo (forse alterazione di Abdenago),
par che richiamino quelli di Melchiorre, Gaspare, Baldassarre. E i loro discorsi,
le loro massime, i loro stessi vocaboli... Mi trovai a scender con loro l'altra domenica
sera. A sentirli parlare, mi pareva d'esser tornato indietro una ventina di secoli,
e quasi mi veniva fatto, ogni tanto, di guardare il cielo per veder se una stella
ci precedesse.
Il Sarto è il più povero di questi poveri «re», ricchi
solamente di fede e di pace. Una povertà tutta lieta, una povertà francescana
e nello stesso tempo ingegnosa. Gli occhiali, per esempio, hanno perduto le stanghette,
e il Sarto rimedia con due licci, che annoda dietro la nuca. Un manico di ombrello
da donna, di nichel, sottile, curvo e forato, può far benissimo da cannuccia
alla pipa... Il mestiere gli rende poco, ora specialmente che è vecchio e
che i gusti, anche in quanto a vestiti, si son fatti, anche in campagna, anche in
montagna, più civili: Non sono più i tempi delle mezzelane e dei bigelli,
i tempi di Giannella e Gigiòla: il mondo, in trenta o quarant'anni, ha camminato
(se non l'ha presa addirittura di corsa, anzi a rotta di collo), mentre il Sarto
è rimasto fermo: fermo ai suoi disegni, ai suoi tagli, alle sue cuciture,
e anche - aggiungiamolo - ai suoi prezzi. Pochi vecchi del popolo - tra cui, si capisce,
i due «re» suoi compagni - formano ormai la sua clientela, una clientela
tutta dell'opinione che il vestito conti meno d'ella persona. Vuol dire che il mestiere
gli lascia del tempo libero, ed egli lo impiega in altri lavorucci, seminare a mezzo
un campo di patate, raccattare al terzo una strisciola di marroni, e simili, che,
uniti al mestiere, gli dan di che vivere. Del tempo glien'avanza lo stesso, e il
Sarto va a trovare i malati (per i quali, nel popolo, è ritenuto come un mezzo
pievano, tanto che se uno muore e il pievano è via, corrono a chiamar lui
che venga a raccomandargli l'anima) o si mette a dir rosari o a leggere i suoi libri,
che son press a poco quelli del sarto manzoniano. Glien'avanza ancora? Certamente,
specie in questi giorni d'ìnverno; e il Sarto, dopo aver lavorato, pregato,
meditato sulle vite dei santi, si darà a un po' di musica mettendosi a suonare
il suo violino... Se gli piace la musica? Era una volta a cucire in una casa di signori.
Nella stanza accanto a quella in cui lavorava, uno della famiglia si mette a suonare
il violino... Il Sarto regge... regge... e poi va di là:
«Ecco, se lei non posa quello strumento, io non lavoro più».
«Non lavorate più? Oh, bella! e perchè?»
«Perchè questa musica mi tocca il cuore e non ho più forza di
reggermi».
Improvvisandosi liutaio, se n'è fabbricato uno da sè, e se lo suona,
povero Sarto, se lo suona.
Ma il suo strumento preferito è la corona, le sue suonate più frequenti
- lo sanno bene i suoi vicini di casa - son paternostri e avemmarie e requie e requie
e requie per tutti que' suoi figlioli che Dio gli ha dato e ritolto.
Dieci n'ebbe, sette figli e tre figlie, come l'uomo retto di Hus, e non ne ha più
uno. L'ultimo maschio, morto in guerra; l'ultima femmina... Ah, quella sua Agnesina!
Non gli rimaneva dunque che quella, la più piccola e la più cara. Era
la sua consolazione, la sua conversazione e il suo aiuto. Lavoravano insieme, e il
lavoro, allora, noia mancava-: lei sapeva anche cucir di fine... Ora, un giorno,
che lavoravano insieme, zitti, tutti e due curvi sul loro pezzo, lei, a un certo
punto, leva il capo, guarda un po' suo padre, in un certo modo, e poi:
«Babbo?»
«Cosa vuoi?»
«Ho da dirvi una cosa...»
«Dimmi».
«Io mi fo suora... suora missionaria».
Il Sarto alza di scatto la testa, fissa la figliola, che s'è rimessa a cucire
e ha il viso rosso e i labbri tremanti per lo sforzo; si fa rosso, trema anche lui,
e poi (in un attimo, quale battaglia e quale vittoria):
«Che Dio ti benedica!»
E l'abbraccia e piangono insieme.
Dopo un anno (lui s'è già abituato a star solo) la figliola ritorna
a casa per il mese di prova. Sa ancora cucire e aiuta come prima suo padre... Discorrono,
lavorando, di missioni, d'Affrica, d'infedeli, di martiri. A un certo punto - è
l'ultimo giorno, son l'ultim'ore che stanno insieme - la figliola, levando il capo
e guardando suo padre (come quella volta l'anno prima, ma con più forza negli
occhi):
«Che bella cosa, babbo, se io potessi morir martire!»
E il Sarto, lasciando andar di scatto il lavoro, la fissa, ma orgoglioso, un istante...
«E che bella cosa se io potessi diventar babbo d'una martire!»
E s'inginocchiano e pregano insieme.
Da un anno ch'è partita per l'Affrica, egli non ne sa più nulla. Dio
ha forse esaudito il loro desiderio? L'altro giorno lo vidi, insieme agli altri due
«magi»:
«E Agnesina, dunque, avete avuto ancora notizie?»
Ed egli, sorridente, sereno:
«No, nessuna notizia... Ma che importa? Starà bene di certo: è
in mani meglio delle mie: è nelle mani di Dio...»
E riprese via, co' suoi compagni, che tentennavano il capo in segno di approvazione.