A parlar di san Simeone Stilita
il cinque gennaio, dico a ripassar la sua vita, che trascorse quasi tutta, acqua
o neve, su delle colonne all'aperto, c'è da sentirsi gelare... Ma fàtti
cuore: la sua vita non è di quelle ch'è obbligatorio imitare, almeno
alla lettera, perché san Pietro ci apra quella benedetta porta. Vuol dire
che, siccome la sua festa cade proprio la vigilia della Befana, e anche lui stava
giù di là da quelle parti di dove vengono i Magi e quell'ottima vecchiettina,
la si racconterà ai ragazzi, nel canto dei fuoco, così per tenerli
buoni mentre le mamme, voglio dire la Befana... fa quel che ha da fare. - Zitti,
ché, se la Befana vi sente, volete veder domattina cosa ci trovate nelle calze
invece dei panforti o del cavallino di legno! -
San Simeone, dunque, prima d'essere Stilita e santo quasi inimitabile, fu un ragazzetto
come tutti gli altri, aveva un branchettin di pecore e le parava, come tanti altri
han fatto, fanno e faranno. Non è mica vergogna! Tutt'altro! E se anche, a
mo' di dire, domani intorno alla culla di Gesù Bambino si vedranno dei re
con in man dell'oro, dell'incenso e delle altre cose preziose, s'è ben visto
in questi giorni chi furono i primi e con che cosa, se non furono pecorai con del
latte, del cacio, della lana e via discorrendo, a visitare e far compagnia a nostro
Signore nella capanna. Vergogna sarebbe stato, non dico per lui quanto per i suoi
genitori (il suo babbo si chiamava Esichio e la sua mamma aveva un nome anche più
buffo, Mattana), se per andar dietro alle pecore non fosse anche andato a suo tempo
in chiesa. Ma lui in chiesa ci andava - la domenica, le feste e anche più
spesso, quando, mettiamo, per via del cattivo tempo era costretto a tener dentro
le bestie - e ci stava come si deve e ne ricavava profitto.
Fu ben in chiesa che un giorno gli venne, tutt'a un secco, la voglia di farsi santo.
Stavano leggendo un certo passo della Scrittura, che lui, dato anche l'età,
non poteva capire. Ma siccome di capire gli sarebbe garbato, ne domandò educatamente
la spiegazione a un vecchietto:
«Che cosa leggono, nonno, lassù all'altare?»
«Della continenza dell'anima, ragazzino», gli rispose senza tante parole
il vecchietto, il quale aveva più voglia di stare attento che di perdersi
con un butterello. Ma il ragazzo, che a una risposta così asciutta ne sapeva
quant'e prima:
«E la continenza dell'anima», chiese daccapo, «che cosa sarebbe?»
Il vecchietto dovette credere che il ragazzo lo canzonasse, e gli, rispose assai
stizzito:
«Falla finita, moccicone! Veggo che tu se' piccino e ignorante!»
Ci voleva poco a vederlo: non per altro gli era stata fatta la domanda. E siccome
il ragazzo, invece d'impermalirsi, lo assicurò che non faceva per burla: «V'assicuro,
nonno, che non lo fo per darvi noia ma perché mi garberebbe sapere cos'è
la continenza», il vecchietto si rabbonì e glielo disse: Continentia
salus animae est, dux lucis, introducens in regnum coelorum.
Glielo disse in lingua parlata: «La continenza è la salute dell'anima,
la guida della luce, quella che ci fa entrare nel' regno dei cieli», ma per
il povero pecoraiuccio la fu tutt'una, come a dire che non ci raccapezzò nulla
e dovette ridomandarne:
«Spiegatemi, nonno, quello che avete detto: che volete? sono un povero zuccone...»
Allora sì che il vecchietto si ricordò d'aver la lingua!
«La continenza, figliolo,» prese a dire, facendo di questa virtù
una cosa sola coi frati, «la continenza è se uno digiuna col cuore mondo;
se fa le sue preghiere a Dio con tutto il timore e la riverenza; se va a prima, a
terza, a sesta, nona, vespro, compieta e mattutino come si costuma in convento...
Hai capito, figliolo? Bada di non te ne scordare! Bisogna che tu t'abitui a patir
la fame e la sete; a andare ignudo e sentirne d'ogni colore; a pigliare schiaffi
e farsi rider dietro; a sospirare e a piangere; a stare sveglio, contentandosi d'un
pisolino ogni tanto; a esser quando sano e quando malato, a aver voglia e f are a
meno e arrossire; a esser perseguitato e flagellato; a farti tener d'occhio e cogliere
in trappola, a riceverne di tutte dagli uomini, senza mai un po' di sollievo da parte
degli angeli. Hai capito tutto, figliolo? Dominus gloriae det tibi mentem bonam
secundum voluntatem suam».
Dico bene che gli s'era sciolto lo scilinguagnolo! Non eran tante le pecore che
il ragazzuccio aveva da badare quante le cose che bisognava fare e patire per quella
gran continenza. Eppure, vi credereste forse che il ragazzo a sentir tutta quella
numerazione si scoraggisse e non ne volesse più far di nulla? Non vi parlerei
oggi di un san Simeone... Tanto poco si scoraggì che immantinente, senza manco
aspettar la fine della funzione, scappò di chiesa e difilato andò in
un deserto, dove si buttò boccone per terra, e sette giorni ci stette, di
continuo a piangere e pregare., che non sentiva nemmen la fame e la sete, o, se anche
le sentiva, almeno non gli dètte mai retta. Poi s'alza, corre al convento
più vicino, si getta ai piedi del guardiano e lì piangi e prega che
lo piglino, come se fino allora fosse stato il più perverso dei cristiani:
«Pietà, pietà di me peccatore disgraziato! Salva quest'anima
che muore, eppur vorrebbe servire Iddio...»
Il guardiano, appena lui s'è dato un po' di pace, gli domanda chi sia, di
chi sia, come si chiami, da che parte arrivi... Lui gli dice appena appena il suo
nome e daccapo a sgomentarsi e raccomandarsi:
«Abbi pietà di quest'anima, che se n'ha una sola e sta per morire...»
Lo prese di certo!
«Be',» gli fa alzandolo da terra, «se tu vieni dalla parte di
Dio, Deus custodiet te et defendet te ab omni malo, insidiis, periculis et tentationibus.
Cerca di portare rispetto a tutti i frati, e così tutti quanti ti vorran bene».
Il vecebiettin della continenza l'aveva fatta assai più lunga. Si può
credere se il giovane, venuto con quella preparazione, si fece onore appetto a quel
poco, di rispettar gli altri frati, che gli aveva detto il guardiano! Non che in
convento non si pregasse, o si dormisse di continuo, o si mangiasse a crepapelle,
o non si facesse mai penitenza! Dico soltanto che non c'era paragone con quello che
il giovane aveva inteso e si credeva. Tant'è vero che, non contento della
regola seria seria, s'aggiungeva da sé, di rimpiatto agli altri, d'ogni genere
di sacrifizi. Per esempio, in fatto di penitenza: un giorno, andando al pozzo, vede
legata al secchio una fune fatta di setole intrecciate che serviva per l'appunto
a tirar su l'acqua. A lui vien subito in mente che la potrebbe servire anche a qualche
cos'altro, e subito la stacca, si tira un momentino in disparte e se la lega a più
giri, a modo di cilizio, attraverso il corpo; poi, perché nessun se n'ammoschi,
va dai frati, e, con l'aria più innocente:
«Toh!» gli fa, «avevo sete, sono andato al pozzo per bere e non
ci ho trovato la corda...»
Quella corda doveva premer molto al superior del convento, perché i frati,
più che al danno, pensaron subito a lui:
«Zitto, che non l'impari il guardiano!»
E nessun seppe, per allora, che razza di penitente si nascondesse in quel fratuccio.
Se n'avvidero un anno dopo, quando quel povero corpo, roso e imputridito dai crini,
cominciò a mandare un odore, un odore, sempre più un odore, che, per
dirla con le proprie parole della sua storia, nemo prope eum consistere poterat,
mentre il suo pagliericcio vermibus repletum est.
Ma da che dipendesse, i frati non se n'erano accorti, e chissà quando se
ne sarebbero accorti se di lui non ne avessero scoperta un'altra quasimente più
grossa.
Perché, di fare ai poveri la limosina il vecchietto non ce l'aveva fatto
entrar nella continenza, se n'era scordato, mentre ci aveva messo di farsi tener
d'occhio e cogliere in trappola; ma ce lo fece entrar di suo Simeone, contentandosi
di mangiare soltanto nei giorni che per i cristiani la messa è di precetto
- dico una volta la settimana - e tutta la sua parte, fuori della domenica, dandola
in carità ai bisognosi. Anche questo di rimpiatto, come direbbe il Vangelo,
ma, fàllo oggi, fàllo domani, alla fine ci rimase chiappato, e il guardiano
subito lo riseppe:
«Quell'uomo», gli andarono a dire, «vuol buttare all'aria il nostro
convento e la regola che tu ci hai dato!»
E siccome il guardiano non ci credeva, gli spiegaron subito la maniera:
«Non è vero che noialtri si mangia una volta al giorno? Ebbene, lui
non mangia altro che la domenica, e la sua pietanza la dà ai poveri... Eppoi,
non si sa che cos'abbia, manda un puzzo, un avello, sed et ab eius corpore procedit
foetor intolerabilis, ut nemo prope eum stare queat, tum et stratum eius vermibus
scatet. Dunque, hai capito? così non si può durare: o fuori lui
o fuori noi... Ma digli un po' che ritorni di dove è venuto!»
Prima di dirgli in quella maniera, il guardiano volle un po' veder da sé
come stavan le cose. Va, per cominciare, al suo letto, tira giù la coperta...
Eh, per carità! cose da fare scappare!
«Questo», dice scappando infatti il guardiano, «è un altro
Giobbe effettivo!»
Te lo fa chiamare, e giù una ripassata, ma da que' santi davvero:
«Ch'ha' tu fatto, quell'uomo, da mandar questo puzzo? Che sta' tu qui a ingannare
i frati e a buttare all'aria la regola? Tu saresti forse un fantasma? Già,
se tu fossi un uomo, e fatto per star con gli uomini, tu ci avresti detto chi è
il tuo babbo e la tua mamma e di dove tu sia sbucato!»
Poi, mentre il povero giovane se ne sta lì a capo basso tutto compunto e
lacrimoso, ordina ai frati che gli levin la tonaca, Exuite, inquit, eum, ut videamus
unde hic foetor oriatur. I frati, infatti, torcendo il naso, ci si mettono, ma
quanto a levargliela non c'era verso: ita erant eius indumenta putrefactae carni
agglutinata, che per spogliarlo - bugiardo io bugiardo il suo discepolo Antonio,
che raccontò tutte queste cose - bisognò tenerlo tre giorni a rinvenire
in acqua tiepida e olio, e anche così poi ce ne volle, et aegre eum vel
sic exuere potuerunt.
Allora si trovò di dove veniva il fetore e si vide anche dov'era andata la
corda. Ma poca se ne vide: talmente, coll'andar del tempo, gli s'era seppellita nel
corpo che appena un capo restava fuori. Ti so dir la meraviglia dei frati! La meraviglia
e la confusione, non sapendo da che parte rifarsi per veder di cavargliela. E lui,
intanto che quelli si consigliavano, a piangere e raccomandarsi:
«Lasciate, fratelli, lasciate che questo cane fetido muoia; lasciate che i
miei delitti sian puniti in questa maniera, ch'io sono un pelago di peccati...»
Chi volete che ci credesse?
«Non hai nemmeno ventidue anni,» gli fa il guardiano, «com'è
possibile che tu abbia commesso tanti peccati?»
Ma lui, che sapeva a mente il breviario, te lo rimbeccò bene bene:
«II profeta Davide dice: Ecce enim in iniquitatibus conceptus sum, et in
peccatis concepit me mater mea: e così anch'io».
Belle forze, tuttavia! quelli lì, prima del battesimo, ce li ha anche un
bambino di poche ore, ma c'è poi il battesimo che porta via tutto e rinnova.
Il guardiano, insomma, mandò a prendere un medico, e il medico, fai fai,
gli riuscì di levargliela senz'ammazzarlo. Lo medicò, l'assistè:
dopo cinquanta giorni, con l'aiuto di Dio, Simeone sera rimesso. Allora poi il guardiano
lo richiamò e, per non trovarsi ad altri imbrogli, senza tanta carità
gli disse:
«Figliolo, ora tu sta' bene: vattene un po' dove credi meglio».
Dove credette meglio di andarsene? In un pozzo. Ma non mica in un pozzo a lavarsi,
e nemmeno a cercare un'altra fune i in un pozzo asciutto, non molto lontano dal convento,
dove nessuno sarebbe andato per tutto l'oro del mondo. Sfido io, coi diavoli che
c'eran dentro i diavoli, serpenti, vipere, addirittura un budello dell'inferno. E
lui ci andò proprio dentro! Ci andò e ci stette sette giorni e chissà
quanto ci sarebbe stato (si capisce che i diavoli se la dovettero dare a gambe),
se non lo avessero scoperto e ritirato su i frati! Già! proprio i frati del
suo convento, che l'avevan fatto mandar via, e proprio per ordine del guardiano,
che l'aveva messo fuori in quella maniera. E difatti, altro che puzzo! una notte,
dopo averlo scacciato, il guardiano vede, dormendo, tutt'intorno al convento, come
una gran massa di gente, vestita di bianco e con dei tizzi in mano, che urlava alla
disperata: «Ti si dà fuoco se tu non ci fai vedere il servo di Dio Simeone!
E perché l'ha' tu scacciato? Cos'ha fatto di male? Non sai che lui è
molto più grande di te, e più grande di te apparirà nel giorno
del giudizio?»
Non sto a dire se la sveglia, quella mattina, suonò prima degli altri giorni
e se i frati le dettero o no subito retta. Il guardiano poi pareva uno spiritato:
«Lesti! lesti, per carità! Ritrovate il servo di Dio Simeone! Fuori
tutti, e nessuno torni senz'averlo ripescato!»
Cerca e cerca, non c'era verso di scovarlo. Glielo dissero, al guardiano:
«S'è guardato da per tutto, s'è frugato per terra e per mare...
A meno che non sia dentro il pozzo... Ma lì chi ha il coraggio di affacciarsi?»
Bisognò che l'avessero:
«Fatevi il segno della croce,» comanda, sempre tremando, il guardiano,
«e cercatelo anche lì dentro...»
Si fecero il segno della croce e si raccomandarono anche l'anima, prima di accostarsi
a quella cisterna dei diavoli. Arrivati poi al pozzo, dissero a far poco mezzo breviario
innanzi di calar la corda. Finalmente la calano, ci s'attaccano in cinque, e giù,
giù, giù (le serpi a vedere i frati scapparono), si ritrovan tutti
sudati accanto a Simeone.
Non voleva mica uscire!
«Lasciatemi stare, lasciatemi finir qui quel poco di vita che mi rimane, lasciatemi...»
Immaginarsi se dopo tutto quel che gli era costato gli diedero retta! E il guardiano?
Il guardiano, appena se lo riebbe davanti, non fece altro che buttarglisi ai piedi
e chiedergli per dono e pregarlo, e scongiurarlo, non soltanto di rimanere, ma perfino
di pigliar lui la sua carica, e tutti gli avrebbero ubbidito. Ci rimase invece come
un fratuccio qualunque, ma dopo tre anni, di rimpiatto a tutti, se la diede e andò
nel deserto a far vita più penitente e nascosta dentro una casuccia che si
fece da sé con due sassi, senza nemmeno una mestola di calcina.
In questa abitò quattr'anni, mangiando come Dio voleva e quando voleva; ma
poi, siccome di star pari a terra lui noia era capace, non potendo star sotto, ossia
nel pozzo, volle star sopra, e cioè su una colonna.
Era, per dirla col Vangelo, era la lucerna che di sotto al moggio passava sopra,
per far lume a tutti quanti, in modo che tutti quanti vedessero le sue opere buone.
Ma lui non lo fece mica per quello. Tutt'altro! lo fece anzi per liberarsi da a gente,
che aveva cominciato a serrarglisi intorno e gli pigliava tutta la pace. E siccome
la gente gli s'accalcava anche ai piedi della colonna, che era d'un quattro braccia,
lui montò sa una di dodici, e poi su una di venti, e sempre più su,
sinché staccò il volo per il paradiso da un'altezza di quaranta braccia.
In quanto però a liberarsi dalla gente, bisogna dire che più ci s'affannava
e meno ci riusciva: da tutte le parti, tutti i giorni ne arrivava, e d'andar via,
anche per far posto ai nuovi, nessuno ne voleva sapere. Ci venivan bene per qualche
cosa! I miracoli, dalla colonna, miracoli d'ogni specie e specialmente guarigioni,
cascavan fitti come le pere. Veramente, lui che li faceva non voleva si risapessero,
e lo proibiva in una maniera che conveniva dargli retta: «Se qualcheduno ti
domanda chi t'ha guarito, digli Iddio. Bada bene di non dirgli Simeone, a meno che
tu non voglia ricascare immantinente nel medesimo male». Ma, nonostante, almeno
una parte si son risaputi, e questi, a volerli raccontar tutti, verrebbe l'ora della
Befana e poi la non si farebbe mai finita. Miracoli, s'è già detto,
d'ogni specie, e non soltanto in pro dei cristiani: perfino in pro delle bestie,
le quali certo non andarono a spifferarli, ma c'era chi vedeva (come, per esempio,
il suo discepolo Antonio) e da lui s'è risaputo anche questi.
Tra i miracoli fatti in pro di cristiani, il primo che raccontano riguarda proprio
la sua mamma, quella Mattana che un certo giorno, quando lui parava le pecore, non
l'aveva visto più tornar di chiesa, e da allora non sapeva più che
cosa ne fosse. Avendo imparato finalmente che il suo figliolo era diventato santo
e stava a farsi santo dell'altro su una colonna, via anche lei - e certo con più
diritto di tutti - a vederlo! Ma di vederlo non ci fu verso. Donne poi, intorno alla
colonna, Simeone non ne voleva: se l'era fatta apposta circondar con un muro e non
c'era caso che ne lasciasse passar una: nemmeno, dunque, la sua mamma ch'era la sua
mamma, e glielo chiedeva in una maniera da commover proprio anche il muro:
«Figliolo, perché mi fa' tu così? Così tu mi ripaghi
del tempo che ti portai in seno? dei latte con cui t'ho allattato, dei baci con cui't'ho
baciato, delle fatiche e degli affanni...?»
Tante e tante altre ne disse che tutti piangevan come agnellini. Piangeva anche
lui, e non gli sarebbe parso vero di rivederla: ma quand'uno ormai è santo...
Cosa dice il Vangelo? «Chi non odia il padre e la madre...» Cosicché
le fece rispondere: «Mamma, abbi pazienza un momento, che ci si rivedrà
nella requie eterna». Gli chiede almeno di farle sentir la sua voce, e lui
nulla. La poveretta dopo tre giorni morì. Allora poi gliela portarono. Lui
la vide, pianse e disse con tutto il cuore questa preghiera:
«Iddio t'abbia in gloria, perché tu hai patito e ti sei straccata per
me; tu m'hai portato per nove mesi nel seno, tu m'hai allattato e nutrito... per
omnia saecula saeculorum, amen». E la sua mamma, come se fosse rinvivita,
mosse il capo, aperse gli'occhi, sorrise... Gliela sotterrarono li davanti, ai piedi
della colonna, ma senza che lui scendesse nemmeno per darle un ultimo bacio.
Per nulla al mondo sarebbe sceso - altro che per cambiar di tanto in tanto colonna
- e se il diavolo, un giorno, gli volle far mettere un piede fuori, dovette pigliar
l'aspetto di Dio.
Pieno di stizza per tante anime che col suo esempio, le sue prediche, i suoi miracoli
gli strappava dalle grinfie, il diavolo, affin d'ingannarlo - di presentarsi a viso
scoperto non si voleva nemmen provare, sicuro com'era di buscarle -, gli arrivò
accanto proprio con l'aspetto di Dio, sopra un carro di cherubini, e lo invitò
a montargli vicino, che l'avrebbe menato lui medesimo in paradiso. Simeone non fece
che allungare un piede e ritirarlo, perché s'avvide subito che carro e che
vetturino era quello, ma bastò quel tocco perché il piede gli si slogasse
e tutta la gamba gli si coprisse di piaghe peggio che non era stato il suo corpo
con quella fune incarnita. Tant'è dire che non ci si poté più
appoggiare, e tutto il resto della vita dovette passarlo a zoppo galletto reggendosi
su quel. l'altra che non era uscita dalla colonna. Per i suoi discepoli, che lo servivan
d'in terra, ci fu, da quel giorno, una faccenda di più fra quelle poche che
richiedeva la sua persona: quella di raccattare a uno a uno tutti i bachi che cascavan
giù dalla gamba e scendevan per la colonna, e renderglieli, che se li rimetteva
nelle piaghe, dicendo: «Mangiate dove il Signore v'ha dato», manducate
quod vobis Dominus dedit.
Di questi bachi, un giorno, ne cascò giusto uno mentre si trovava ai piedi
della colonna nientemeno che un re, Basilico, o Basilisco che sia (chi dice in un
modo e chi in un altro, e c'è una bella differenza), re dei Saraceni, che
il santo aveva convertito alla vera fede di nostro Signore. Questo Basilico, o Basilisco,
voleva dunque un gran bene al santo anche lui, e visto cascar quel baco, lesto se
lo raccatta e se lo mette sulla bocca, sugli occhi, sugli orecchi, come addirittura
una reliquia. Gli fa il santo:
«Mi meraviglio che un uomo grande come te r avvii quella porcheria uscita
dalla mia fetida carne!»
Il re, per tutta risposta, apre il pugno: il baco non era più un baco: s'era
mutato in una pietra preziosa.
Chi ha ribrezzo delle serpi pensi come doveva stare una povera donna, là
delle parti del santo, che n'aveva una in corpo da più di tre anni! L'aveva
inghiottita per disgrazia, quand'era ancora un vermiciattolo, nel ber di notte a
una mezzina; ma in tre anni era diventata grossa, e non foss'altro il ribrezzo...
Dopo aver provato, senza ottener niente, medici, maghi e stregoni d'ogni sorta, anche
lei va dal santo; gli fa dire il suo caso; il santo le ordina semplicemente di pigliare
in bocca un po' di terra e un po' d'acqua, e la serpe schizza fuori, lunga tre braccia,
e rimane in terra stecchita.
Un'altra volta, invece, con la medesima medicina una serpe la guarì. Non
l'ho detto, io, che de' miracoli ne fece anche in pro delle bestie? Questa povera
serpe, malata d'un'ulcere, era una femmina, e dal santo ce l'accompagnò il
marito, il serpente, il quale, quando fu vicino, come per ubbidire anche lui alla
regola, fece rimaner la moglie nella parte delle donne, e lui con gli uomini andò
fino ai piedi della colonna a chieder la grazia. Come il santo facesse a intenderlo
è un'altra delle meraviglie: fatto sta che ai cristiani disse subito di non
aver paura: «Non abbiate paura, fratelli: questo povero animale ha lasciato
la sua compagna malata là fuori con le donne»; disse quindi al serpente
di pigliare un po' di terra, di metterla sulla piaga e soffiare, che la piaga sarebbe
subito sparita, come difatti lui fece e la cosa avvenne.
Sempre a proposito di bestie, e sempre con un po' d'acqua e di terra, non guarì
perfino un drago, un potente drago a cui era entrato un legno in un occhio? Anche
lui - che, da quanto era terribile, dalle sue parti, causa il fiato, non ci nasceva
nemmen l'erba - anche lui, chissà chi gliel'avesse detto, va dal santo, se
ne sta lì alla porta tre giorni, senza far male a nessuno, con l'occhio buono
appoggiato alla soglia e quello cattivo per aria: il santo lo vede, capisce, gli
ordina la solita ricetta, e l'occhio butta fuori un pezzo di legno (si stenterebbe
a credere se non l'avesse raccontato chi ci si trovò) un pezzo di legno lungo
un braccio.
Perché facesse questi miracoli con le bestie e con che bestie! - non si sa;
forse perché i cristiani imparassero da loro a essere riconoscenti: come difatti
anche questo drago, prima di ritornare, guarito, dalle parti dell'aquilone, stette
due ore in ginocchio ai piedi della colonna in atto di preghiera e di ringraziamento.
Ma la più bella riconoscenza gli animali gliela fecero alla sua morte, venendo
da tutte le parti e di tutte quante le razze intorno alla colonna dove il suo corpo
era rimasto, in piedi, fresco e odoroso (sentite, sentite qui, voi che dianzi torcevate
il naso), la sera di un Venerdì Santo.
Vennero soprattutto gli uccelli: le creature a cui egli si era fatto più
simile, sdegnando la terra e abitando, anche corporalmente, sempre nel cielo.
Testo tratto da: TITO CASINI, Il Pane sotto la neve, Firenze: LEF, 1935/2,
pp. 170-189.