IL PANE SOTTO LA NEVE
XXX - LA STELLA

«E partiti dall'oriente, trovarono una campagna nella terra di Sennaar e vi abitarono. E dissero tra di loro: ... Facciamoci una città e una torre che con la cima tocchi il cielo e illustriamo il nostro nome prima di andar dispersi per tutta la terra».
Confusi dal Signore in questo loro orgoglioso divisamento, gli uomini, innanzi di separarsi, cercarono, con animo meno terrestre, di un altro segno da porre come un ricordo della loro prima unione; un ricordo e un richiamo, un punto di ritrovamento per i loro spiriti e i loro cuori nel dilungar del tempo e dei popoli. Il segno scelto fu una stella: la stella che il patriarca Noè aveva rivisto brillar prima, nell'incrinatura dei nuvoli, al termine del gran diluvio; la stella che il padre Adamo, cacciato dal paradiso, aveva per prima incontrato, col' suoi occhi lacrimosi, allorché, curva da gran tempo la fronte per la vergogna, s'era fatto animo di rivolgerli al cielo... Furono i figli di Sem, il benedetto, che proposero questo segno. Una stella sarebbe stata vista da tutti, per quanta distanza avessero posto fra loro i popoli, né sarebbe venuta meno col distanziarsi del tempo; una stella era molto più nobile di una rossa fabbrica di fango colto, e avrebbe con la sua pura luce elevato le menti a pensieri alti, come quella con la sua scura gravezza le avrebbe tenute oppresse contro la terra. Guardare una stella avrebbe anche voluto dire guardare il cielo, ossia il luogo di origine, la comune patria, perduta.
Fissato il segno, gli uomini si dissero addio, e chi tornò nell'oriente, chi proseguì per l'occidente, chi divaricò a tramontana e chi a mezzogiorno... La terra, nel passar dei giorni, si ricopriva di genti, sempre più diverse di lingua, d'intendimento, di leggi; di genti che s'ignoravano a vicenda, che non avevano fra loro nessun vincolo di unione o di dipendenza... e tuttavia, quando guardavan la stella (da tutti i punti essa era vista), si risentivan famiglia, si risentivano una cosa sola, e il piacere della fraternità, il piacere dell'amore, riaccendeva i cuori degli uomini sempre meno parenti. La stella era dunque il vincolo della loro unione, il cardine della loro dipendenza, che poteva sembrare una dipendenza dal cielo. In quella luce chiara e benigna qualcuno credeva infatti di vedere quasi la pupilla di Dio, aperta sulle sue creature.
Ma non tutti, con l'andar del tempo, si,mantennero fedeli alla stella. La terra, da cui prendevano gli alimenti, le vesti e quanto serviva alla loro vita, piegò a poco a poco gli occhi di molti, avvinse i loro pensieri, tanto che dimenticaron perfino la loro origine, si credettero anch'essi figli della terra, non d'altro che della terra. Altri, avendo scoperto delle montagne di marmo, si diedero a fabbricarne palazzi, tempi, monumenti, immagini d'uomini e d'esseri fantastici, e la fulgidezza della materia e la bellezza dell'opere abbagliò le loro pupille, che non seppero più rivolgere al cielo quantunque sentissero che non era tutto di terra ciò che reggeva la loro mano nel disegnare e nello scolpire. Altri, avendo imparato a leggere e scrivere, persero gli occhi dietro alle piccole lettere e in esse rimpiccoliron le loro viste, che non poteron più raggiunger la stella. Fra gli stessi figli di Sem, il benedetto, molti, feriti dal luccicore dell'oro, sviati da visioni di ricchezza e di potenza terrestri, smarrirono la stella e il cielo, quantunque non fosse mai mancato fra loro chi li richiamasse all'alto, quantunque dal cielo essi avessero ricevuto perfino il cibo. E così i figlioli di Adamo non eran più una famiglia (erano, anzi, nemicì fra loro: e li facevan nemici quelle stesse passioni che li avevano incatenati alla terra), gli esiliati del cielo avevano dimenticato le vie stesse del cielo, le creature di Dio non sapevan più dove fosse Dio, o chi fosse, o che fosse.
Cerano nell'oriente tre re - migliaia e migliaia d'anni sono passati dacché gli uomini nella campagna di Sennaar si dissero addio - i quali benché ricchi, potenti e sapienti sopra la terra, non cessavano di tener gli occhi al cielo, ansiosi di una luce che la terra non conosceva, di cui provavan nel loro cuore la bellezza, il bisogno, l'arcano presentimento: una luce di cui la stella, la misteriosa stella dei patriarchi, di Noè, di Adamo, pareva l'immagine e la precorriera.
Mentre tutti gli altri uomini erano intenti alla terra i tre re guardavan dunque la stella: e la stella un giorno si mosse... Verso quale adunata chiamava l'antico segno della fraternità umana? Verso quale nuova terra promessa guidava questo nuovo fuoco celeste? Mentre i figli di Sem, il benedetto, che sì ricordavano di un antico glorioso pellegrinaggio dalla servitù alla libertà compiuto al seguito di una fiamma, ora se ne stavano inerti, servi delle loro passioni, i tre re, l'uno ignorando dell'altro, mossi da un impulso interiore non ostacolato dalla loro ricchezza, dalla loro potenza o dalla loro sapienza, s'incamminaron dietro la stella. Camminaron per giorni e per settimane, chiedendosi dove mai la stella si sarebbe fermata, dove si sarebbe compiuto il grande riaffraternamento dei popoli, già avviato in loro dacché le loro strade s'erano fatte, nell'andare, una sola, e uno solo i loro cuori. Allorché, dopo un lungo viaggio, videro la stella - che scendeva sempre più verso la terra, facendosi sempre più splendente - puntare verso una città, la città sovrana dei figli di Sem, il benedetto, pensarono che fosse quello il luogo del grande ritrovo umano, quella la reggia e la capitale del nuovo regno, della ricomposta unità. Ma la stella, giunta alla città, scomparve agli occhi dei re, per riapparire soltanto quando la città fu oltrepassata. Pieni di una più viva gioia, dopo il momentaneo smarrimento, i re proseguirono, oltre la città, il loro cammino, mentre la stella, aumentando di più in più il suo splendore, si faceva quasi abbagliante... Nessuna città si delineava ormai agli occhi dei tre coronati, che se ne andavano ripetendo fra loro, quasi per non scordare un nome, un piccolo nome, udito nella grande città: «E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei la minima tra le terre di Giuda...» A ogni passo che i pellegrini facevano, la stella tuttavia calava, calava, mentre sembrava dì stella mutarsi in sole, accennando prossimo il termine. Ed ecco nel riflesso della sua luce un'umile borgatella svelarsi agli occhi dei re, che si facevano della mano solecchio per meglio scorgerla. E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei la minima tra le terre di Giuda... Nessun afflusso di popoli si scorgeva per la campagna d'attorno: solo, qua e là, dei pastori che vegliavan sul gregge. E nondimeno la stella continuava a calare, a calare in fretta, quasi impaziente di toccare la meta. Nessun dubbio oramai che la meta, il luogo del sublime congresso umano, la «terra promessa», fosse il piccolo borgo in cui già l'occhio distingueva casa da casa: altro non si domandavano i re se non quale sarebbe stata la casa degna di fermare il gran lume - e cercavano se un palazzo o un albergo signoreggiassero fra la povertà del villaggio. V'era il palazzo e v'era l'albergo ma non su loro scese il gran lume. Vi era anche, povera, bassa, una stalla, e sul suo tetto la stella si riposò.
Quando i re uscirono, per tornare ai loro paesi, la stella che li aveva guidati, la stella dei patriarchi, la stella di Noè, di Adamo, il segno dell'antica fraternità umana, il segno che doveva richiamar gli uomini al cielo e agli uomini il cielo, non vi era più... Il cielo stesso, infatti, era sceso in terra, in quell'umil terra di Giuda, in quel borgo, in quella stalla, e lo contemplavano, in una greppia, su un po' di paglia, una donna e un uomo, sotto le forme di un bambino da poco nato, a cui la donna diceva di tratto in tratto «mio figlio» e l'uomo «mio Dio».

Testo tratto da: TITO CASINI, Il Pane sotto la neve, Firenze: LEF, 1935/2, pp. 190-196.


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