«E partiti dall'oriente,
trovarono una campagna nella terra di Sennaar e vi abitarono. E dissero tra di loro:
... Facciamoci una città e una torre che con la cima tocchi il cielo e illustriamo
il nostro nome prima di andar dispersi per tutta la terra».
Confusi dal Signore in questo loro orgoglioso divisamento, gli uomini, innanzi di
separarsi, cercarono, con animo meno terrestre, di un altro segno da porre come un
ricordo della loro prima unione; un ricordo e un richiamo, un punto di ritrovamento
per i loro spiriti e i loro cuori nel dilungar del tempo e dei popoli. Il segno scelto
fu una stella: la stella che il patriarca Noè aveva rivisto brillar prima,
nell'incrinatura dei nuvoli, al termine del gran diluvio; la stella che il padre
Adamo, cacciato dal paradiso, aveva per prima incontrato, col' suoi occhi lacrimosi,
allorché, curva da gran tempo la fronte per la vergogna, s'era fatto animo
di rivolgerli al cielo... Furono i figli di Sem, il benedetto, che proposero questo
segno. Una stella sarebbe stata vista da tutti, per quanta distanza avessero posto
fra loro i popoli, né sarebbe venuta meno col distanziarsi del tempo; una
stella era molto più nobile di una rossa fabbrica di fango colto, e avrebbe
con la sua pura luce elevato le menti a pensieri alti, come quella con la sua scura
gravezza le avrebbe tenute oppresse contro la terra. Guardare una stella avrebbe
anche voluto dire guardare il cielo, ossia il luogo di origine, la comune patria,
perduta.
Fissato il segno, gli uomini si dissero addio, e chi tornò nell'oriente, chi
proseguì per l'occidente, chi divaricò a tramontana e chi a mezzogiorno...
La terra, nel passar dei giorni, si ricopriva di genti, sempre più diverse
di lingua, d'intendimento, di leggi; di genti che s'ignoravano a vicenda, che non
avevano fra loro nessun vincolo di unione o di dipendenza... e tuttavia, quando guardavan
la stella (da tutti i punti essa era vista), si risentivan famiglia, si risentivano
una cosa sola, e il piacere della fraternità, il piacere dell'amore, riaccendeva
i cuori degli uomini sempre meno parenti. La stella era dunque il vincolo della loro
unione, il cardine della loro dipendenza, che poteva sembrare una dipendenza dal
cielo. In quella luce chiara e benigna qualcuno credeva infatti di vedere quasi la
pupilla di Dio, aperta sulle sue creature.
Ma non tutti, con l'andar del tempo, si,mantennero fedeli alla stella. La terra,
da cui prendevano gli alimenti, le vesti e quanto serviva alla loro vita, piegò
a poco a poco gli occhi di molti, avvinse i loro pensieri, tanto che dimenticaron
perfino la loro origine, si credettero anch'essi figli della terra, non d'altro che
della terra. Altri, avendo scoperto delle montagne di marmo, si diedero a fabbricarne
palazzi, tempi, monumenti, immagini d'uomini e d'esseri fantastici, e la fulgidezza
della materia e la bellezza dell'opere abbagliò le loro pupille, che non seppero
più rivolgere al cielo quantunque sentissero che non era tutto di terra ciò
che reggeva la loro mano nel disegnare e nello scolpire. Altri, avendo imparato a
leggere e scrivere, persero gli occhi dietro alle piccole lettere e in esse rimpiccoliron
le loro viste, che non poteron più raggiunger la stella. Fra gli stessi figli
di Sem, il benedetto, molti, feriti dal luccicore dell'oro, sviati da visioni di
ricchezza e di potenza terrestri, smarrirono la stella e il cielo, quantunque non
fosse mai mancato fra loro chi li richiamasse all'alto, quantunque dal cielo essi
avessero ricevuto perfino il cibo. E così i figlioli di Adamo non eran più
una famiglia (erano, anzi, nemicì fra loro: e li facevan nemici quelle stesse
passioni che li avevano incatenati alla terra), gli esiliati del cielo avevano dimenticato
le vie stesse del cielo, le creature di Dio non sapevan più dove fosse Dio,
o chi fosse, o che fosse.
Cerano nell'oriente tre re - migliaia e migliaia d'anni sono passati dacché
gli uomini nella campagna di Sennaar si dissero addio - i quali benché ricchi,
potenti e sapienti sopra la terra, non cessavano di tener gli occhi al cielo, ansiosi
di una luce che la terra non conosceva, di cui provavan nel loro cuore la bellezza,
il bisogno, l'arcano presentimento: una luce di cui la stella, la misteriosa stella
dei patriarchi, di Noè, di Adamo, pareva l'immagine e la precorriera.
Mentre tutti gli altri uomini erano intenti alla terra i tre re guardavan dunque
la stella: e la stella un giorno si mosse... Verso quale adunata chiamava l'antico
segno della fraternità umana? Verso quale nuova terra promessa guidava questo
nuovo fuoco celeste? Mentre i figli di Sem, il benedetto, che sì ricordavano
di un antico glorioso pellegrinaggio dalla servitù alla libertà compiuto
al seguito di una fiamma, ora se ne stavano inerti, servi delle loro passioni, i
tre re, l'uno ignorando dell'altro, mossi da un impulso interiore non ostacolato
dalla loro ricchezza, dalla loro potenza o dalla loro sapienza, s'incamminaron dietro
la stella. Camminaron per giorni e per settimane, chiedendosi dove mai la stella
si sarebbe fermata, dove si sarebbe compiuto il grande riaffraternamento dei popoli,
già avviato in loro dacché le loro strade s'erano fatte, nell'andare,
una sola, e uno solo i loro cuori. Allorché, dopo un lungo viaggio, videro
la stella - che scendeva sempre più verso la terra, facendosi sempre più
splendente - puntare verso una città, la città sovrana dei figli di
Sem, il benedetto, pensarono che fosse quello il luogo del grande ritrovo umano,
quella la reggia e la capitale del nuovo regno, della ricomposta unità. Ma
la stella, giunta alla città, scomparve agli occhi dei re, per riapparire
soltanto quando la città fu oltrepassata. Pieni di una più viva gioia,
dopo il momentaneo smarrimento, i re proseguirono, oltre la città, il loro
cammino, mentre la stella, aumentando di più in più il suo splendore,
si faceva quasi abbagliante... Nessuna città si delineava ormai agli occhi
dei tre coronati, che se ne andavano ripetendo fra loro, quasi per non scordare un
nome, un piccolo nome, udito nella grande città: «E tu, Betlemme, terra
di Giuda, non sei la minima tra le terre di Giuda...» A ogni passo che i pellegrini
facevano, la stella tuttavia calava, calava, mentre sembrava dì stella mutarsi
in sole, accennando prossimo il termine. Ed ecco nel riflesso della sua luce un'umile
borgatella svelarsi agli occhi dei re, che si facevano della mano solecchio per meglio
scorgerla. E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei la minima tra le terre di Giuda...
Nessun afflusso di popoli si scorgeva per la campagna d'attorno: solo, qua e là,
dei pastori che vegliavan sul gregge. E nondimeno la stella continuava a calare,
a calare in fretta, quasi impaziente di toccare la meta. Nessun dubbio oramai che
la meta, il luogo del sublime congresso umano, la «terra promessa», fosse
il piccolo borgo in cui già l'occhio distingueva casa da casa: altro non si
domandavano i re se non quale sarebbe stata la casa degna di fermare il gran lume
- e cercavano se un palazzo o un albergo signoreggiassero fra la povertà del
villaggio. V'era il palazzo e v'era l'albergo ma non su loro scese il gran lume.
Vi era anche, povera, bassa, una stalla, e sul suo tetto la stella si riposò.
Quando i re uscirono, per tornare ai loro paesi, la stella che li aveva guidati,
la stella dei patriarchi, la stella di Noè, di Adamo, il segno dell'antica
fraternità umana, il segno che doveva richiamar gli uomini al cielo e agli
uomini il cielo, non vi era più... Il cielo stesso, infatti, era sceso in
terra, in quell'umil terra di Giuda, in quel borgo, in quella stalla, e lo contemplavano,
in una greppia, su un po' di paglia, una donna e un uomo, sotto le forme di un bambino
da poco nato, a cui la donna diceva di tratto in tratto «mio figlio»
e l'uomo «mio Dio».
Testo tratto da: TITO CASINI, Il Pane sotto la neve, Firenze: LEF, 1935/2,
pp. 190-196.