Ai messi dei Farisei che gli domandavan
chi fosse (se il Cristo aspettato, se Elia, se un profeta), Giovanni rispose: «lo
sono una voce».
Era un uomo, era un profeta, «anzi più che un profeta», era «quell'Elia
che doveva venire», era il nunzio del Cristo, e gli parve assai rappresentarsi
in quel modo: «lo sono una voce». Infatti, senza la voce, Giovanni non
sarebbe stato Giovanni. Per essere una voce era nato, perché era una voce
(voce di rimprovero) morì. A Zaccaria che chiedeva un segno per credere nelle
parole dell'angelo che gli annunziava tal figlio l'angelo tolse la voce. «Ecco,
tu diventerai muto». Muto, cioè l'opposto di quel Giovanni promesso,
il quale doveva essere essenzialmente «una voce». Egli stesso, finché
non fu pienamente «una voce», si tenue nascosto, come inesistente: «Il
bambino intanto cresceva... e stava nelle solitudini fino al giorno di darsi a conoscere
a Israele».Che cos'è dunque la voce, se un uomo definito da Cristo come
il più grande degli uomini si definì semplicemente «una voce»?
Si potrebbe dir che la voce è l'uomo, e lo disse già Omero dando alla
nostra specie l'epiteto di «parlanti». E, se non possiamo dir che la
voce è Dio, possiamo dir che la voce è ciò che principalmente
ci fa simili a Dio. Per creare, Dio si servì della voce. Dixitque Deus…
Dixit quoque Deus… Dixit vero Deus… Dixit autem Deus… Dixit etiam Deus… «Dio
disse», e fu la luce e fu il firmamento e furono la terra e il mare e furono
il sole e la luna e le stelle e furono gli animali e fu l'uomo. Con Dio, la voce
partecipa, in figura, dell'eternità. La generazione del Figlio, quale il Figlio
medesimo ce la riferisce nel primo introito di Natale, non è senza un parlare
di Dio: Dominus dixit ad me: Filius meus es tu, ego hodie genui te: «Il
Signore m'ha detto: tu se' mio Figlio, oggi stesso io t'ho generato». E il
Figlio si chiama Verbo, cioè Parola. Il Figlio discorre col Padre,
come sì sente, a modo d'esempio, nell'introito di Pasqua: Resurrexi et
adhuc, tecum sum: «Son risorto: eccomi ancora con te»; e il Padre
gli risponde, sede a dextris meis, «siedi alla mia destra». Della
Terza Persona, quella che si manifestò un giorno in «lingue» di
fuoco e suono di vento impetuoso, canta l'introito di Pentecoste ch'essa «ha
la scienza d'ogni voce», scientiam habet vocis; e sappiamo che l'effetto
istantaneo della sua discesa negli uomini fu ch'essi «incominciarono a parlare»:
repleti sunt omnes Spiritu Sancto et coeperunt loqui.
Comune a Dio e agli uomini, incorporea, invisibile come Dio, e sensibile e intelligibile
come gli uomini, la voce è il segno maggiore di somiglianza fra gli uomini
e Dio, ed è il mezzo di accessione fra l'Inaccessibile e gli abitatori della
terra.
Dio non aveva necessità di articolar suoni, di parlare, per farsi intendere
dalle sue creature, e tuttavia egli ha parlato, s'è servito della voce, come
per creare, così per comunicare con l'opera del suo Verbo. Ha parlato con
Adamo, con Eva, con Caino, con Noè, con Abramo, con Isacco, con Giacobbe,
con Mosè; ha parlato coi re, coi capitani, coi profeti, coi sacerdoti del
suo popolo; ha parlato con autorità nel paradiso di delizia, con terrore sul
Sinai, con dolcezza sul monte delle beatitudini, con sdegno nel tempio, con dolore
nel Getsemani, parlerà con giustizia sulle nuvole alla fine dei giorni.
Dio s'è servito della voce per trattare con l'uomo, e l'uomo si serve della
voce per trattare con Dio, per lodarlo, per placarlo, per supplicarlo, per ringraziarlo.
Dirò di più: con la voce (è il massimo della sua potenza) l'uomo
rende a Dio quasi la pari: di creatura si fa «creatore» e «creatore»
di Dio. Alle sette parole con le quali Dio fece un po' di fango esser uomo — faciamus
hominem ad imaginem et similitudinem nostram — si possono infatti contrapporre
le cinque parole con le quali un uomo, sacerdote (sia pur peccatore e sia pur distratto
nel dirle), fa un po' di pane esser Dio: hoc est enim corpus meum. Il fango
non era maggiormente libero, dopo quelle, di restar fango, di quel che il pane sia
libero, dopo queste, di non diventar Dio.
Dinanzi a questo sublime potere di cui è investita la voce (il sacerdote può
esser cieco, sordo, privo di molti sensi, essere appena l'ombra d'un uomo: basta
gli rimanga la voce) sarebbe superfluo numerare altri titoli, ricordare altre parole,
Ego te baptizo, Ego te absolvo, Ego coniungo, per cui la voce,
Verbo» dell'uomo, rivaleggia in potenza col Verbo creatore di Dio nel dar la
vita, nel renderla, nel moltiplicarla.
È della voce come dell'aria e dell'acqua: la loro abbondanza, la loro invenialità
fa che ne dimentichiamo il valore, che ne usiamo e spandiamo senza risparmio. Chi
di noi pensa alla grandezza di questo nostro potere allorché discorriamo per
riposo coi nostri simili, allorché diciamo a un amico le nostre pene o le
nostre gioie. a una fanciulla il nostro amore, a un bambino, a un vecchio, a un povero,
a un malato la nostra tenerezza, a un maestro il nostro entusiasmo, a un consigliere
i nostri dubbi, a un sacerdote le nostre colpe, allorché nel pianto sfoghiamo
il nostro dolore, o nelle note di una canzone la nostra allegrezza? Ci pensiamo almeno,
per contrapposto, allorché vediamo un essere apparentemente simile a noi mover
senza suono le mani e le braccia come una campana senza battaglio o come un albero
a dicembre allorché nudo d'ogni foglia non può rispondere al vento
che lo trapassa da ogni parte se non col tentennar de' suoi rami? Ci pensiamo forse
perché il Vangelo ci avverta che d'ogni parola oziosa, d'ogni parola sciupata,
quasi d'una perla gettata, dovremo render ragione?
Bisogna essere stati a lungo rinchiusi per gustar l'aria di un poggio travalicato
dal vento; bisogna aver camminato ore e ore sotto la faccia ,del sole quando più
arse stridono le cicale per intender, presso una fonte fatta con la corteccia di
un albero, all'ombra di un faggio, che deliziosa cosa sia l'acqua; e bisognerebbe
forse, come il padre di san Giovanni, restar muti qualche spazio di tempo per comprendere
il dono divino ch'è la voce e l'uso divino che ne va fatto.
Benedictus Dominus Deus Israel… Parole di benedizione, al Dio eterno e nascituro,
usciron dai labbri di Zaccaria allorché, dopo nove mesi, la lingua gli si
risciolse; e quali altre dovrebbero uscir dai nostri? Le campane stesse, sciogliendosi,
ogni anno, dopo due giorni di forzato silenzio, in quell'inno al Dio morto e risorto
che apre la gran letizia pasquale, insegnano a noi uomini, a noi redenti, come si
debba usar della voce.
Testo tratto da: TITO CASINI, Il Pane sotto la neve, Firenze: LEF, 1935/2,
pp. 99-104.