Allora, tutti ti lodavano, ti
trovavan piacevole - anche quelli che non ti volevan proprio dir bella - e venivano
anche di distante, venivano dalla città a star da te, a goder le tue grazie.
Ne venivano d'ogni specie, chi per dei mesi e chi per dei giorni, magari una giornata
sola, finita la settimana, per trascorrer con te la festa e il riposo.
Eravamo in molti, allora, a volerti bene - e che merito c'era? Di brutto tu non
avevi che il nome, quel tuo nome originariamente bellissimo, che ora, deformato,
fa pensare a un uccello nè per le penne nè per il canto ne per i costumi
gradevole. Brutto, dico, per gli altri, perche in quanto a me anche il tuo nome,
il tuo nome d'ora, mi piace, per quel che ha in sè d'indomestico, di dispregiato;
più caro che se tu l'avessi dall'usignolo, il cui gorgheggio ti è familiare
quanto ti è ignoto il verso della cornacchia.
Cornacchiaia, brutto nome ma caro paese, anche ai cittadini superbi, in tempo d'estate!
Dolce l'andare per le tue vie scure d'ombra, morbide al piede, aggirarsi per i tuoi
boschi muschiosi, gelarsi i labbri alle tue fonti, correre al vento su' tuoi poggi,
gettarsi a sdraio ne' tuoi prati e sognare e smarrirsi fissando il cielo terso, azzurro,
fondissimo - mentre sui tetti, i muri, le lastre della città il sole versa
da un cielo torbo, cincreo, la sua lava di fuoco, e l'aria fra lato e lato sembra
di forno, e l'acqua a bersi par tiepida, e gli alberi, lordi di polvere, immobili,
smorti, han più l'aspetto di vittime che di ripari... Dolci, dopo il giorno,
le tue notti, per chi voglia dormire e per chi ami ancora star fuori, dove fu consumata
la cena, e accompagnare con gli occhi il viaggio tacito della luna, o dilettarsi
a distinguere stella da stella, intanto che si leva dai campi il tremulo prolungato
canto dei grilli - e laggiù, nelle stanze ancora roventi, a render più
difficile il sonno, più fastidiosa la veglia, ronza maligna la zanzara bevitrice
di sangue.
Caro paese, se anche brutto il nome, tu eri allora, o mia Cornacchiaia, anche per
i cittadini superbi. E io pativo dei loro elogi, per timore che ti guastassero il
cuore; pativo, e, nella mia gelosia, m'auguravo che se n'andassero, coi loro abiti,
coi loro usi, coi loro canti, coi loro divertimenti, coi loro discorsi, con la loro
lingua, così diversi dai tuoi! Perchè cessassero di lodarti, perchè
se n'andassero (con tutte le cose loro), affrettavo col desiderio la fine delle tue
grazie estive; e quando mi descrivevano i tuoi pregi, quando mi ragionavano del buono
stare con te, io descrivevo a loro i tuoi inverni, la lividezza del tuo cielo, lo
scialbor de' tuoi poggi, la squallidezza delle tue macchie, il fango delle tue vie,
l'umidore delle tue nevi, la pungenza de' tuoi tramontani.
Nulla ancora di tutto questo quand'essi se ne sono andati. Tu eri ancora bella quando
gli ultimi di loro ci han detto addio, e tuttavia nel loro addio c'era, dissimulato,
quasi un senso di compassione per noi che restavamo quassù, che non avevamo
al pari di loro una casa in città. La città aveva ripreso, col trapasso
della canicola, tutto il loro amore, e le tue attrattive eran per loro tutte cadute
al cader delle prime pioggie, al soffiar dei primi venti autunnali, ai primi precoci
segni della neve futura.
Benedetta dunque la neve, benedetti i venti, benedette le pioggie, l'umido, il fango,
benedetto l'inverno, che ti allontanano (con le loro cose) tutti i falsi amici, che
ti rendono tutta a me e mi dànno modo di provarti il mio amore!
Essi non credevano ch'io ti restassi fedele, che ti amassi così nell'intimo,
essi che ti amavano per la freschezza delle tue ombre, per l'ossigeno delle tue piante,
per la dolcezza delle tue acque, per la mitezza del tuo clima, per tutto quello che
ti aveva dato l'estate e che l'inverno ti ha tolto. Invece, è questo il tempo
in cui ti voglio più bene, è questa la stagione in cui mi piaci di
più, ora che sei brutta e di nome e di aspetto, ora che non puoi piacere se
non a chi ti ami il cuore, ora che l'amarti può apparire - e appare, infatti,
a qualcuno - o stranezza o virtù.
Sia benedetto l'inverno, che ti ha resa a te stessa, alla tua piccolezza, alla tua
oscurità, alla tua solitudine, alla tua pace, ai tuoi focolari, alla tua chiesa!
La tua chiesa! Tu l'avevi forse un po' disertata, al tempo dei forestieri? Ma ora,
ora che l'andarvi costa fatica e disagio, ora che bisogna sudare per romper la neve,
ora da ogni borgo alla chiesa è tutta una catena di tracce per un verso e
per l'altro, quasi vene che dalle membra portino al cuore e dal cuore alle membra.
Ed è una gara, quasi si tratti della vita, a rinnovar quelle tracce, a riscavar
quelle vie, a rendere il corso a quelle vene, ogni volta al mattino si ritrovino
chiuse.
La chiesa! Non ci resta che quella, all'infuori del focolare, ma poichè quella
ci resta, nulla ci manca. Che importa se la neve mura tutt'intorno gli sbocchi dei
poggi, isolandoci come assediati da ogni commercio con gli altri uomini? Per quanto
la neve s'alzi, essa ci lascerà aperto il cielo, e se il cielo ci è
aperto, che cosa ci è chiuso? Il nostro commercio, infatti, ora è tutto
col cielo: col cielo è la nostra corrispondenza e la nostra conversazione.
Impediti di espandersi attorno, i nostri pensieri procedono naturalmente nel senso
del campanile, e dal campanile ci scendono tutte le nuove di cui fa festa il nostro
cuore.
Vecchie nuove, come quella che il prete legge, a gran voce, nel principiar di dicembre:
« L'angelo Gabriele è stato mandato da Dio in una città della
Galilea chiamata Nazaret... » e quella che le campane bandiscono, proprio nel
colmo della neve, venti giorni dopo: «Un fanciullo ci è nato, un figlio
ci è stato dato... »
Vecchie nuove, e tuttavia sempre nuove, sempre cagione di somma inenarrabile gioia,
per chi, non distratto da altre notizie, noia frastornato da altri suoni, non svagato
da alcuna diversa bellezza, può riceverle appieno, ripensarle, discorrerle
come a noi concede la tua solitudine, il tuo squallore, il tuo freddo, la tua neve,
il tuo fango, la tua bruttezza, Cornacchiaia brutto nome e brutto paese.
Testo tratto da: TITO CASINI, Il Pane sotto la neve, Firenze: LEF, 1935/2,
pp. 83-88.