Anche a noi e, aggiungiamo, non
a pochi, pur non volendo dir della nostra ciò che Melantone, l'amico e socio
di Lutero, scrisse della loro rivoluzione: «Tutte le acque dell'Elba non basterebbero
per piangere la sventura della Riforma».
Aggiungiamo pure che il piangere, di dolore, sul latino o sul gregoriano, sulla Messa
o sul Vespro, su tutto ciò che ieri faceva pianger di gioia, è malvisto,
dagli eversori al potere, come ogni rimpianto in regime di dittatura, con conseguenze
pericolose per noi, i nostalgici, come Mosca, in quel suo Missa est, s'è
divertito a immaginare, scrivendo, dopo aver partecipato a una di quelle: «Roma,
domenica, chiesa di San Silvestro, sei e mezzo del pomeriggio... Che Iddio li protegga.
Assisto alla messa in latino. La celebra un prete americano. La legge, il latino,
non lo proibisce ancora, perciò nessun pericolo di fermo o d'arresto, ma è
prudente non farsi riconoscere: fra tre anni o fra cinque si potrebbe esser chiamati
in qualche ufficio, e interrogati: "Lei, alle diciotto e trenta dell'ultima
domenica di maggio e della prima di giugno... dov'era? e perché? conosce il
latino? le piace? da chi ha saputo che spero, promitto e iuro vogliono
l'infinito futuro? "Saranno agenti di non so quale potenza, vestiti di celeste
o forse di rosso, sorridenti ma terribili, premeranno un bottone e...»
E sarà, verrebbe a dir Mosca, ciò che fu detto un giorno a quei dodici,
per essi e per noi: «Viene l'ora in cui chi vi uccide crederà di rendere
un culto a Dio», come han creduto, sicuramente, quei bravi vescovi svizzeri
e austriaci che non hanno ucciso, no, ma han messo alla fame, privandoli del benefizio
e lasciandoli senza un sussidio, come quello di cui godono gli spretati, i parroci
che «si rifiutavano di dare la Comunione nella mano» (come riferisce
e documenta, in Chiesa viva, Edith Schubart).
Comecché si mettan le cose, ci conforta questo non esser soli né pochi
a riandar col cuore quei cori (piaccia o dispiaccia ai teneri che hanno in uggia
Cassandra, salvo ricordarla, domani, quando Ilio sarà in fiamme). Solatium
miseris socios babere poenantes, specie se di «soci» si tratta che
non se ne stanno lì a sospirare, o a coniugare i verbi che vogliono l'infinito
futuro, ma a lavorare, a combattere, nel presente, contro un futuro che potrebbe
esser prossimo - il 15 giugno è un forte passo su questa strada - in cui gli
agenti di quella tale potenza non si limiteranno a inquisire se siamo stati alla
messa in latino ma alla messa quale che sia, se siamo stati, cioè, in chiesa,
se crediamo e insegniamo a credere in Dio. Il che se avvenga, non sarà ciò
che personalmente potrà avvenirci la nostra maggior disgrazia (per aver battezzato
un bambino, un prete in Albania è stato poco fa fucilato; per aver detto messa,
un altro, in Russia, è stato, di questi giorni, impiccato: ma di questo essi
ibant gaudentes, queste sono, per noi, vittorie), bensì la nostra responsabilità
in questo, dico nella persecuzione della Chiesa, dice, nell'apostasia di cui sarebbe
il portato.
Credo mio dovere, parlando di soci nella pena che non si son chiusi in questa
ma han fatto, han parlato e scritto contro le cause e per i rimedi, darmi il piacere
di render note queste quasi estreme parole di Eririco Medi, l'uomo di scienza che
non fu meno uomo di fede, che c'intrattenne sulla Luna col cuore forse rivolto a
Colei di cui il dolce astro è per la Chiesa una delle tante immagini - pulchra
ut Luna -; che scrisse sul Rosario e il rosario disse tutti i giorni, attento
a non uscir mai di casa, per la scuola o per il parlamento, senza che la corona fosse
nelle sue tasche; che, malato a morte, si rimproverò di troppo desiderarla,
non come la fine di questa vita, coi suoi dolori, ma come inizio dell'altra, della
vera, della sola desiderabile. Il suo amore per la Chiesa fu il suo dolore nel grande
sbandamento seguito e conseguente al Concilio, e gli tolse dal cuore, prima che dalle
labbra, espressioni come queste, appunto, che riportiamo, pronunziate in limine,
col pensiero già oltre la soglia, per degli amici fra i quali chi me
le ha fatte conoscere: «Sta passando la bufera sulla Chiesa, come ai tempi
delle grandi eresie, degli iconoclasti ... un periodo in cui si vede che la Chiesa
è di Dio e non degli uomini, se no sarebbe distrutta... Noi non siamo del
mondo, siamo contro il mondo... Qui il grande errore, il grande equivoco anche del
Concilio (scusatemi perché non è parte dogmatica). Quando mai Gesù
ci ha detto di andare incontro al mondo? Ha detto: "Io per il mondo non prego:
non pro mundo rogo... " e siccome lui è l'unico intercessore...
se non c'è la sua preghiera è maledizione... Mai il Signore ... anzi
ha detto: "Il mondo ha odiato me e odierà voi ... vi metteranno a morte,
opinantes dare gloriam Domino..." Siamo arrivati a questo... Sono parole
chiare, parole che la Chiesa ha insegnato per duemila anni, non sono scoperte da
manoscritti usciti fuori adesso... Quindi la società moderna è tutta
costruita come una fortezza contro la Chiesa: il capitale, il lavoro, il comunismo,
la concezione delle macchine, il denaro... tutto è concepito con mente diabolica
contro la Chiesa...» E pensando, in particolare, a quella parte della Chiesa
che particolarmente egli amava - come Gesù la sua terra - perché sua
terra, ne lamentava l'avvilimento e l'asservimento, per cui «non sappiamo più
cosa vuol dire lavoro, cosa la scuola, cosa la famiglia, non sappiamo neppure quali
siano i confini della nostra patria» (cosa, questa, su cui abbiamo or ora tolto
ogni incertezza rinnegando e regalando al nostro dirimpettaio rosso, antitaliano
e anticristiano, le case e le anime di trecentomila nostri fratelli di sangue e di
fede, invano difesi da un vescovo per il quale eran figli). «Questa è
l'Italia...»
Infermo dello stesso male ma forte della stessa fede di Medi, scriveva ai soci di
Una Voce, incoraggiandoli a perseverare nella loro battaglia «per la
salvaguardia della liturgia latino-gregoriana», l'umile cappuccino, dimissionario,
per il convento, da una gloriosa cattedra di belle lettere, che già col suo
saio, il suo cordone, i suoi sandali, in tanto secolarismo, in tanta corsa allo spogliarello
pretesco e fratesco, convinceva di ciò ch'era per dire, in televisione, ai
tanti che in ogni parte del mondo (anche in Russia, come si poteva e nonostante il
rischio) aspettavano quel giorno della settimana per ascoltarlo, per esserne illuminati
e consolati: quel padre Mariano la cui mitezza francescana, il cui Pace e bene
a tutti (ora laicizzato, dai suoi successori in borghese, nel borghese Buona
sera) non gl'impediva, appunto, di schierarsi così con noi: «Condivido
sentimenti, apprensioni, ribellioni, contro i profanatori della nostra fede».
E fu con noi, ossia noi fummo con lui, ruvido, più che severo, contro i profanatori,
un altro la cui partecipazione ci rallegrò e rallegra fra tutte, guardando
al «sigillo» impresso dal cielo nelle sue mani: quelle mani che tremavano
di timore e di amore stringendo fra le dita l'ostia su cui aveva detto quelle parole...
Diciamo di padre Pio, che tante anime riformò senza riformare le forme e al
Papa chiese e ne ottenne una sola grazia: quella di poter continuare a dir la sua
Messa come sempre l'aveva detta dal suo primo Introibo ad Altare Dei. Ciò
che si vedeva, in lui, di particolare era il modo di dirla, e quel modo, quel fervore,
la rendeva intelligibile a tutti, senza che il latino rappresentasse un ostacolo
o il dirla rivolto al Tabernacolo, facie ad Deum, paresse mancanza di rispetto
per i fedeli, così come ora parrebbe, ora che al Tabernacolo il celebrante
volta la schiena e può così vedere i fedeli, ma ne vede un numero sempre
più ridotto, cosa ammessa dallo stesso ben noto padre Rotondi, il paladino,
s'altri ce n'è, della messa rigenerata (o «rinnovata»,
come lui vuole), al quale m'auguro non dolga perch'io un poco a ragionar un'inveschi
ancora con lui, come ho fatto qua addietro, anche perché non si creda che
io creda che i buoni e bravi si trovino soltanto fra quelli, preti o frati, che vestono
da preti o da frati e dicono la Messa in latino, pur se quelli mi sembrano, dico
il vero, più preti o frati e li ho più in simpatia.