«Ma come!» voi ci
fate dire, esclamare (senza certo riflettere a Chi parlate, Chi compatite, con noi):
«lasciar da parte il latino, la lingua della Chiesa, la lingua tradizionale
della Chiesa, la lingua nella quale si sono espressi i padri, la lingua per cui la
Chiesa cattolica si sente una in tutto quanto il mondo, lasciar da parte il latino
per queste lingue volgari?» E riconosciamo che, se non tutte, avete riassunto
bene una buona parte delle nostre «giustificazioni», spingendo la vostra
generosità fino a dire: «non le disprezziamo», e grazie, Eminenza!
Item per la musica: «accantonare, archiviare», voi seguitate a scandalizzarvi,
rettoricamente, in nostra vece, «tutto un patrimonio di canto gregoriano, di
polifonia classica, di polifonia e di musica sacra posteriore, accumulato nei secoli,
che è tutto composto su testi latini, ed esige testi latini?» Item per
l'architettura, ammettendo che se «le nostre chiese, le nostre grandi chiese,
tutte le nostre chiese», con buona pace di Nicola Pisano, di Arnolfo, di Bramante,
del Sangallo, di Michelangelo, del Bernini e compagnia simile, non son fatte bene,
«non sono fatte nel modo più funzionale» e vanno perciò
rifatte o corrette («con somma prudenza», beninteso) in «senso
comunitario» ossia senza «diaframmi di colonne, pilastri, navate»
eccetera tra l'«assemblea» e l'unico altare nel mezzo (in una parola,
sottintesa, alla protestante), rappresentano tuttavia un «patrimonio artistico»
anch'esso non disprezzabile; però... «Però» (è la
vostra risposta a tutto, e fa pena) «di fronte a queste, che sono pure valide
cose, sta una cosa più grande: la formazione spirituale del popolo cristiano:
comunicare a questo popolo la parola di Dio in maniera che la intenda e se ne nutra:
accostarlo all'altare così che egli consapevolmente partecipi all'assemblea
della famiglia di Dio».
Più che a una famiglia la parola «assemblea» fa pensare a un «club»,
a una cooperativa, a un circolo, o mettiam pure a un condominio; ma non è
questo, oh no! che fa pena: ciò che fa pena - ve lo ripeto: il sangue, infatti,
ribolle nelle mie vene di cattolico perdutamente innamorato della sua Chiesa - è
l'ingiuria che voi lanciate (senza riflettere, sicuramente: era il carnevale, erano
i giorni dei coriandoli) contro la Chiesa. Se la logica vale ancora, se non è
stata riformata, anche lei, al vostro distretto, da queste come da quell'altre vostre
parole è giocoforza sillogizzare che la Chiesa, fin qui, fino a voi, l'esecutore
della Riforma, il Grande Slatinizzatore del Culto, la Chiesa, con tutti i suoi papi,
i suoi santi, i suoi dottori, i suoi liturgisti (da papa Damaso a Schuster), non
aveva, ridiciamolo, capito un'acca e conformemente non aveva fatto nulla per «la
formazione spirituale del popolo cristiano»; con l'aggravante di aver mantenuto
e difeso ed esaltato il suo latino quando a conoscerlo, grammaticalmente, erano pochissimi,
erano propriamente i «signori», mentre oggi un po' lo san tutti e quello
di chiesa è così facile, specie per gl'italiani; nè vi era il
sussidio dei «messalini»: quei piccoli messali bilingui (latino-italiano,
latino-francese, latino-tedesco, latino-inglese e così via, a fianco o interlineati)
che a voi, è vero, non vanno (fatta eccezione, m'immagino, per quello del
padre Bugnini...) rappresentando anch'essi un «diaframma tra l'altare e la
nave, tra il sacerdote che presiede l'assemblea e l'assemblea stessa», e rappresentavano
precisamente, nel più largo senso, il contrario sia perchè davan modo
ai cattolici di girare il mondo, di entrare in qualunque chiesa, «della lontanissima
Santiago del Cile o della Nuova Zelanda», senza sentirsi mai stranieri, sempre
sentendosi a casa propria, tra fratelli (lascio a voi la vostra «assemblea»)
nella chiesa della propria parrocchia; sia e soprattutto perchè coi «messalini»
accadeva questo, Eminenza: accadeva che, appreso più o meno in breve il significato
dei testi (che si ripetono quotidianamente o annualmente), i fedeli seguivano ormai
in latino, insieme al celebrante (vi lascio il «presidente»), la Messa,
vinti da quell'attratriva propria del belle che poco fa si diceva e ch'è d'ogni
persona normale. «La lingua per cui la Chiesa cattolica si sente una in tutto
quanto il mondo...» Proprio così, Eminenza, e vi assicuro che non è
una cosa da poco: se non fosse una troppo brutta parola del vostro brutto lessico
di riformati vi direi che quello era il vero «comunitarismo».
Ho visto co' miei occhi il contrario l'estate scorsa stando al mare in una città
della vostra Emilia frequentata da stranieri proprio di tutto quanto il mondo, tra
cui molti cattolici, e quanto mi commoveva gli altri anni il sentirli, in chiesa,
alla Messa domenicale, pregar con noi, «unanimes uno ore» in tanta diversità
d'accenti, cantar con noi: «Et unam, sanctam, catholicam et apostolicam Ecclesiam»,
tanto mi ha rattristato, quest'anno, il vederli, accanto e lontani, guardarci muti,
smarriti, stranieri - in una parola - anche lì pur se a contatto con
noi di gomito, quelli che non eran rimasti fuori. La Messa, infatti, quest'anno,
non era «nella lingua di tutti»: era in italiano, e questo era davvero
il «diaframma», più isolante delle colonne, dei pilastri, delle
navate... Parlavo con un ex-ufficiale inglese già prigioniero in Germania
e mi diceva che il filo spinato e il muro di cinta e le sentinelle non gl'impedivano,
la domenica, di sentirsi libero, fra i suoi, sentendo il cappellano tedesco segnarsi,
in latino, e dire Introibo ad altare Dei... come il suo parroco di Londra.
Ho anche presenti, e non le scorderò mai, le lacrime di un'anziana signora
che dal protestantesimo s'era convertita al cattolicismo proprio o soprattutto per
questa sua «splendida unità», e ora ... !
«Ut unum sint», e si è cominciato col distruggere l'«unum
sunt».