Eminenza,
pensavo a Voi, tempo fa, leggendo, sull'«Osservatore Romano», di un episodio,
accaduto trent'anni addietro, che mi ha fatto fremer di commozione... Come Voi c'entriate,
come io abbia e in che modo pensato a Voi, vi dirò subito dicendovi che l'episodio
ha bruscamente risvegliato in me il «7 marzo»: Voi già mi conoscete,
per questo, e non potete stupirvi.
Accadde precisamente, in Roma, l'11 settembre 1932, nel corso dei lavori ordinati
da Mussolini per aprir la via dei Fori Imperiali. Ne doveva esser vittima, tra l'altro,
una chiesa - Santa Maria in Macello Martyrum - cara, nella sua antichità,
a tanti, per tanti motivi religiosi e di sentimento, non considerati tuttavia di
un tal peso da impedire lo scempio. S era al punto, s era per abbattere una parete
recante in affresco la pia immagine di un Gesù Crocifisso molto venerata dal
popolo, e ne fu chiesto il via alla commissione, composta di artisti e di un vescovo,
presente ai lavori. Il via - considerato il modico valore artistico della pittura
- ci fu, anche il vescovo fece «pollice verso», e un operaio ebbe l'ordine
di demolire. Di malavoglia, e senza nasconderlo, l'uomo raccolse allora il piccone,
ma restò li, senza sollevarlo, esitante, finché, rivolto al vescovo,
scambiato forse per un semplice prete, disse: «Reverendo, io sono cristiano:
non me la sento di... Se proprio vuole, dia almeno lei i primi colpi». Il vescovo
arrossì, tutti restarono muti, si guardò di nuovo l'affresco, si vide
ch'era possibile, che meritava, e il Crocifisso rimase.
Io non so, l'articolista - Alberti - non ce lo dice, chi fosse quel vescovo, ma son
certo che non potevate esser Voi: che al suo posto Voi avreste accolto la proposta
dell'operaio, avreste raccolto quel piccone, e, dando al gesto un significato
simbolico, tranquillamente avreste menato quei colpi, avreste cooperato a distruggere
quella chiesa «vecchia» e «non funzionale», fosse pur piaciuta
agli «esteti» e avesse pur su di sè tanti secoli di memorie, di
devozione, di amore. Voi lo avete fatto, Eminenza, vi è riuscito ottener di
farlo - con grandi sforzi e l'aiuto, s'intende, d'altri, per cui lascerò d'or
innanzi il Voi per il voi - in ben più larga misura e con più disonesto
strazio, il 7 marzo 1965, e qui non parlo, Eminenza, di quell'avvio da voi dato,
con le vostre picconate, le vostre dichiarazioni, in materia, barbaramente eversive,
allo scempio che in tante chiese s'è fatto e si va facendo di altari, di tabernacoli,
di balaustre, di statue, di pulpiti, di fregi eretti dall'arte, attraverso i secoli,
a gloria e servizio della Fede. Non delle chiese io qui parlo, ma della Chiesa, splendida
divina Madre a cui appartengo come voi e mi appartiene come a voi, onde il mio diritto
e dovere d'impiegar per lei questa penna, di levar per lei la mia voce, dispiacente
se vi dispiaccia ma risoluto non meno.
Può non piacervi, veramente? Può dispiacervi o meravigliarvi che uno
qualunque, un laico, dica la sua in cosa di religione a persone del clero, magari
a un vescovo, e cardinale per giunta? Senza ricordarvi che Iddio, quando i profeti
tralignano, può anche valersi di un asino, dare a un asino la loquela per
richiamarli - e vi auguro l'umiltà di Balaam, nei miei riguardi -, alla mia
qualità di laico mi appello, appunto per far ciò che a me stesso in
addietro poteva sembrare audace, pur nella più retta intenzione. Voi, mitrati
pastori, ci avete cosi blanditi e innalzati - noi fin qui semplici «agnelli»,
nel gregge affidato a Pietro là sulla spiaggia di Tiberiade - che... che a
qualcuno è perfin parso eccessivo e n'è nata la barzelletta, d'una
aggiornata enciclopedia in cui la voce «laicato» sarebbe spiegata col
rimando alla voce «clero», e «clero» col rimando a «laicato».
Scherzi a parte, voi ci avete, ripeto, attribuito tanta importanza nella condotta
della Chiesa - e me ne appello, Eminenza, alle vostre proprie parole teletrasmesseci
tre giorni avanti quel 7 marzo: «Certo questo Concilio possiamo anche dirlo
il Concilio dei laici perché» eccetera eccetera -, tanto ci avete parlato,
ci avete inebriati di «libertà», che non ci sembra più
irriverenza prendere anche noi la parola in chiesa, ossia rivolgerla a voi.