Questa «lettera»,
scritta con una penna cosi diversa - come parrà forse ai lettori di tante
altre mie pagine - dalla mia abituate, è rimasta per lungo tempo nel mio cassetto,
esitando e sperando. Esitando, dico, a motivo della sua audacia, e sperando, da parte
altrui, in una resipiscenza, un ritorno a miglior consiglio, che mi avrebbe fatto
distruggere, come cosa superflua ormai e con la più grata gioia, ciò
che con tanta amarezza avevo composto.
Si tratta della Liturgia, attaccata - nelle sue forme, nella sua lingua, nella sua
voce - da un gruppo d'«innovatori», o «progressisti», vecchi
e arretrati come il vescovo Scipione Ricci e il suo granduca Leopoldo; e i lettori
che mi conoscono per quelle altre mie pagine, per l'amore con cui ho tentato di celebrare
la bellezza della «Sposa di Dio», non han ragione di stupirsi che in
sua difesa io abbia cambiato la penna in spada. Fortis est ut mors dilectio,
dura sicut infernus aemulatio.
Queste pagine erano già in mano al linotipista la scorsa estate, e furono,
da me tuttora esitante, ritirate, nella speranza che ho detto, quando leggemmo, tripudiando,
la lettera apostolica del Santo Padre, Sacrificium laudis, che respingeva
con tanta forza e tanta suasività di argomenti le pretese e le intraprese
del modernismo nei riguardi delle lodi divine: «Siamo venuti a conoscenza che
(...) nell'uffizio di Coro si vanno richiedendo le lingue volgari e si vuole ancora
che il canto, cosiddetto gregoriano, si possa qua e là sostituire con le cantilene
oggi alla moda; addirittura da alcuni si reclama che la stessa lingua latina sia
abolita. Dobbiamo confessare che richieste di tal genere Ci hanno gravemente turbato
e non poco rattristato; e sorge il problema donde mai sia nata e perchè mai
si sia diffusa questa mentalità e questa insofferenza prima sconosciuta...»
Richiamate, in proposito, le norme della Costituzione liturgica, a tale mentalità
chiaramente avverse, il Papa riprende: «Né si tratta solamente della
conservazione della lingua latina - lingua che, lungi dall'essere tenuta in poco
onore, è certamente degna di essere vivamente difesa, essendo nella Chiesa
Latina sorgente fecondissima di cristiana civiltà e ricchissimo tesoro di
pietà - ma si tratta anche di conservare intatti il decoro, la bellezza e
l'originario vigore di tali preghiere e di tali canti (...) Desta dunque meraviglia
il fatto che, scossa da improvviso turbamento, quella maniera di pregare sembri ad
alcuni ormai intollerabile...» E, confutata un'inconsistente obbiezione circa
il latino, cosi prosegue, con un'immagine tanto bella quanto espressiva: «Il
Coro a cui si togliesse quel linguaggio, che supera il confine di ogni singola Nazione
e che si fa valere per la sua mirabile forza spirituale, il Coro a cui si togliesse
quella melodia che sale dal più profondo dell'animo - il canto gregoriano,
vogliamo dire - sarebbe simile ad un cero spento, che più non illumina, più
non attira a sé gli occhi e la mente degli uomini...» L'accoratezza
non toglie ma aggiunge vigore al rifiuto, con cui la Lettera si conclude, di accordare,
con l'abbandono del latino e del gregoriano, «ciò che potrebbe (...)
sicuramente indebolire e intristire la Chiesa tutta di Dio».
C'era veramente, per noi, di che godere e sperare, e ne godemmo e sperammo come s'è
detto; ma per poco, per non più di quindici giorni, quanti ne corsero a malapena
tra la Lettera del Santo Padre (15 agosto) e la successiva «Settimana liturgica»
(29 agosto-2 settembre), che rilanciava, ampliandone il campo, il volgare e le «cantilene»,
con un programma avente tra gli altri questi punti: «Preparazione di una traduzione
dei Salmi, che abbia carattere di ufficialità, e che serva per i Vespri
e le ufficiature... Revisione e adattamento in lingua nazionale dei riti della
benedizione eucaristica» [ne abbiamo sentito un saggio: «Tanto grande
Sacramento veneriamo proni»]. «Preparazione di una traduzione del Graduale
simplex e delle melodie per i testi in italiano. Traduzione, che divenga ufficiale,
delle preghiere comuni usate in tutta la nazione: esempio, Angelus Domini, Litanie
Lauretane» et caetera et caetera: tutte cose, come ognun vede, che stanno alla
Lettera del Santo Padre come il no al sì; e fu allora che queste pagine tornarono
in tipografia... dove pur rimasero ferme, sempre esitando e sperando, fino a che,
nell'autunno scorso, si tentarono con un nuovo assalto distruzioni ancor più
vandaliche, che il Papa fermò con la sua grande allocuzione del 13 ottobre
ricordando ai membri del Consilium «il senso del sacro che incute riverenza
per tali cerimonie che la Chiesa adibì al culto divino; il rispetto della
tradizione, dalla quale è data a Noi un'eredità preziosa e venerata»,
e condannando «la furia iconoclasta, festinatione quasi iconoclastarum
propria, che tutto vorrebbe riformare e cambiare...»
Sappiamo che l'assalto continua, ed è così che ogni esitazione
è cessata: è cosi che, valendoci della «libertà, anzi
dovere» riconosciuti e inculcati ai laici dal Concilio, seppur negati dal Consilium,
di dir la loro «su ciò che concerne il bene della Chiesa» (Costituzione
De Ecclesia), diamo finalmente il via a queste pagine.
Cui bono? Vale a dir: con quale speranza? Rispondiamo: nulla nell'uomo, tutta
in Colui del quale la Cresima ci fece soldati. Costretti a combatter da partigiani
- con le intemperanze, possibili, dei partigiani - ci accade, pur nella sproporzione
del confronto, di ripensare alle parole che un grande partigiano di Dio, Matatia,
rivolgeva ai figli morendo: «Ora prevale la superbia e il sovvertimento. Perciò,
figlioli, siate zelanti e stati saldi nella fede...»
Armati di fede, noi combattiamo e combatteremo, per Israele dentro Israele, per la
Chiesa dentro la Chiesa, memori di quelle parole, non veni pacem mittere sed
gladium, offrendo a Dio anche questo dolore di dover guerreggiare contro «nemici»
che sono nostri amati fratelli - laici, come noi, o ecclesiastici, come l'eminente
destinatario di questa «lettera», del quale, per riverenza, omettiamo
il nome.
Tito Casini
Firenze, 22 febbraio 1967, festa della Cattedra di San Pietro, V anniversario della
Costituzione Apostolica Veterum Sapientia.