Anche il Vesuvio ha voluto
onorarmi di una sua eruzioncella, ed essendosi svegliato tardi, rispetto agli altri
vulcani, s'è avvalso, per allinearsi, dell'occasione del Canone rivoltato,
riegurgitato in italiano.
Parlo del Mattino, di Napoli, che dopo avere, il 20 marzo, preannunziato la
data storica («A cominciare da domenica prossima durante la celebrazione della
Messa anche il "Canone" - dal greco canòn, regola - cioè
la parte centrale ed essenziale del rito, verrà recitato dal celebrante in
lingua italiana... Il 24 marzo di quest'anno segna perciò una data storica;
infatti da circa 1500 anni la grande preghiera eucaristica della Chiesa occidentale
è stata pronunziata in latino e da più di un millennio in silenzio»);
dopo avere, anch'esso, notato il prezzo dell'ormai certa vittoria (ottenuta «non
senza polemiche, recriminazioni, critiche che talvolta hanno assunto un tono assai
aspro e aggressivo»), così anch'esso specifica e individua: «In
Italia il più vivace oppositore è lo scrittore Tito Casini, autore
di due scritti (La Tunica stracciata e Dicebamus heri) nei quali attacca
duramente l'organo preposto alla riforma liturgica», e giù cenere e
lapilli sulla mia testa, che, avvezza a ben più duri proiettili, s'è
appena accorta di questi, quando non ci s'è divertita, come, per esempio,
a vedere la malintesa che regna nel campo dell'intesa antilatinista. «La polemica»,
eccone uno, «nasce sia dall'equivoco che la Chiesa voglia abbandonare del
tutto il latino nella liturgia; sia dalla scarsa conoscenza dei precedenti storici...»
E come non divertirsi a confrontare queste del Mattino con quest'altre parole di
quell'Antonelli (che mi dicono sia un monsignore e abbia bene le mani in pasta, o
pasticcio come meglio vi parrà detto; da non confondersi, ovviamente, con
l'omonimo della Congregazione dei Riti, sostenitore del latino liturgico et quidem
del Canone), su un giornale come L'Osservatore Romano: «Con la recita
del canone in lingua italiana è l'ultimo baluardo della Messa in latino che
viene a crollare», sia pure di questo stesso Osservatore Romano che
per la penna del suo direttore aveva poc'anzi detto a Giuseppe Prezzolini che neanche
ci pensasse: «La riduzione (non l'abolizione!) del latino nella Messa...»
- col magro conforto, per Manzini, di trovarsi, lui, d'accordo col Papa, che in difesa
del «baluardo» aveva dettato la Sacrificium laudis... seppure
col risultato che s'è visto e si vede.
Quanto ai «precedenti storici», di cui il Mattino ci fa notare
la nostra «scarsa conoscenza», l'unica osservazione ch'io posso fare
è che dir «scarsa» è dir troppo poco, tanto la mia asinità
è riconosciuta, da me, e confessa. Mi si conceda, nondimeno, che «1500
anni in latino» e «più di un millennio in silenzio» sono
un bel precedente storico, almeno per chi, come me, conservi ancora nella memoria
e nel cuore quel Catechismo di san Pio X dove, al capitolo «Delle virtù
principali», leggo che «la Tradizione dev'essere tenuta nello stesso
conto della parola di Dio rivelata, contenuta nella Sacra Scrittura», e che
della Tradizione fan parte principalissima «le parole e le usanze della Sacra
Liturgia». Parimente mi si conceda di credere che un bel precedente storico
(oltre a tutti gli Atti di tutti i papi in esaltazione e conservazione della tradizionale
lingua liturgica) è il Concilio di Trento, che ha tra gli altri quel canone
IX, abrogato, dove il latino nella Messa e il silenzio Canone sono prescritti e difesi
con la scomunica «anathema sit» - contro chi affermasse il contrario.
E non parlo dei precedenti sentimentali, che mi riportano alla mia infanzia, quando
mia madre, facendomi congiunger le mani, mi sussurrava che in quel silenzio Gesù
scendeva sopra l'altare, e un sacerdote che nel suo timore - o «scrupolo»,
come ci spiegavano - di dire imperfettamente quelle parole le ripeteva più
volte come uno che balbetti, ci edificava, ci rendeva partecipi del mistero, più
che non certo l'istruzione dei neo-liturgi di pronunziarle, quelle parole,
forte e spedite «come una lettura qualunque», dividendo l'attenzione
e la voce fra l'ostia o il calice e il microfono ben accosto.
*
* *
C'è tuttavia un
capoverso in questo articolo di questo Al-Ca del Mattino, c'è il rilievo
di una stortura, su cui siamo d'accordo e lo dissi già in uno di quei miei
due incriminati libelli. «Con la recita del Canone in italiano», dice
enumerandone i vantaggi il giornale partenopeo, «viene a cessare quasi
totalmente l'ibridismo di una Messa per metà in italiano e per metà
in latino». Non dissimilmente da ciò che scrisse su quell'Osservatore
Romano il padre Bugnini, quando il Canone in italiano era ancora un sogno da
indigestione e i termini stessi in cui lo dice par ne risentano: «Non è
mancato chi ha creduto che la Chiesa intendesse rinunciare alla lingua latina nella
liturgia. Neppur per sogno. Anzitutto sembra evidente che si voglia evitare l'ibridismo,
che sa sempre di compromesso molto discutibile e di ripiego...»
Quanto a me - si licet... - trovavo buffo che nella medesima messa «comunitaria»,
ossia «senza caste», tutta ad usum ignorantorum, il prete (o vescovo)
dicesse, ora (come si sente nelle cantate) Dominus vobiscum, facendo gongolar
gl'istruiti, sarebbe a dire i signori, i bramini, ora Il Signore sia con
voi, mortificando gl'illetterati, i poveri, i paria, a meno che non si
supponga in tutti un'intelligenza a semaforo, ora aperta ora chiusa per tutti, automobilisti
e pedoni. Col Canone in italiano ecco dunque che l'inconveniente, l'«ibridismo»,
è scomparso, ma, ahimè! a favore del peggio: non più messe pipistrello
(mezze topo e mezze uccello), ma tutte topo (volgare) e niente uccello (niente penne,
niente latino), con la facoltà di ricorrere, per i topi, a tutte le fogne.
In termini evangelici, si trattava di non cucire insieme il buono e il cattivo, di
non incastonar nel piombo il diamante, com'era nella messa vernacola il Canone latino,
questa vera gemma della Messa inserita e fulgida nell'oro puro di quella lingua che
«l'Apostolica Sede con gelosa vigile cura custodi sempre quale magnifica veste
della dottrina celeste e dei sacri riti»... e i vernacolisti, che l'han spuntata
sostituendo all'oro il piombo e al diamante il cul di bicchiere, sappiano, prima
dì darmi addosso, che ho citato papa Giovanni, dell'invano sepolta Veterum
sapientia.
*
* *
Di questa gemma, incastonata
come s'è detto nel'oro della Messa da quell'orafo mica male che fu san Gregorio
Magno («Non vi è», scrive in France catholique il teologo
padre Bouyer, in «Oriente come in Occidente, nessuna preghiera eucaristica
che possa vantare una tale antichità. Agli occhi non solo degli ortodossi
ma degli anglicani e persino dei protestanti che hanno ancora in qualche misura il
senso della tradizione, gettarlo a mare equivarrebbe, da parte della Chiesa Romana,
a rinnegare ogni,pretesa di rappresentare mai più la vera Chiesa Cattolica»),
di questa gemma delle gemme è superfluo o inutile dir la bellezza: superfluo
per chi ha avuto da Dio il senso del bello; inutile per i pipistrelli a cui la luce
dà noia e il vetro ha senza dubbio riflessi meno pungenti per le loro pupille
crepuscolari... Riferirò solamente ciò che ci diceva un latinista che
ha servito come tale la Chiesa in così eminente e nota maniera da risparmiarci
di nominarlo: «Datemi Cicerone, datemi Virgilio, datemi Tacito, a tradurre,
ma non il Canone. Questo, no, non sarei capace: il Canone è intraducibile».
Tanto meno capaci quanto più sicuri di esserlo, gli slatinizzatori al servizio
della Riforma hanno detto, invece: - E che ci vuole? Date qua! - E c'è voluto,
difatti, solo la loro sfrontatezza per rovinare, per tradir traducendolo, un capolavoro,
di pietà, di dottrina, di poesia, a cui, come leggo nel bollettino Una
Voce, «santi Pontefici, Dottori della Chiesa, come Leone e Gregorio Magno,
osarono appena, dopo preghiere e digiuni, aggiunger qualche parola» (e sappiamo
quanto abbia esitato, pregando e digiunando, lui che in queste cose credeva, papa
Giovanni per aggiungere quelle cinque parole, rivelatrici del suo amore per l'Amatissima:
Beati Ioseph eiusdem Virginis Sponsi).
Sorvoliamo, come fa il medesimo bollettino, «sulla selva di approssimazioni,
omissioni, mutilazioni, parafrasi che costellano questa squallida, miseranda versione
anonima di una preghiera che non ha l'eguale in Occidente per altezza, splendore,
antichità», per non considerar che un aspetto di quest'altra grossa
vittoria del logicamente, a spezzare, a lacerare, a dividere... Ne abbiamo scritto
per un giornale della sera, e ci consentano gli amici di ripeterci per questo Mattino,
anche se l'ombrello dovesse parer loro troppo più largo che l'eruzioncella
vesuviana non richiedesse.
*
* *
Di tutti i danni che gli
eversori di Roma - barbari e barberini - han fatto alla Chiesa in odio al latino,
il più esiziale è di sicuro quello che un forte vescovo domenicano,
il cardinal Browne, definiva e denunziava mesi fa, al Sinodo, come lacerazione della
sua unità: «dilaceratio communitatis ecclesialis»: la quale è
ormai arrivata a tanto da meravigliare e allarmare i medesimi protestanti - i sinceri,
che nella fermezza di Roma, nella stabilità della casa da cui uscirono hanno
interesse a contare per il giorno delle «ghiande», il giorno del rimpianto
- e riempire il cuore del Papa «di amarezza, di sconforto, di delusioni, di
dolori», provenienti «dal di dentro della Chiesa: dai figli, da coloro
da cui potremmo aspettarci la fedeltà» e per cui si corica, a sera,
come ha detto, col capo cinto da «una corona di spine». È l'amarezza,
sono le spine del padre che vede di giorno in giorno nuovi vuoti alla mensa, nuovi
abbandoni, anzi che ritorni, alla casa; del pastore che vede, a ogni conta, assottigliato
il gregge e geme: «Le mie pecore non ascoltano la mia voce, non
seguon più me...» È, nel suo Capo, in Pietro, la Chiesa che soffre
ciò ch'egli aveva previsto, opponendosi invano a richieste che avrebbero portato
a infrangere, nell'unità della voce orante, l'unità della famiglia
credente, all'estinzione di un «cero» che aveva fin qui attratto gli
occhi e unito le menti: «Nolumus id permittere quod certe toti Ecclesiae Dei
aegritudinem et maestitiam afferat... similis cereo extincto, qui non amplius illuminat,
non amplius hominum oculos ac mentes ad se convertit...»
Invano: sul Nolumus del Papa è prevalso il Volumus degli eversori,
che se gli hanno perdonato l'Atto, questo solennissimo documento, non gli consentono
di richiamarvisi, di considerarlo vigente, e la loro audacia non ha esitato a celebrare
il trionfo, l'estinzione del «cero», l'abbattimento, nel Canone, dell'«ultimo
baluardo» dove la «lingua cattolica» opponeva l'ultima resistenza
alla nazionalizzazione, l'ultima difesa della cattolicità della Messa, definendo
«data storica» questo 24 marzo che finiva di rovesciare, con la violazione
più cinica della Costituzione Liturgica, quindici secoli di magistero e di
ministero ecumenico.
Dilaceratio communitatis ecclesialis: dilacerazione dell'inconsutile Tunica...
È l'opposto dell'«unum sint» invocato da Gesù nella Messa
- la Prima - celebrata da Lui pridie quam pateretur, e la gelosia della Chiesa,
sua divina Sposa ed erede, per questa unità nell'universalità dei suoi
figli (la Sacrificium laudis ne fa un argomento per dichiarare irrinunciabile
il latino, «sermo ille Nationum fines exsuperans...») si rivela particolarmente
nel Canone, nella concatenazione, intima ed esterna, del Canone, che sta nel cuore
della Messa giusto come il cuore nel corpo, unito e tramite di unione con ogni sua
parte. Logico, quindi, della «logica» che ha fatto il resto, che ha stracciato
la Tunica frazionando l'universale, «loico» era, diciamo riferendoci
a quel tal verso di Dante, che il Canone accusasse in modo particolare, nella division
delle vesti, lo strazio, l'opera dei lottizzatori, e alludiamo precisamente a
quella mirabile coesione delle sue, parti, a quel richiamo dall'una all'altra, dove
sembra palpitare un'ansia, quasi una voce su su che dica: perdendo me rimarreste
smarriti; l'ansia, la voce che prega, per la Chiesa: Quam pacificare, custodire,
adunare et regere digneris toto orbe terrarum.
Igitur... quae... quam... et... quibus... sed et... quorum... eumdem... unde...
Sono congiunzioni, pronomi, avverbi... che allacciano periodo a periodo, frase a
frase, parola a parola, facendone un «unum» inscindibile, quasi un organismo
vivente, e la prova è che la traduzione - spezzettata come s'è detto,
con l'abolizione di tutti questi passaggi, in tanti discorsetti staccati - sembra,
al confronto, uno scheletro da museo tenuto insieme artificialmente... Te igitur,
clementissime Pater, supplices rogamus ac petimus... È il primo, è
il ponte che lega il Prefazio al Canone, l'Offertorio alla Consacrazione, e, grammaticalmente
una semplice congiunzione, teologicamente vale un trattato, letterariamente un volo
pindarico... Un'inezia per chi ha, in duplice senso, distrutto altari e balaustre
in nome del «funzionale», e cosi il ponte, il «dunque», nella
traduzione è caduto, il Canone è isolato dal resto, e questo è
l'avvio: «O Padre clementissimo, noi ti supplichiamo e ti chiediamo...»
Chi non avverte la differenza è degno che gli sia perdonato.
*
* *
Le parole «servi»
e «serve» della Commemoratio pro vivis suonano male per le orecchie
democratiche dei nostri riformatori, che le hanno sostituite con un generico «fedeli»,
dividendo pur con un «anche» («Ricordati, Signore, dei tuoi fedeli...
Ricordati anche di tutti i presenti...») quelli che il testo unisce, senza
spezzare il periodo, con un «et» e un termine di ben più avvincente
significato: Memento, Domine, famulorum famularumque tuarum... et omnium circumstantium...
«Presenti», là, e sa giusto di «assemblea», per non
dir di caserma; «circostanti», qui, e par di avvertire il battito, la
vicinanza dei cuori tra chi impetra, all'altare, e quelli per i quali impetra, a
lui intorno... Piccole cose? Quisquilie...? No: cose grandi, sfumature di un quadro
così perfetto, delicato e sublime (quasi una Cena di Leonardo in parole),
che solo il pensiero di toccarlo sarebbe dovuto sembrar sacrilego, e si è
toccato e si è maneggiato, si è trasposto e ridotto senza un scrupolo,
seppur non senza un'intenzione che farebbe pensare al paese dei tulipani, vogliamo
dire a quel catechismo.
Così si è tolto d'accanto al nome di san Giuseppe l'«eiusdem
Virginis sponsi», separandoli con una sistemazione sintattica che fa inorridire:
«...nostro Dio e Signore Gesù Cristo, San Giuseppe, suo sposo...»
- nell'attesa di separarli canonicamente per sempre coi «nuovi canoni»,
in preparazione, da cui sembra che san Giuseppe sia espulso, insieme a tutti gli
Apostoli, i Martiri, i Santi e le Sante di prima e dopo l'Elevazione, insieme a ogni
memoria particolare, non comunitaria, non collettivistica, di vivi e di morti.
Perdendo me rimarreste smarriti, ed ecco, dopo l'eumdem Christum, detto
«congiungendo le mani», di nuovo l'Igitur, di nuovo il «ponte»,
verso l'oblazione, e quale oblazione? Hanc, «questa» (proprio
«questa», e le mani si tendono, quasi a toccarli, sul pane e il vino).
Hanc igitur oblationem servitutis nostrae... L'igitur e l'hanc son
del pari saltati, per mano dei nostri riformatori, che hanno similmente trovato indegno,
conforme or ora s'è visto, dei nostri democratici tempi la parola «servitù»
e l'hanno del tutto fatta fuori con questa traduzione degna del resto: «Accetta
con benevolenza» (in luogo di placatus, «placato», dall'oblazion
della Vittima) «l'offerta che ti presentiamo noi tuoi ministri e questa tua
famiglia». Dopo di che, spezzato nuovamente il periodo con la cancellazione
del quam che congiunge le due parti della stessa preghiera - quam oblationem
tu, Deus... - questa prosegue, nella traduzione, eliminando insieme a cinque
segni di croce le solenni cinque parole, «benedictam, adscriptam, ratam, rationabilem,
acceptabilemque», che legittimano, quasi un rogito, l'oblazione; prosegue mescendo
dello stesso acquerello, insipido, incolore acquerello, in cambio del pretto vino
del testo che ci consente di seguitar senza stacco, senza posa - nell'ansia di non
perder contatto - verso il culmine della Consacrazione, con uno di quei potenti pronomi
da scriversi con la maiuscola, Qui, ed è il sublime Qui pridie quam
pateretur di cui lo stesso Bugnini, e pur nel gaudio, o forse generosità,
della sua più grande vittoria, ha dovuto o voluto riconoscere l'incomparabile,
l'intraducibile bellezza, scrivendo della sua: «Poteva essere migliore? Forse
si troverà che una espressione è povera, l'altra è scialba,
che una terza non rende bene il pensiero. Così la frase: "La vigilia
della sua Passione" non riveste certo la robustezza del Qui pridie quam pateretur...
La sovrabbondanza della misericordia divina invocata all'inizio del Nobis quoque
con una stupenda antitesi: de "multitudine" miserationum tuarum sperantibus,
partem "aliquam" ... non si ritrova con uguale ricchezza nel testo italiano...»
*
* *
Non si trattasse che di
«robustezza», ossia di bellezza, perduta, il danno sarebbe enorme, ma
qui, per ammissione dello stesso Bugnini, si tratta dell'essenziale, della sostanza
si tratta, si tratta di una traduzione, di un nuovo testo che, qua e là, «non
rende bene il pensiero», di un acquerello, di un vino che non è solo
scolorito ma che può non esser più vino e proprio qui, nelle parole
della Consacrazione, il dubbio è legittimo. Dubbio? «Ciò che
più allarma», ha scritto il bollettino or ora citato, «perchè
mette in gioco la stessa validità della Messa, è la traduzione
delle parole della Consacrazione. Tutto è stato alterato in queste formule
divine...» e tralascio la lunga analisi per dar luogo a un'altra testimonianza,
quella di un coltissimo sacerdote, Roberto Iacoangeli, uno specialista in materia,
che ha così espresso il suo doloroso stupore in un opuscolo interamente. dedicato
all'esame di questa «Consacrazione»: «Trattandosi del Canone
Romano, della Prece più alta, con la quale si compie il Divino Sacrificio
di Cristo Redentore, ancor più grande è la sorpresa e più vivo
lo sconcerto, nel constatare l'arbitrario distacco dal testo latino in punti anche
essenziali, quali sono le due formule della Consacrazione, che esigono
assoluta precisione e somma fedèltà». È perciò
che molti sacerdoti, rifiutando il «licet» di cui altri - più
integrali nel versar tutto, gusto, intelligenza, buonsenso, all'ammasso della Riforma
- si sono fatti un «placet» e un «debet», continuano, a dire
il Canone come lo ha sempre detto è comandato la Chiesa, e ne conosciamo personalmente
più d'uno che avendolo lasciato quel 24 marzo c'è ritornato il 25:
per il disgusto del nuovo non meno che per il dubbio, se la loro Messa, con quella
«consacrazione», oltre a tutto il resto, fosse stata valida.
Vero è che, per assicurare e rassodare la fede, i prepositi han preso i loro
provvedimenti, disponendo che le ostie sian più massicce e colorite, meno
«bianco velo» e più galletta: «Perchè la Comunione
Eucaristica avvenga nei modi che maggiormente esprimono la partecipazione della comunità
al banchetto sacrificale è bene che le "ostie", nello spessore,
nella porosità e nel colore, appaiano veramente come particole di pane»;
in esecuzione di che i nostri liturgi hanno ordinato: «Le monache e le suore
incaricate della preparazione delle "ostie" propongano alla commissione
liturgica esemplari che poi potranno essere indicati alla diocesi» (s'intende
che sarà poi cura dei preti modificare la canzoncina dell'Offertorio, senza
sciuparla, così: «Quel pane scuro che t'offre la Chiesa...») e
vogliam credere che dette monache e suore non chiedano, per farsi onore, il segreto
a certi fornai, che nell'arte di fare apparire sono anche troppo maestri. Quando
fallissero allo scopo, quando non giovassero al nutrimento dell'anime, avranno almeno,
queste schiacciatelle, il vantaggio di giovare a quello del corpo e rispondere maggiormente
alla nuova idea della messa-pranzo.
*
* *
È a questo punto
della sua «catechesi» ufficiale delle varie parti del Canone vernacolizzato,
fatta per conto della mia diocesi sul giornale diocesano, è qui, alla Consacrazione,
che il nostro liturgo ripete la sua raccomandazione, già fatta avanti ai nostri
docili preti, di tirar via, con la recita, «anche delle parole della consacrazione»
(badando al microfono, chè tutti sentano, più che all'ostia e al calice):
«La preghiera eucaristica diventa "storia". Non lo si dimentichi...
Non giova certo il ripetere le parole di Cristo con intonazione artificiosamente
drammatica, rallentando esageratamente il ritmo della pronunzia e introducendo pause
innaturali tra una parola e l'altra». In parole povere, molto povere, miserabili,
non è bene prender troppo sul serio la cosa, trattandosi di « storia»,
non di realtà, di rievocazione, non di rinnovazione; per cui, non si dice
ma è logico, quei nostri docili preti potrebbero pur risparmiarsi ciò
che è rimasto, a questo punto, ciò che non si è ancora proibito,
di genuflessioni.
Le quali, giova ripetere, sono oltre a tutto un segno di servitù, disdicevoli,
quindi, in un Canone democratizzato, populizzato, come si vede subito seguitando
con l'Unde et memores, Domine - quest'altro sublime ponte, fra la Consacrazione
e la Comunione, distrutto e sostituito con la goffa passerella «Perciò»
- dove il nos servi tui s'è tradotto «noi tuoi ministri»(un
titolo e una carica ambiti, in democrazia, non fosse che delle poste); e quindi al
memento dei defunti, dove il famulorum famularumque tuarum diventa un promiscuo
comunitario «dei tuoi fedeli». Prevedendo il busillis, un filologo
anche lui mica male quale Giovan Battista Pighi scriveva: «Famulorum famularumque
tuarum... Qui forse l'ugualitarismo progressista di certi traduttori alzerà
il niffo con qualche disgusto per l'odore di rigovernatura. "Passi", dirà,
"il maschile"; anch'io sono servo (e direi meglio: servitore) dell'Idea;
ma quale compagna accetterà mai di farsi chiamare serva? Come si leverà
d'imbarazzo, non so. Può darsi che decida di cambiar tutto; e può darsi
che, se sarà costretto a ingoiare le serve, si consoli col pensiero
che, in fondo, avrà reso un indiretto omaggio al Dienst protestante,
che insomma è un "servizio" ». Per il che io non ammirerò
poi tanto il suo fiuto, tanto è il puzzo di luteranesimo che si respira ormai
in casa, e pare lo avvertisse già quel buon papa cui una leggenda faceva dire,
infreddato com'era per quel ventaccio del Nord prevalente in San Pietro fra le correnti
del Concilio: «Bea culpa, Bea culpa, Bea maxima culpa...»
*
* *
L'identica preoccupazione
di licenziare dal Canone la brutta parola, traducendo similmente «a noi tuoi
ministri» il Nobis quoque peccatoribus famulis tuis, lascia, ahimè!
fuori della magnifica supplica, quanto dire della speranza nella moltitudine delle
misericordie divine, proprio noi «popolo», oggetto di tanti riguardi
comunitari, dato che per «ministri», poc'anzi, s'intendevano i sacerdoti;
ed è un di loro che dice questo, monsignor Andreini, un teologo di quelli
co' fiocchi mio condiocesano: «traducendo il famulis tuis per tuoi ministri
vuol dire che si domanda al Signore che nella comunità dei Santi siano accolti
i ministri, e non anche gli altri. Come? Io chiedo a Te, Signore, che tu accolga
noi preti, e non ti chiedo che tu accolga anche loro, i fedeli? Perciò quando
dico il canone in italiano, dico: "...anche a noi peccatori ma fiduciosi..."
e salto le parole "tuoi ministri" cosicchè quel " noi "
significhi tutta la famiglia, ministri e fedeli...» Dal che si deduce che lo
spirito della Riforma è di fare - alla maniera dei riformati, di quelli autentici
- come ognun crede, purchè non si faccia in latino, che se una volta fu detto
dai papi «lingua della Chiesa» e «gloria dei sacerdoti»,
ora deve considerarsene il turpiloquio e la vergogna, almeno fino a che non l'abbiano
riadottato i discepoli di Lutero (il quale, non sarà mal ricordare, volle
che le parole della Consacrazione rimanessero in latino). Infatti al monsignor Andreini,
che cosi rimedia per conto suo a una delle tante incongruenze e cafonerie del testaccio,
non è passato neanche per il capo che il rimedio, vero e canonico, doveva
- e poteva, grazie non foss'altro a quel "licet" - esser lì nella
fedeltà al Canone dei «1500 anni», della Chiesa universale; e
aveva pur letto le parole dell'impresario: «Forse si troverà...»
eccetera eccetera: lacrime, è vero, di coccodrillo che già conosciamo
e che non gli hanno impedito di fare e annunziare, sul corpo della liturgia, altri
lauti pranzi.
Voraci fino alle briciole e avversi al bello come le talpe alla luce, i traslatori
hanno trovato anche qui da spelluzzicare, e così la solenne, trina, amorosa
iterazione Hostiam puram, Hostiam sanctam, Hostiam immaculatam è diventata
«la vittima pura, santa, immacolata», sdutta sdutta e priva pur di quel
palpito di poesia che nel testo è data dal ritmo e come qui in tutto il Canone,
in tutta la Messa, opera tutta di autori che digiunavano e pregavano prima di scrivere...
Ossa arida, uno scheletro, abbiam detto, e se ne avverte la scompagine specie
qui nell'ultimo tratto, dove l'unico periodo latino, fluente maestoso e armonioso
dal Nobis quoque all'Amen finale, si scompartisce, nella traduzione,
in tre periodetti, in tre stagni, isolando ancora la foce dalla sorgente, da quel
Te igitur da cui il mistico fiume scendeva continuo e vario, scendeva di ripresa
in ripresa - di eiusdem in eumdem, di quoque in sed et,
in etiam, di igitur in unde, di quae in quorum,
di qui in cuius - fino a quel per Ipsum et cum Ipso et in Ipso,
nel Quale ogni riferimento si assomma e... «che era impossibile tradurre»,
come ci s'è giustificati di aver tradito.
«Consummatum est...» Son le parole con cui un giornalista, Gianni
Franceschi, ha commentato il misfatto, e mi pare che nessun'altra potesse esser più
appropriata.
(Maggio 1968)