Checchè ne dica
il Cardinale, o sia pure il Papa, per Adriana Zarri la Riforma invece è perfetta
e va a gonfie vele.
Lo dice lei, e se lei lo dice non c'è che da mettere al femminile il celebre
pronome e credere: Ipsa dixit! Non è lei - come lei stessa si riconosce
in ogni suo articolo - la grande, la superteologa, al cui confronto iragionari di
san Tommaso son «paleae» (com'egli stesso le definiva) e i suoi son pali,
son lance, formidabili in guerra come quella di Orlando che «fino a sei ve
n'infilò» e il settimo rimase fuori, ferito, perchè non c'era
più posto? Ne sanno qualcosa i napoletani, schidionati da lei insieme al loro
san Gennaro con un solo colpo di penna quali fanatici cafoni per via della loro fede
in quel sangue!
E chi più teologo di chi può dare, in proposito, suggerimenti a Nostro
Signore? Difatti... a chi lo adulava dolendosi che non fosse stato presente quando
Dio creò il mondo, quel tal sovrano rispose che, sì, qualche consiglio
avrebbe forse potuto darglielo, ma la Zarri glieli dà senza forse, magari
in forma di dissenso o sia pure di velato rimprovero: «Personalmente»
(è lei che scrive, in servizio di rinforzo alla non francescana Rocca assisiate)
«preferirei che non fosse autentico» (il miracolo): «porrebbe meno
problemi alla mia fede. Dev'essere» (il miracolo) «congeniale ai napoletani
e non a una nordica come me... E posso anche comprendere che di fronte a una religiosità
bambina Dio faccia miracoli puerili; miracoli umilianti per chi li riceve. Posso
restare tranquilla anche di fronte a miracoli che, in sè, non sono proprio
fatti per aumentare la mia fede ... Ma oggi per meritare il rispetto di certi non
credenti fattisi paladini della fede, bisogna andarsi a contorcere davanti alle ampolle
di san Gennaro...»
Dopo di che, figuratevi come doveva conciar me, cafone al punto di credere (di sperare!)
nella medaglia della Madonna che la figliola di Stalin porta al collo! Non per questo
- che non c'è e non ci poteva ancora esser scritto - ma per tutto quel che
c'è scritto, e c'è pur qualcosa di simile nella difesa delle «vecchiette»
che ancora «sgranan rosari» in chiesa durante la Messa, la temibile guerriera
nordica move all'assalto della mia Tunica, nel quindicinale Politica,
fondato e diretto già dal mio povero amico Nicola Pistelli, che non avrebbe
permesso o avrebbe semmai affidato ad altri l'incarico di attaccarmi, e onore a chi
gli è successo, che non conosco e che mi vuol certo un gran male, per aver
saputo così degnamente scegliere la sua paladina! Onore anche a me, naturalmente,
per esser stato, io «debole in teologia», come lei a ragion mi ricanta
(e gliel'ho confessato più volte, specie nei riguardi di quella nordica, io
romano in questo, de Roma) da una teologa come si sa e s'è pur
visto, chiamata, per la sua valentia in campo, al congresso teologico dell'altr'anno:
prima e unica donna, in questo (salvo errore, essendo io, come lei giustamente afferma,
anche «debole in storia»), onore quindi e vanto del Sesso e direi anche
del «Sexy», considerata la sua competenza in Sessuologia, di cui fan
fede alcuni volumi come la sua Impazienza di Adamo (antologia della sessualità)
e conferenze come Valore umano e sociale del Sesso ai Nuovi Incontri
di Torino: sesso e «sexy» comprendenti pur quello rosso dell'Udi,
di cui è, in quanto teologa e sessuologa, valente cooperatrice.
E veniamo dunque alla concia; dalla quale se ho riportato salva la pelle è
segno davvero - come dissi già a quel mio primo cardatore - che io sono una
pellaccia. Superfluo dire che anche per lei il mio libro è libello: «incredibile
libello», come lo chiama in partenza, e perché lo possiate credere eccovi
alcuni degli epiteti con cui lo investe via via arrembando: «pettegolezzi da
portiere», «facezie da bassa sagrestia», «collezione di sciocchezze»,
«gravemente disonesto» e che «rasenta l'empietà»,
«espressione di una mentalità, una resistenza che ostacola la vita della
Chiesa», «frutto di pregiudizio, di ignoranza che però non possono»
(oh meno male! ) «arrestare la storia, arrestare la Chiesa, contrastare il
moto vivificante dello Spirito che...» e mi si permetta, a questo punto, di
respirare, insieme al portiere giustamente mortificato di sentirsi dar del pettegolo
da una giornalista e sopra un giornale così amico del popolo... Naturale,
per il portiere come per me, che un libello di cotal fatta non meritasse l'onore
della lancia, che dico? (siamo in portineria) della granata della Zarri, la quale
infatti lo dice: «Non avevo intenzione di scrivere sulla Tunica di Casini.
Francamente mi pareva (e mi pare) che non valesse la pena», anche perchè,
aggiunge, «mi pareva che fosse stato già abbastanza deplorato, dalla
massima sede», anche se «è ben vero che certa gente non ha mai
l'impressione di perdere» e spiega: «Può essere - come è
stato - il Papa in persona a deplorare; ma essi seguiteranno ad appellarsi al Papa,
dicendo di essere stati lodati»: il che io non ho detto ma il dirlo di lei
vorrebbe quasi farmi credere che avrei potuto anche dirlo.
Figuratevi! «Debbo, comunque», essa si giustifica, «alla cortesia
del direttore di Politica, che me lo ha esplicitamente chiesto, se mi accingo,
un po' di malavoglia, a parlare...» E me meschino, che, accintasi all'uopo,
la malavoglia le si è cambiata in buona voglia, tanto che, non paga di quasi
un'intera pagina dell'ampio giornale (1° giugno), ne ha chiesto e agevolmente
ottenuto dal cortese direttore un'altra nel numero successivo (15 giugno), dimenticando,
lei e il direttore, che altri problemi urgevano, cui si poteva dar quella parte di
spazio, come quello della libertà e della pace minacciate come ognun sa dagli
americani.
Quid respondebo? Nulla, ahimè, a cui non abbia già risposto
sia in quelle sia in queste mie pagine, tanto questa mia nordica avversaria somiglia
agli altri che, ovunque siti, mi hanno avversato ridendo come di una questiancella
da nulla di quella che Paolo VI ha detto «degna della più diligente
attenzione». La nordica si distingue, semmai, per il particolare piacere con
cui, credendola una mia amenità, ride dei papi, come Giovanni, che hanno chiamato
il latino «lingua predestinata» da Dio in vista della sua Chiesa. Certo,
se ci fosse stata lei...
Simile agli altri (non per negare la sua superiorità), la Zarri non poteva
non citarmi il quattordicesimo della prima di san Paolo ai Corinti: «Nell'adunanza
preferisco dir cinque parole tali da poter anche istruire gli altri, al dirne migliaia
in lingua, quam decem millia verborum in lingua».
E qui non vorrei parere di dar dei punti, io così debole in teologia, a una
robusta e ferrata teologa come lei, ma il buon senso e tutti i commenti che
mi son letto circa quel passo mi dicono che quì si tratta della predicazione
- dell'omelia, del «catechismo» - non della Messa, e chi mai di noi ha
preteso che il prete spiegasse il Vangelo o facesse la dottrina in latino? Mi dicono,
e cito la Sacra Bibbia dei paolini pre-pasoliniani, che «loqui in
lingua» significa «parlare ispirato», «parlare mistico»,
e l'Apostolo lo ha detto, prima: «qui loquitur lingua non hominibus loquitur
sed Deo», e il bello è che proprio questo capitolo porta acqua al
«nostro mulino», al mulino dell'Una voce, accennando alla
moltitudine delle lingue (una settantina, informano i commentatori) che si parlavano
tra i fedeli a Corinto, e avrebbero fatto un bel vociare se tutti avessero preteso
di pregare nella propria (come s'è visto or ora in San Paolo al congresso
mondiale dei laicisti)! Per descrivere l'impressione che questo avrebbe fatto a un
non fedele che fosse lì capitato, il medesimo san Paolo, nella medesima lettera,
medesimo capitolo, medesimo argomento, ha una frase che povero me se l'avessi detta
io nella Tunica: «Ma che siete ammattiti? Nonne dicent: quod insanitis?»
Ed è proprio quel che ci dicono - pigliandosi le nostre perle per le loro
ghiande, il nostro oro per i loro specchietti - i nostri fratelli separati o mai
uniti, e per cui sbagliava bene il mio amico Oxilia dicendo che la Chiesa non avrebbe
mai fatto questa stoltezza.
Quanto ai «frutti dell'albero», agli effetti spirituali della Riforma,
gli entusiasmi della Zarri non sembra sian condivisi da tutti i suoi sostenitori,
e cito uno dei più ferventi e valenti, Mario Gozzini, che, attribuendone anche
un po' la colpa ai preti di prima, scriveva sull'Osservatore Toscano già
nel marzo scorso: «Il momento è senza dubbio assai delicato»;
parlava di «un lassismo che estende semplicemente la carne anche al venerdì»;
diceva che «la riforma liturgica segna il passo», stante la resistenza
del clero come dei laici «adagiati in un'altra attitudine», e specificava:
«si pronuncia male e frettolosamente l'italiano come ieri il latino, si recita
ancora il rosario durante la Messa pur rispondendo al sacerdote» eccetera eccetera;
e figuriamoci, se questo succede ora, che la grida, conciliare e consiliare, è
ancora fresca...!
Anche il mio venerato Arcivescovo (venerato, nonostante ch'io sia ai suoi occhi un
figliol prodigo, o lui ai miei un duro padre) scriveva nella sua pastorale dell'anno
scorso: «È vero che i primi entusiasmi si sono attenuati e va cadendo
ciò che era sorretto da semplice curiosità e senso del nuovo»,
e sì che la nostra diocesi si gloria d'essere all'avanguardia dell'avanguardismo
neoliturgico, tant'è vero che non ci s'è neanche valsi dell'articolo
48 della Instructio de Musica che autorizza e consiglia di conservare, anche
alla domenica, «una o più Messe in lingua latina, soprattutto nelle
grandi città, ove più numerosi vengono a trovarsi fedeli di diverse
lingue», e lasciatemi dire, a questo proposito, che se il negato favore mi
ha un po' deluso e umiliato, quasi la mia Firenze non fosse più la «gran
villa» o il turismo vi fosse cosa sconosciuta, l'ho poi trovato opportuno pensando
alla gente di campagna che avrebbe potuto chiedere, come quelli di Gorgonzola: «E
per fuori?» Cui non sarebbe stato prudente rispondere, con tutta la democrazia
in giro: «Per voi altri sarà quel che Dio vorrà». Al Gozzini
lice nondimeno sperare... sperar nel futuro della Riforma, a cui lavorano, come Sua
Eminenza c'informa, ben «quaranta gruppi di studio», sia pur venuto a
qualcun di dire: Multiplicasti gentem et non magnificasti laetitiam: è
aumentato il personale, è cresciuta la burocrazia, ma non... E pensare alle
tante chiese «vuote» per insufficienza di clero.
Perchè io m'accerti de visu che tutto quanto, invece, è aumentato,
che il macchinone ha prodotto e produce anche... ciò che Gozzini non vede,
la Zarri m'invita a visitare la sua parrocchia: parrocchia-modello, non ne dubito,
e sfido, io, con una parrocchiana di cotal fatta,a non rigar dritto, almeno visibilmente!
Certa che quanto io vedo, o non vedo, sia dovuto o a «imperizia di pastori»
o a «inf1uenza di pecore alla Casini», essa scrive, appunto: «Io
invito il Casini a venire nella mia parrocchia,dove c'è un eccellente pastore,
pieno di spirito liturgico, di amore per il volgare» (eh?) «e per le
nuove disposizioni. Vedrà la chiesa gremita, con i fedeli che rispondono in
coro...» Non ne dubito, ripeto, specie se la Zarri è presente; ma chissà
che, guardando bene, che ben tendendo l'orecchio, non veda e senta, anche lei, anche
lì, quello che io e Gozzini vediamo e sentiamo nelle chiese della nostra Firenze:
le «nostre brave vecchiette» che scorrono fra le dita (furtivamente,
magari, per paura di un eventuale pastore troppo amante del volgare) la loro corona,
dicendo, ora ad alta ora a bassa voce: «Ave, Maria, gratia plena e con il
tuo spirito benedicta tu in mulieribus Signore-pietà Salve, regina
rendiamo grazie a Dio mater misericordiae...»
Proprio così, e son queste «nostre brave vecchiette», come la
Zarri con indulgente sarcasmo chiamò già le sue parrocchiane; son queste
cristiane «d'una volta», che con la loro umiltà, la loro sottomissione
(seppur cercando di salvare, segretamente, le loro amate preghiere), fanno credere
al consenso, all'entusiasmo del popolo per le «nuove disposizioni», i
nuovi continui «esperimenti» che umanizzano, ai loro occhi, degradano
e disincantano, nelle loro anime, ciò che credevano e veneravano come dato
dal cielo... Le conosco, queste pie, queste mie care vicine d'ogni mattina, e posso
assicurare la Zarri ch'esse, «obbedienti al comando», andrebbero dietro,
semplici e quete, al pastore, s'egli le conducesse a nuovi pascoli ancora più
grami, se (per ipotizzar l'impossibile) ordinasse loro di alimentar la loro pietà
con nuovi testi ancor piùpietosi... se invece di Amen (questa parola,
non più facile di Pater noster o Ave) Maria) chissà perchè
ancora intradotta) insegnasse loro, il priore o il curato, a dir «sissignore»
e loro insegnasse a chiuder la messa con un corale, forte, sentito: «Finalmente!»
Fatene conto, non le disprezzate queste nostre brave vecchiette: a ognuna che muore
io vedo un posto che resta vuoto nella mia chiesa, è una voce in meno che
dice: «E con il tuo spirito... Cristo-pietà... fu pure crocifisso...»
Andando di questo passo, potrebbero rimanervi, alla fine, solo le panche!
E qui potrei, finalmente, depor la penna e tendere alla mia avversaria la mano, se
non mi corresse l'obbligo di spiegarmi su una parola, una paroletta breve, una sola,
che il mio «libello» le dedica e che ne ha scatenate tante, una vera
alluvione, nei due numeri di Politica che il correligionario Giannelli le
ha prestato cosi di cuore: «Pasionaria».
Avessi previsto tanto furore l'avrei chiamata con altro nome, magari quello di Bradamante,
prendendomi cosi io quello di Sacripante, il pagano, il saracino che la guerriera
cristiana conciò come ciascun sa in quel loro scontro del bosco: non lo ha
scritto lei d'essersi già scontrata con me, tempo addietro, e avermi «ridotto
un po' maluccio»? Sia come sia, certo è che denominandola in quella
maniera, «la Pasionaria della Riforma», io ho inteso rendere omaggio
all'ardore e al valore di una miliziano qual mai si vide dei tempi nuovi, si tratti
di attaccare le ampolle di san Gennaro o di difendere il volgare da chi vorrebbe
il nobile, il bello, perfino in chiesa. Uno di questi «chi» (tanti, tantissimi!)
sono io, appunto, e lo sono a tal punto che a chi mi dà del «patito»,
per questa causa, o del «sentimentale», e sia pure «a corto metraggio»
(come ci definì, argutamente, il cardinal Praeses), io sono grato come
di un ambitissimo elogio.
La Zarri ha motivo, comunque, d'esser contenta: il mio «libello» non
ha arrestato, no, la storia, non ha arrestato la Chiesa;
e di tutte le risposte che ha avuto nessuna vale quella che potemmo leggere sui
giornali il 7 di maggio, sotto il titolo: Instructio altera ad executionem Constitutionis
de sacra Liturgia recte ordinandam.