Era bene un venerdì,
quel 4 novembre: uno dei primi venerdì non più «venerdì»,
non più «giorno di magro», quando si vedevano, sui marciapiedi,
davanti a ogni bottega di «generi alimentari», quei larghi catini, quelle
vaschette con lo zampillo e, dentro, la schiena scuro-argentea del baccalà
col suo mazzetto di prezzemolo o due rossi pomodori per ornamento, e i ceci a rinvenire
e i fagioli lessi e... e già mi par di sentire i nostri «progressisti»
che ridono del «poeta», delle sue nostalgie, dei suoi vecchi proverbi
chiedendogli che relazione ci sia tra il mangiare la bistecca invece del baccalà
e lo straripare dell'Arno quel nostro 4 novembre.
Messa nel qual modo, nei riguardi cioè del mio fiume, della mia propria città
(che non sarà stata peggiore, non più «Ninive», di tante
altre, nelle quali gli argini han retto), la domanda può essere imbarazzante
per me, che posso avere anche un po' studiato, ma devo dire che a quel mio sogno
ha contribuito, oltre alla scena di carità del mio vescovo - l'«angelo»
della mia diocesi, con quelle sue ali intrise di fango -, la domanda di una donna
del popolo, che aveva sofferto la sua parte: «Ma perché i preti non
ci fanno fare qualche digiuno... qualche penitenza?» E non credo ch'essa sapesse
che gli Ebrei, quelli della nostra città, avevano per l'appunto indetto un
digiuno, totale, dall'alba al tramonto.
Vox populi vox Dei? Non sarebbe, in questo caso, la vox Episcoporum,
o almeno di quelli della CEI, che hanno come si sa svenerdiato la settimana facendo
di quel sacro giorno un giorno come tutti gli altri, adattandolo alle condizioni
della «vita moderna» (malata, come giustamente rilevano, di «edonismo»)
con un decreto, una ricetta, che fa sorridere (considerata appunto la diagnosi) come
il mettere a tutto vitto un malato d'indigestione. Mica che i vescovi abbian detto
proprio cosi! Han detto soltanto: «Non si fa stretto obbligo di astenersi dalle
carni, lasciando ai fedeli libertà nella scelta...» ma si sa, chi non
lo sa? cosa succede in questi casi: lo «stretto», aperta ormai la porta,
si allarga, si spalanca del tutto... e l'obbligo, alla fine, s'invertirà,
per chi non vorrà passare da ipocrita o addirittura da ribelle, come succede
per la tonaca ai preti che ancora la portano ricordando la raccomandazione
dei vescovi di conservarla.
«La corsa dei tempi è verso il basso», scriveva ieri L'Ordine
(il giornale cattolico di Como così cattolico e ben fatto che si vorrebbe
tutta l'Italia fosse Como), e a frenar questa corsa, questo naturale precipitar della
«carne» sganciata dallo spirito, contro cui la Chiesa aveva posto, lungo
la china, la sbarra settimanale del «venerdì» con tutto ciò
che questo significava e valeva, non son più gli uomini di Chiesa; ne lo dico
io per primo ma il mio vicino di podere, il Contadino della Garonna, tanto
più robusto di me, a cui mi conviene perciò appoggiarmi nel rischio
che corro per aver fatto con cardinali come se fossero vescovi, o sia pur con vescovi
come se fossero preti. «Che cosa vediamo intorno a noi?» si chiede appunto
il Maritain in quel suo libro tanto lodato in San Pietro (Osservatore Romano)
quanto bistrattato in San Petronio (Avvenire d'Italia). «In larghi settori
del clero e del laicato, ma è il clero che dà l'esempio, tutto ciò
che rischierebbe di richiamare l'idea di ascesi, di mortificazione o di penitenza
viene naturalmente scartato... E il digiuno è così mal visto che meglio
è non rammentare neanche quello con cui Gesù si preparò alla
sua missione», e racconta di un prete francese che recitando, in volgare (sempre
coerenti, questi nemici del latino), le Litanie dei Santi, arrivato all'invocazione
Per Baptismum et sanctum Ieiunium tuum, scartò il digiuno dicendo:
Par votre baptème e stop.
E pensare che, prima d'ora, la scienza, anche laica, anche avversa alla religione,
lodava la Chiesa, in nome del corpo, proprio per questo, per i suoi venerdì,
le sue vigilie, le sue quaresime istituite a ben dell'anima, confermando anche a
questo riguardo le celebri parole del Montesquieu: questa religione, «qui
semble n'avoir d'autre objet que la félicité de l'autre vie, fait par
surcroît notre bonheur dans celle-ci». E dom Guéranger, il
grande liturgista benedettino (ignorato, ahimè! dai nostri riformatori) aveva
ragione allorchè, esaminando la questione dell'astinenza «dal punto
di vista dell'igiene» e rilevando come l'eccesso degli alimenti animali fosse
nocivo alla salute, scriveva nel suo volume La Carème: «Tempo
verrà che gli economisti sonderanno questa piaga che di giorno in giorno s'aggrava
e dichiareranno che il solo mezzo di curare la decadenza progrediente di generazione
in generazione è quella di sospendere a quando a quando il nutrimento a base
di carne, che altera di più in più il sangue...»
«Un temps viendra», ed è venuto ed è questo nostro, solo
che, invece di rimproverare lo Stato di non far come la Chiesa, gli si rimprovera
di far come la Chiesa - «odierna», «postconciliare», «aggiornata»,
addirittura di non sostituirsi alla Chiesa nel far ciò ch'essa faceva e ora
non fa più, per il bene delle anime unitamente a quello dei corpi... E proprio
un economista, Giorgio Lilli Latino, che ragionando da economista su un giornale
«laico» (Il Giornale d'Italia del 26 dicembre scorso) intorno
alla crisi della pesca (che ha rovinato tanta povera gente), così ne rappresentava
una delle cause più gravi: «E il venerdì. Ma questo non riguarda
lo Stato; o lo riguarda solo in parte, per tutto quello che non ha fatto... Lo Stato
italiano non si preoccupa di rammentarlo ai cittadini: quasi che i cittadini siano
tutti colti e davvero sappiano quel che è bene per la salute. Dopo l'abolizione
del precetto dell'astinenza dalla carne, il venerdì, il consumo del pesce
in Italia si è ridotto del 30, del 40 per cento. Prima, il giovedì
era la giornata di maggior vendita del pesce in Italia; ora è un giorno qualsiasi.
Tuttavia, tale fenomeno non può essere duraturo: chi dopo la liberalizzazione
del venerdì ha smesso di mangiar pesce non dovrà più risponderne
al confessore, ma al medico sì; poichè con l'andar del tempo sarà
la sua salute a subirne conseguenze negative, e in particolare saranno i suoi figli
a soffrirne...» Che umiliazione, che tristezza, per noi! Il Montesquieu, se
scrivesse oggi, direbbe forse che la Chiesa, non guardando più al cielo, non
più elevans ad caelum oculos, come in chiesa così fuori, non
fa nemmeno il bene temporale, il «benessere» dei suoi figlioli, che pur
sembra ormai diventato il suo Quaerite primum.
L'hai detta grossa, Tito mio, e non è male che insieme al massaio della Garonna
chiami in tuo aiuto l'altro grosso contadino tuo amico, quel Julien Green che ha
pur menato, in un suo campo, queste zappate: «C'è un cattolicismo affabile,
senza rudezza, i cui obblighi sono ridotti a un minimo derisorio, un cattolicismo
che fa di tutto per farsi accettare dagli uomini. Esso non urta le loro abitudini,
s'accomoda con le loro passioni, tollera la loro mollezza, i loro errori, la loro
ignoranza, purchè si degnino di sottoscrivere ai principali articoli della
fede» (con larghe dispense, sia pur detto, anche nei riguardi di questa). «Il
clero d'un tale cattolicismo non trascura alcuna occasione per disonorare la Chiesa,
col pretesto di conservarle i fedeli...» E meno male finché i fedeli
cercheranno di conservarsi da sé - senza o, come sembra ammonire il «terzo
segreto di Fatima», contro tali pastori - alla Chiesa, a Cristo, ignorando
quella «religio commoda» ch'è la religione del comodo, come c'è
pur dato vedere e proprio a proposito del venerdì. -
Perché è pur vero che se nei seminari, nelle canoniche, nei conventi,
negli episcopii «si fa di grasso», come m'immagino (non fosse che per
insegnare agli «scrupolosi» e sia pur la vigilia di giorni come il Natale,
nel quale a chi non digiuna il vecchio detto popolare attribuisce «corpo di
lupo e anima di cane»); se il baccalà non nuota più, esternamente,
nelle vaschette dei pizzicagnoli, in molte case di popolani «si fa di magro»,
e «di magro» si fa ancora negli alberghi, per chi non chieda espressamente
la carne: una facoltà, questa, di cui nessuno si vale, come ho visto nelle
mie pur recenti vacanze al mare.
«Col pretesto di conservarle i fedeli»; e io credo, io sono certo che
non di pretesto si tratti ma d'illusione, ma il Maritain chiama questo un «agenouillement
devant le monde», e lo considera una «sottise», ma una «sottise»
così perniciosa, «di così gravi dimensioni per i cristiani»,
che «o si riassorbirà nel più breve tempo o finirà per
staccarli decisamente dalla Chiesa».
Una «sottise», una stoltezza, altrettanto grave e perniciosa, non è
forse la dissacrazione della Domenica fatta con l'anticipare al sabato, sempre per
il «comodo» dei fedeli, l'assolvimento del precetto festivo?