IL PANE SOTTO LA NEVE
XXXV - SAN MACARIO

Insieme a san Paolo, il primo e il più grosso degli eremiti (se ne discorrerà dopo, parlando di sant'Antonio), si trova nel calendario, ai quindici di gennaio, un altro santo eremita, san Macario, il quale, di novant'anni che visse, ne passò nel deserto la bellezza di sessanta, e non ne fece di meno belle, in fatto di virtù come di miracoli, del suo grande maestro.
Senz'essere ancora un santo nè un eremita, era tuttavia un buon giovanotto e praticava, presso un uomo di quelle parti (dico dell'Egitto), un mestiere assai in uso fra gli eremiti, quello di fabbricante di sporte, allorchè gli capitò una disgrazia, come sarebbe una calunnia, che lo mise davvero sulla strada della solitudine e della santità. La calunnia fu quella di aver disonorato una ragazza, e calunniatrice fu la ragazza medesima, che aggiunse così peccato a peccato, non prevedendo certamente che anche questo secondo le sarebbe cascato addosso, a suo maggior disonore. Per Macario un'accusa simile volle dire esser preso, spregiato, malmenato e trattenuto come in sequestro fino a che qualcuno non gli avesse fatto garanzia ch'egli avrebbe pensato a campar la donna e, a suo tempo, il figliolo. Liberato, a questo patto, per l'intrapposizion del padrone, Macario non si afflisse più che tanto della sua disgrazia, sia che volesse imitar nella pazienza il santo Giobbe, sia che confidasse nel tempo, il quale ha fama di galantuomo. Ecce, Macari, uxorem reperisti: «Ecco, Macario,» disse a se stesso, «che tu hai trovato moglie e bisogna tu la mantenga. Una sporta, d'or innanzi, la ti vale per mezza. Vuol dire che si lavorerà il doppio, e Dio ci conservi la salute...»
Lavorava infatti il doppio di prima, nell'attesa di dover lavorare il triplo, e, consegnando al suo padrone e garante tutte le sporte f atte in giornata o nella settimana: «Tieni,» gli diceva, «vendile e dài da mangiare a quella tale mia moglie». Così la calunniatrice viveva della sua calunnia, finchè venne il momento che... che una sporta doveva, da lì in poi, valere un terzo al povero paziente Macario. Le cose invece andarono in maniera diversa, andaron cioè che la sciagurata, giunta alle doglie del parto, cominciò a soffrire, ma di partorire non c'era verso, nè ci fu finchè non ebbe confessato la propria calunnia e l'innocenza dello sportaio.
Questa confessione, mentre accrebbe il rossore della traviata, accrebbe, non che renderglielo intatto, l'onor di Macario, convertendogli il crucifige in osanna... Ignaro di tutto, se ne stava intento a fabbricar le sue sporte - una per sè e una per la «moglie» - quando appunto il suo padrone e mallevadore venne a dirgli... che la malleveria era finita, raccontandogli quello ch'era accaduto e aggiungendogli che la gente era ormai in cerca di lui per portarlo in trionfo. A questo mondo c'è giustizia finalmente! poteva dir con ragione il paziente cristiano. Invece, o che gli paresse piuttosto, a quell'improvviso mutar di vento, di non vederci altro che pazzia, o che le lodi del mondo gli dassero noia, lasciò issofatto le sue sporte, quelle finite e quelle avviate, e se ne fuggì nel deserto.
I fatti di san Macario nel deserto, dove l'eremita passò, come s'è detto, due terzi della sua lunga esistenza, ci vengon narrati dai suoi discepoli un po' alla rinfusa, senz'ordine o indicazione di tempo, senza legame fra loro, a modo di fioretti ovverosia come i grani di una corona, che la si può recitare da qualunque parte la si cominci. Se così han fatto loro, non c'è da pretendere che faccia altrimenti io. Ecco dunque i fioretti di san Macario.

Se ne stava un giorno il santo abate nella sua cella, solitaria ma non distante da un eremo nel quale si esercitavano molti frati, quando vide passare il diavolo, in figura umana, con un vestito di lino tutto strappato, e attraverso i buchi gli si scorgevano, pendenti dalla cintola, tante fiaschette piene di un contenuto diverso come il diverso colore lasciava capire.
Magne, quo vadis? «Grandone, dove vai? » gli fa Macario, sicuro che a far del bene non andava di certo.
E il diavolo, nient'affatto scortese:
«Vado dai frati». E indicò con la mano l'eremo sottostante.
«O tutte queste fiaschette? » domanda ancora l'abate, mosso da tutt'altro spirito che quello della curiosità.
E il diavolo, sempre cortese:
«Bevande per i frati».
«Ma come mai di tante specie?» insiste tuttavia Macario.
E il diavolo:
«Perchè non tutti, si sa, han gli stessi gusti; chi piace la lussuria, a chi la superbia, a chi l'accidia, a chi l'ira... Ebbene, io ce n'ho per tutti i gusti, e a chi non va il vino di un fiasco n'offro d'un altro e poi d'un altro e poi d'un altro, finchè non ho trovato da contentarlo... Se mai anche tu ne volessi, non far complimenti».
Detto questo, il diavolo se ne va e l'abate si rimette a pregare. Ma non passa molto tempo che il mercante ritorna, con le sue fiasche, ahimè! quasi tutte intere.
«Salve!» gli grida l'abate, «com'ella andata?»
E il diavolo:
«Poco bene, purtroppo, per non dir male affatto. Quei fratacci! duri e testardi come somari: per tutte le mie offerte non avevan altro che segni di croce... »
«Tutti tutti? » chiede Macario. « Non hai proprio nessun amico fra loro?»
E il diavolo:
«Per dire il vero, uno ce l'ho che mi dà retta, uno che, a vedermi, qualunque proposito abbia fatto, si cambia subito come il vento ».
«Ah, sì? O come si chiama? »
«Si chiama Teopisto, che possa campar mill'anni e convertire anche gli altri!»
Il diavolo ripiglia per la sua strada, e l'abate esce dalla sua cella e s'incammina verso i frati.
Quando questi lo scorgono, gli fanno grande accoglienza, gli vanno incontro portando rami di palma, e tutti cercan di stringersi intorno a lui
Lui però fa tanto di scoprir chi di loro si chiami Teopisto, e quando l'ha saputo se lo tira a poco a poco in disparte e, cominciando di dove tutti si comincia, attacca con lui a discorrere:
«Come la va, fratello, come la va? »
«Grazie alle tue preghiere, non c'è malaccio... »
Una parola, come succede, tira l'altra, finchè a Macario vien fatto naturale di chiedere:
«Ti dànno noia, a te, i tuoi pensieri?»
Aveva messo, e non dico senza volerlo, il dito sulla piaga; ma l'altro, che si vergognava a confessare il suo male, cercò di sviarlo:
«Per ora, a quanto mi sembra, non ho da lamentarmi».
Era, anche rigirata a quel modo, una vera bugia, e Macario, per vincerla, gliene contrappose un'altra, ma una bugia da santi, una di quelle che fa dire ai santi l'umiltà o, come i n questo caso, lo zelo.
«Beato te! » dice dunque l'abate. «Figurati che io, vecchio come sono e con la vita che fo, sono ancora molestato dallo spirito dì fornicazione!»
Il frate, a queste parole, si senti come allargare il cuore, e la confessione che fece gli cagionò più di gusto che non gli costasse di vergogna:
«Per dirtela, padre, anch'io patisco, e non poco, del medesimo male».
Il primo passo era fatto, e, al modo del primo, andando cioè dietro all'abate, che pareva, a sentirlo, avesse in sè tutti i peccati dell'inferno, il frate fece anche tutti gli altri, fino al punto che, per dir d'essersi confessato, non gli mancava che la penitenza e l'assoluzione. Conosciuto dunque il male, il medico dettò la ricetta:
«Fino a che ora sei solito digiunare?»
«Fino a nona, padre».
«Digiuna, d'or in poi, fino a vespro, e disciplinati e medita le Scritture, e se ti vien qualche pensieraccio, volta gli occhi in su, mai indietro».
Pochi giorni dopo, Macario se ne stava nella sua cella, eccoti il solito chincaggliere con le solite chincaglierie attaccate alla cintola. L'abate gli domanda anche questa volta dove vada e il diavolo gli risponde anche questa volta che va dai frati. Ripassa di lì a un momento tutto infuriato, e Macario, fermandolo:
« Che te n'è parso, dunque, questa volta, dei frati?»
Prima che con le parole, il diavolo rispose con una mossaccia, così rabbiosa che si vedeva proprio com'egli avesse un... se medesimo per capello:
«Peggio che peggio. Figurati che mi son diventati tutti santi!»
«O quel Teopisto tuo amico t'è rimasto, almeno lui, fedele?»
Gli avesse nominato la croce, non gli avrebbe fatto tanto dispetto:
«lh, non me lo rammentare! Il peggio di tutti! Ti dico che in tutto l'eremo non c'è un più santo di lui...»
E il diavolo passò via, sbuffando e bestemmiando, mentre l'abate s'inginocchiava nella sua cella a rimeritare il Signore della grazia fatta al povero frate.

Giacchè s'è parlato di bevande e dell'umiltà di Macario, dirò qui che l'abate aveva, fra l'altre, una maniera di mortificarsi assai buffa e, a prima vista, tutta l'opposto del fine: quella, dico, di bere, quando si trovava tra i fratelli, tutto il vino ch'essi gli offrivano. - Bella maniera - sento fare a qualche briacone, - anch'io ci sarei stato! - Già, ma bisogna aggiungere che, mentre beveva, Macario contava i bicchieri, e poi, quando non era più coi frati, a ogni bicchier di vino bevuto faceva corrispondere un giorno di astinenza da qualunque bevanda, compresa l'acqua, che si sa quanto sia necessaria là fra i calori del deserto. Riusciva così, in pari tempo, a mortificarsi nel corpo e nello spirito (potendo passare agli occhi di qualcuno come un po' troppo ghiotto del vino) e a esercitare la carità, in quanto che anche i fratelli, dietro l'esempio di lui, avevano meno scrupolo a bagnare i labbri nel sangue dell'uva.
Una volta, dunque, che si trovava in comunità, i frati, conoscendo il rigore delle sue penitenze e volendo un po' ristorarlo, facevano a gara a dargli da bere, tanto più a gara in quanto lo vedevano tracannar di gusto come un vero bevitore. Non era, no, il vino che lo rallegrava, sibbene il pensiero della lunghissima penitenza che i fratelli, involontariamente, gli preparavano, e della perdita di stima che s'immaginava derivargli da quella sua apparente ghiottoneria.
Con questo bell'accordo tra l'amore dei frati e lo spirito di mortificazione dell'abate, Macario avrebbe forse finito per ubriacarsi se il suo discepolo, che conosceva il segreto, non si fosse bruscamente intromesso:
«Perdomino! cessate di dargli da bere! Voi lo farete poi scoppiar dalla sete! Non sapete che...»
E i frati, inteso ch'ebbero la ragione, ammirarono la virtù dell'abate e non gli versaron più, da quel momento, una sola goccia di vino

Il diavolo stesso riconobbe, un giorno, la straordinaria umiltà del santo.
Se ne tornava Macario alla sua cella da una palude dov'era stato a bagnar dei rami di palma da intessere, e il diavolo gli si mise dietro con una falce per accopparlo. Con tutto il suo buon volere, non riuscì però a torcergli un capello, e allora sfogò in questo lamento la sua delusione: «Grande è, o Macario, la violenza ch'io ricevo da parte tua, perchè con te non ce la posso. Tu digiuni, e io non mangio; tu vegli e io non dormo mai. In una cosa sola sei diverso da me e mi vinci: nell'umiltà. E perciò io non ti posso far nulla».
Non bisogna pigliare alla lettera le parole del diavolo, secondo le quali fra lui e il romito non ci sarebbe stata altra differenza che l'umiltà.
Esse significano soltanto che questa fondamentale virtù spiccava singolarmente in Macario; il quale, per dirne un'altra in proposito, aveva così a noia d'esser lodato che se uno lo chiamava santo, grand'uomo e similimodo non gli rivolgeva più la parola; se invece gli diceva: «Abba, quando tu stavi coi cammelli e rubavi il nitro, te le davan sode i guardiani? » oh, allora eran feste e non ci voleva altro perchè diventasse suo vecchio amico.

Nè si deve credere che Macario avesse avuto davvero, prima di farsi eremita, il brutto vizio di approfittarsi della roba d'altri, sebbene egli si accusasse anche di questo e ne piangesse così di cuore e così spesso da render celebri le sue lacrime col nome di «lacrime di san Macario».
Qual'era dunque la causa di queste lacrime tanto amare? Parrebbe una burla: era un fico! «Una volta ch'ero piccino e paravo i bovi insieme ad altri ragazzetti, si vide un fico carico di fichi, e alcuni montarono sulla pianta a rubare... Mentre si scappava, un fico cascò in terra e io lo raccattai e lo mangiai. Ogni volta, ora, ci ripenso non posso trattenermi dal piangere...»

Viceversa, che rubas-sero a lui (quel poco che un eremita può possedere) non gliene importava, o piuttosto si sarebbe detto che ci godeva.
Una volta che tornava di fuori, trova alla sua cella un... galantuomo che pigliava la sua roba e se la caricava sopra un cammello con la manifesta intenzìone dì farle cambiar proprietario. Macario vede, lascia fare, anzi si mette ad aiutare il brav'uomo portando fuori gli oggetti e accomodandoli, da esperto, in groppa alla bestia.
- Nulla portammo in questo mondo, - dice intanto fra sé, - e nulla porteremo via da questo mondo. Dio ha dato e come lui vuole sia fatto -.
Quando gli parve che fosse assai, o che non ci fosse altro da prendere, l'amico fa per partire, ma il cammello, per quante botte gli menasse, non voleva saper di alzarsi. Macario rientra allora nella cella, piglia un sacchetto, l'unica cosa avanzataci, porta anche quello in groppa alla bestia, e le fa, assestandole un calcio: «Sta' su! »
Ubbidiente, il cammello s'alza e si mette a camminare, ma, fatti pochì passi, si riaccova in terra, ne ci fu verso di farlo nuovamente rizzare finchè non fa tutto scaricato... Accadeva, press'a poco, al ladro quel ch'era accaduto alla ragazza calunniatrice.

Una volta, Macario si trovava con sci compagni a mieter da un tale. Dietro ai mietitori camminava, spigolando, una povera donna tutta piangente. «Che cos'ha quella vecchiuccia da lacrimare in quel modo?» domanda al padron del campo il romito. E il padron del campo gli spiega che quella è una vedova; che il suo marito aveva avuto in deposito da una certa persona una certa somma e che, essendo costui morto all'improvviso, non si sapeva dove aveva messo i quattrini; che il creditore, non volendo intender ragione, se la rifaceva con lei e co' figlioli, angariandoli nella maniera più crudele. A questo racconto, Macario si commove.
«Dille», fa al padrone del campo, « che venga da me nel luogo dove ci riposiamo».
Il padron del campo riferisce l'imbasciata, la donna ubbidisce, il romito le chiede dov'è sotterrato suo marito, lei glielo dice, vanno alla tomba, e Macario, come niente fosse, ordina al morto di parlare: «Dove li hai messi i quattrini che ti furon dati in consegna?» Si sarebbe detto che volesse farsi gioco o della donna o del morto. Invece, ecco di sottoterra una voce, che la vedova riconobbe per quella di suo marito: «Li ho messi in casa mia, sotto il piede del letto». E la conversazione finì lì, per ordine del santo che disse: «Dormi daccapo fino al giorno del giudizio».

Non fu questa l'unica volta che Macario fece parlare i morti a vantaggio dei vivi.
Era sotto accusa d'omicidio un tale che si protestava innocente quantunque tutto sembrasse indicar lui come reo. Il romito, che viene a scienza del caso, piglia con sè della gente, che possan fare da testimoni, va al sepolcro dell'ucciso, lo chiama e gli domanda se il suo uccisore sia stato il tale dei tali, vale a dir l'accusato. Il morto risponde e dice che il tal dei tali non è. La gente, riavutasi dalla meraviglia, vorrebbe che il santo chiedesse anche, al morto, chi sia dunque l'assassino; ma il santo, dando a tutti una grande lezione di carità: «Questo, no,» risponde, «mi basta che un innocente sia liberato; non m'importa che un reo venga scoperto».

Un'altra volta fu per confondere un eretico.
Discuti discuti, non volendo costui arrendersi alla luce della verità, Macario si rivolge al Signore: «Signore, fa' conoscere, ti prego, chi di noi due ha ragione, risuscitando questo morto». L'eretico non ebbe tempo di veder l'effetto della preghiera, tanto fu subitaneo lo scatto con cui se la dette a gambe al sentir quest'ultimo argomento.

E giacchè siamo a parlar di morti, cade qui di riferire che cosa rispose il santo a un frate che gli chiedeva una regola per salvarsi. «Vai», gli comanda innanzi tutto Macario, «là in quel cimitero e maledici quei morti». Senza farsi alcun caso della stranezza (eh, sì, non si può negare) di quel consiglio, il frate va, si mette nel mezzo del camposanto e giù improperi contro quei poveri morti da parerci il giorno del gastigo. «Ladri! Briganti! Traditori! Dannati! ... »
Quando, a forza di maledirli, sì fu seccata la gola, il frate torna da Macario e gli riferisce che ha fatto secondo l'ordine, che non ha risparmiato, contro quei morti, nessuno dei titoli offensivi che si scambian tra i vivi.
«Ebbene,» domanda allora Macario, «t'han risposto nulla i morti?»
«Nulla. Come se avessi detto a... dei morti».
«Torna da loro e lodali».
Ubbidiente nello stesso modo, il frate torna al cimitero, si rimette nel mezzo e con un'aria e una voce piena di ammirazione comincia a recitar complimenti, a chiamarli buoni, generosi, fedeli, giusti, santi, insomma tutto il rovescio di pochi momenti prima. Fatto anche questo, ci presenta di nuovo al santo, gli dice che ha ubbidito, e il santo gli domanda che caso si sian fatto i morti delle sue lodi.
«Nessuno, » gli risponde il frate, « cioè lo stesso che delle mie ingiurie ».
E il santo, concludendo:
« Ebbene, fa' anche tu come loro, che non hanno risposto nè alle tue ingiurie nè alle tue lodi; fa' conto d'essere un morto, non ti commovere nè per offesa nè per plauso, e ti salverai ».

Quanto a lui, non soltanto era indifferente ai morsi dell'ingiuria come alle carezze della lusinga (e lo aveva dimostrato fin dagl'inizi della sua carriera, quando con la medesima pace aveva accettato la calunnia e respinto il trionfo) ma voleva pur che il suo corpo facesse lo stesso caso così del male come del bene.
Una volta che s'era buttato giù per dormire (e dormiva ne' cimiteri, mettendosi magari sotto la testa, a uso di guanciale, il corpo di un morto), gli avvenne, in uno scatto quasi involontario della mano, di ammazzare una zanzara che gli dava molestia. Vedendosi però la mano tinta di sangue, ripensò a ciò che aveva fatto, e, per vendicarsi della propria vendetta, stette ignudo sei mesi in pascolo alle zanzare, alle vespe e ai calabroni, che lo conciarono per il dì delle feste.

La zanzara ammazzata e il fico mangiato furono, in novant'anni di vita, gli unici «peccati» di cui Macario sentisse rimordersi la coscienza. A pensare che tutto il resto fu un continuo metter da parte per l'altro mondo, ci si può figurare (i suoi discepoli han tralasciato di raccontarcela) quale dovette esser la sua morte. Per in quanto a me, io sarei ben fortunato se, giunto alla fine, potessi barattar nei peccati di san Macario tutti i miei «meriti»!

Testo tratto da: TITO CASINI, Il Pane sotto la neve, Firenze: LEF, 1935/2, pp. 231-247.


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