Insieme a san Paolo, il primo
e il più grosso degli eremiti (se ne discorrerà dopo, parlando di sant'Antonio),
si trova nel calendario, ai quindici di gennaio, un altro santo eremita, san Macario,
il quale, di novant'anni che visse, ne passò nel deserto la bellezza di sessanta,
e non ne fece di meno belle, in fatto di virtù come di miracoli, del suo grande
maestro.
Senz'essere ancora un santo nè un eremita, era tuttavia un buon giovanotto
e praticava, presso un uomo di quelle parti (dico dell'Egitto), un mestiere assai
in uso fra gli eremiti, quello di fabbricante di sporte, allorchè gli capitò
una disgrazia, come sarebbe una calunnia, che lo mise davvero sulla strada della
solitudine e della santità. La calunnia fu quella di aver disonorato una ragazza,
e calunniatrice fu la ragazza medesima, che aggiunse così peccato a peccato,
non prevedendo certamente che anche questo secondo le sarebbe cascato addosso, a
suo maggior disonore. Per Macario un'accusa simile volle dire esser preso, spregiato,
malmenato e trattenuto come in sequestro fino a che qualcuno non gli avesse fatto
garanzia ch'egli avrebbe pensato a campar la donna e, a suo tempo, il figliolo. Liberato,
a questo patto, per l'intrapposizion del padrone, Macario non si afflisse più
che tanto della sua disgrazia, sia che volesse imitar nella pazienza il santo Giobbe,
sia che confidasse nel tempo, il quale ha fama di galantuomo. Ecce, Macari, uxorem
reperisti: «Ecco, Macario,» disse a se stesso, «che tu hai
trovato moglie e bisogna tu la mantenga. Una sporta, d'or innanzi, la ti vale per
mezza. Vuol dire che si lavorerà il doppio, e Dio ci conservi la salute...»
Lavorava infatti il doppio di prima, nell'attesa di dover lavorare il triplo, e,
consegnando al suo padrone e garante tutte le sporte f atte in giornata o nella settimana:
«Tieni,» gli diceva, «vendile e dài da mangiare a quella
tale mia moglie». Così la calunniatrice viveva della sua calunnia, finchè
venne il momento che... che una sporta doveva, da lì in poi, valere un terzo
al povero paziente Macario. Le cose invece andarono in maniera diversa, andaron cioè
che la sciagurata, giunta alle doglie del parto, cominciò a soffrire, ma di
partorire non c'era verso, nè ci fu finchè non ebbe confessato la propria
calunnia e l'innocenza dello sportaio.
Questa confessione, mentre accrebbe il rossore della traviata, accrebbe, non che
renderglielo intatto, l'onor di Macario, convertendogli il crucifige in osanna...
Ignaro di tutto, se ne stava intento a fabbricar le sue sporte - una per sè
e una per la «moglie» - quando appunto il suo padrone e mallevadore venne
a dirgli... che la malleveria era finita, raccontandogli quello ch'era accaduto e
aggiungendogli che la gente era ormai in cerca di lui per portarlo in trionfo. A
questo mondo c'è giustizia finalmente! poteva dir con ragione il paziente
cristiano. Invece, o che gli paresse piuttosto, a quell'improvviso mutar di vento,
di non vederci altro che pazzia, o che le lodi del mondo gli dassero noia, lasciò
issofatto le sue sporte, quelle finite e quelle avviate, e se ne fuggì nel
deserto.
I fatti di san Macario nel deserto, dove l'eremita passò, come s'è
detto, due terzi della sua lunga esistenza, ci vengon narrati dai suoi discepoli
un po' alla rinfusa, senz'ordine o indicazione di tempo, senza legame fra loro, a
modo di fioretti ovverosia come i grani di una corona, che la si può recitare
da qualunque parte la si cominci. Se così han fatto loro, non c'è da
pretendere che faccia altrimenti io. Ecco dunque i fioretti di san Macario.
Se ne stava un giorno il santo abate nella sua cella, solitaria ma non distante da
un eremo nel quale si esercitavano molti frati, quando vide passare il diavolo, in
figura umana, con un vestito di lino tutto strappato, e attraverso i buchi gli si
scorgevano, pendenti dalla cintola, tante fiaschette piene di un contenuto diverso
come il diverso colore lasciava capire.
Magne, quo vadis? «Grandone, dove vai? » gli fa Macario, sicuro
che a far del bene non andava di certo.
E il diavolo, nient'affatto scortese:
«Vado dai frati». E indicò con la mano l'eremo sottostante.
«O tutte queste fiaschette? » domanda ancora l'abate, mosso da tutt'altro
spirito che quello della curiosità.
E il diavolo, sempre cortese:
«Bevande per i frati».
«Ma come mai di tante specie?» insiste tuttavia Macario.
E il diavolo:
«Perchè non tutti, si sa, han gli stessi gusti; chi piace la lussuria,
a chi la superbia, a chi l'accidia, a chi l'ira... Ebbene, io ce n'ho per tutti i
gusti, e a chi non va il vino di un fiasco n'offro d'un altro e poi d'un altro e
poi d'un altro, finchè non ho trovato da contentarlo... Se mai anche tu ne
volessi, non far complimenti».
Detto questo, il diavolo se ne va e l'abate si rimette a pregare. Ma non passa molto
tempo che il mercante ritorna, con le sue fiasche, ahimè! quasi tutte intere.
«Salve!» gli grida l'abate, «com'ella andata?»
E il diavolo:
«Poco bene, purtroppo, per non dir male affatto. Quei fratacci! duri e testardi
come somari: per tutte le mie offerte non avevan altro che segni di croce... »
«Tutti tutti? » chiede Macario. « Non hai proprio nessun amico
fra loro?»
E il diavolo:
«Per dire il vero, uno ce l'ho che mi dà retta, uno che, a vedermi,
qualunque proposito abbia fatto, si cambia subito come il vento ».
«Ah, sì? O come si chiama? »
«Si chiama Teopisto, che possa campar mill'anni e convertire anche gli altri!»
Il diavolo ripiglia per la sua strada, e l'abate esce dalla sua cella e s'incammina
verso i frati.
Quando questi lo scorgono, gli fanno grande accoglienza, gli vanno incontro portando
rami di palma, e tutti cercan di stringersi intorno a lui
Lui però fa tanto di scoprir chi di loro si chiami Teopisto, e quando l'ha
saputo se lo tira a poco a poco in disparte e, cominciando di dove tutti si comincia,
attacca con lui a discorrere:
«Come la va, fratello, come la va? »
«Grazie alle tue preghiere, non c'è malaccio... »
Una parola, come succede, tira l'altra, finchè a Macario vien fatto naturale
di chiedere:
«Ti dànno noia, a te, i tuoi pensieri?»
Aveva messo, e non dico senza volerlo, il dito sulla piaga; ma l'altro, che si vergognava
a confessare il suo male, cercò di sviarlo:
«Per ora, a quanto mi sembra, non ho da lamentarmi».
Era, anche rigirata a quel modo, una vera bugia, e Macario, per vincerla, gliene
contrappose un'altra, ma una bugia da santi, una di quelle che fa dire ai santi l'umiltà
o, come i n questo caso, lo zelo.
«Beato te! » dice dunque l'abate. «Figurati che io, vecchio come
sono e con la vita che fo, sono ancora molestato dallo spirito dì fornicazione!»
Il frate, a queste parole, si senti come allargare il cuore, e la confessione che
fece gli cagionò più di gusto che non gli costasse di vergogna:
«Per dirtela, padre, anch'io patisco, e non poco, del medesimo male».
Il primo passo era fatto, e, al modo del primo, andando cioè dietro all'abate,
che pareva, a sentirlo, avesse in sè tutti i peccati dell'inferno, il frate
fece anche tutti gli altri, fino al punto che, per dir d'essersi confessato, non
gli mancava che la penitenza e l'assoluzione. Conosciuto dunque il male, il medico
dettò la ricetta:
«Fino a che ora sei solito digiunare?»
«Fino a nona, padre».
«Digiuna, d'or in poi, fino a vespro, e disciplinati e medita le Scritture,
e se ti vien qualche pensieraccio, volta gli occhi in su, mai indietro».
Pochi giorni dopo, Macario se ne stava nella sua cella, eccoti il solito chincaggliere
con le solite chincaglierie attaccate alla cintola. L'abate gli domanda anche questa
volta dove vada e il diavolo gli risponde anche questa volta che va dai frati. Ripassa
di lì a un momento tutto infuriato, e Macario, fermandolo:
« Che te n'è parso, dunque, questa volta, dei frati?»
Prima che con le parole, il diavolo rispose con una mossaccia, così rabbiosa
che si vedeva proprio com'egli avesse un... se medesimo per capello:
«Peggio che peggio. Figurati che mi son diventati tutti santi!»
«O quel Teopisto tuo amico t'è rimasto, almeno lui, fedele?»
Gli avesse nominato la croce, non gli avrebbe fatto tanto dispetto:
«lh, non me lo rammentare! Il peggio di tutti! Ti dico che in tutto l'eremo
non c'è un più santo di lui...»
E il diavolo passò via, sbuffando e bestemmiando, mentre l'abate s'inginocchiava
nella sua cella a rimeritare il Signore della grazia fatta al povero frate.
Giacchè s'è parlato di bevande e dell'umiltà di Macario, dirò
qui che l'abate aveva, fra l'altre, una maniera di mortificarsi assai buffa e, a
prima vista, tutta l'opposto del fine: quella, dico, di bere, quando si trovava tra
i fratelli, tutto il vino ch'essi gli offrivano. - Bella maniera - sento fare a qualche
briacone, - anch'io ci sarei stato! - Già, ma bisogna aggiungere che, mentre
beveva, Macario contava i bicchieri, e poi, quando non era più coi frati,
a ogni bicchier di vino bevuto faceva corrispondere un giorno di astinenza da qualunque
bevanda, compresa l'acqua, che si sa quanto sia necessaria là fra i calori
del deserto. Riusciva così, in pari tempo, a mortificarsi nel corpo e nello
spirito (potendo passare agli occhi di qualcuno come un po' troppo ghiotto del vino)
e a esercitare la carità, in quanto che anche i fratelli, dietro l'esempio
di lui, avevano meno scrupolo a bagnare i labbri nel sangue dell'uva.
Una volta, dunque, che si trovava in comunità, i frati, conoscendo il rigore
delle sue penitenze e volendo un po' ristorarlo, facevano a gara a dargli da bere,
tanto più a gara in quanto lo vedevano tracannar di gusto come un vero bevitore.
Non era, no, il vino che lo rallegrava, sibbene il pensiero della lunghissima penitenza
che i fratelli, involontariamente, gli preparavano, e della perdita di stima che
s'immaginava derivargli da quella sua apparente ghiottoneria.
Con questo bell'accordo tra l'amore dei frati e lo spirito di mortificazione dell'abate,
Macario avrebbe forse finito per ubriacarsi se il suo discepolo, che conosceva il
segreto, non si fosse bruscamente intromesso:
«Perdomino! cessate di dargli da bere! Voi lo farete poi scoppiar dalla sete!
Non sapete che...»
E i frati, inteso ch'ebbero la ragione, ammirarono la virtù dell'abate e non
gli versaron più, da quel momento, una sola goccia di vino
Il diavolo stesso riconobbe, un giorno, la straordinaria umiltà del santo.
Se ne tornava Macario alla sua cella da una palude dov'era stato a bagnar dei rami
di palma da intessere, e il diavolo gli si mise dietro con una falce per accopparlo.
Con tutto il suo buon volere, non riuscì però a torcergli un capello,
e allora sfogò in questo lamento la sua delusione: «Grande è,
o Macario, la violenza ch'io ricevo da parte tua, perchè con te non ce la
posso. Tu digiuni, e io non mangio; tu vegli e io non dormo mai. In una cosa sola
sei diverso da me e mi vinci: nell'umiltà. E perciò io non ti posso
far nulla».
Non bisogna pigliare alla lettera le parole del diavolo, secondo le quali fra lui
e il romito non ci sarebbe stata altra differenza che l'umiltà.
Esse significano soltanto che questa fondamentale virtù spiccava singolarmente
in Macario; il quale, per dirne un'altra in proposito, aveva così a noia d'esser
lodato che se uno lo chiamava santo, grand'uomo e similimodo non gli rivolgeva più
la parola; se invece gli diceva: «Abba, quando tu stavi coi cammelli e rubavi
il nitro, te le davan sode i guardiani? » oh, allora eran feste e non ci voleva
altro perchè diventasse suo vecchio amico.
Nè si deve credere che Macario avesse avuto davvero, prima di farsi eremita,
il brutto vizio di approfittarsi della roba d'altri, sebbene egli si accusasse anche
di questo e ne piangesse così di cuore e così spesso da render celebri
le sue lacrime col nome di «lacrime di san Macario».
Qual'era dunque la causa di queste lacrime tanto amare? Parrebbe una burla: era un
fico! «Una volta ch'ero piccino e paravo i bovi insieme ad altri ragazzetti,
si vide un fico carico di fichi, e alcuni montarono sulla pianta a rubare... Mentre
si scappava, un fico cascò in terra e io lo raccattai e lo mangiai. Ogni volta,
ora, ci ripenso non posso trattenermi dal piangere...»
Viceversa, che rubas-sero a lui (quel poco che un eremita può possedere) non
gliene importava, o piuttosto si sarebbe detto che ci godeva.
Una volta che tornava di fuori, trova alla sua cella un... galantuomo che pigliava
la sua roba e se la caricava sopra un cammello con la manifesta intenzìone
dì farle cambiar proprietario. Macario vede, lascia fare, anzi si mette ad
aiutare il brav'uomo portando fuori gli oggetti e accomodandoli, da esperto, in groppa
alla bestia.
- Nulla portammo in questo mondo, - dice intanto fra sé, - e nulla porteremo
via da questo mondo. Dio ha dato e come lui vuole sia fatto -.
Quando gli parve che fosse assai, o che non ci fosse altro da prendere, l'amico fa
per partire, ma il cammello, per quante botte gli menasse, non voleva saper di alzarsi.
Macario rientra allora nella cella, piglia un sacchetto, l'unica cosa avanzataci,
porta anche quello in groppa alla bestia, e le fa, assestandole un calcio: «Sta'
su! »
Ubbidiente, il cammello s'alza e si mette a camminare, ma, fatti pochì passi,
si riaccova in terra, ne ci fu verso di farlo nuovamente rizzare finchè non
fa tutto scaricato... Accadeva, press'a poco, al ladro quel ch'era accaduto alla
ragazza calunniatrice.
Una volta, Macario si trovava con sci compagni a mieter da un tale. Dietro ai mietitori
camminava, spigolando, una povera donna tutta piangente. «Che cos'ha quella
vecchiuccia da lacrimare in quel modo?» domanda al padron del campo il romito.
E il padron del campo gli spiega che quella è una vedova; che il suo marito
aveva avuto in deposito da una certa persona una certa somma e che, essendo costui
morto all'improvviso, non si sapeva dove aveva messo i quattrini; che il creditore,
non volendo intender ragione, se la rifaceva con lei e co' figlioli, angariandoli
nella maniera più crudele. A questo racconto, Macario si commove.
«Dille», fa al padrone del campo, « che venga da me nel luogo dove
ci riposiamo».
Il padron del campo riferisce l'imbasciata, la donna ubbidisce, il romito le chiede
dov'è sotterrato suo marito, lei glielo dice, vanno alla tomba, e Macario,
come niente fosse, ordina al morto di parlare: «Dove li hai messi i quattrini
che ti furon dati in consegna?» Si sarebbe detto che volesse farsi gioco o
della donna o del morto. Invece, ecco di sottoterra una voce, che la vedova riconobbe
per quella di suo marito: «Li ho messi in casa mia, sotto il piede del letto».
E la conversazione finì lì, per ordine del santo che disse: «Dormi
daccapo fino al giorno del giudizio».
Non fu questa l'unica volta che Macario fece parlare i morti a vantaggio dei vivi.
Era sotto accusa d'omicidio un tale che si protestava innocente quantunque tutto
sembrasse indicar lui come reo. Il romito, che viene a scienza del caso, piglia con
sè della gente, che possan fare da testimoni, va al sepolcro dell'ucciso,
lo chiama e gli domanda se il suo uccisore sia stato il tale dei tali, vale a dir
l'accusato. Il morto risponde e dice che il tal dei tali non è. La gente,
riavutasi dalla meraviglia, vorrebbe che il santo chiedesse anche, al morto, chi
sia dunque l'assassino; ma il santo, dando a tutti una grande lezione di carità:
«Questo, no,» risponde, «mi basta che un innocente sia liberato;
non m'importa che un reo venga scoperto».
Un'altra volta fu per confondere un eretico.
Discuti discuti, non volendo costui arrendersi alla luce della verità, Macario
si rivolge al Signore: «Signore, fa' conoscere, ti prego, chi di noi due ha
ragione, risuscitando questo morto». L'eretico non ebbe tempo di veder l'effetto
della preghiera, tanto fu subitaneo lo scatto con cui se la dette a gambe al sentir
quest'ultimo argomento.
E giacchè siamo a parlar di morti, cade qui di riferire che cosa rispose il
santo a un frate che gli chiedeva una regola per salvarsi. «Vai», gli
comanda innanzi tutto Macario, «là in quel cimitero e maledici quei
morti». Senza farsi alcun caso della stranezza (eh, sì, non si può
negare) di quel consiglio, il frate va, si mette nel mezzo del camposanto e giù
improperi contro quei poveri morti da parerci il giorno del gastigo. «Ladri!
Briganti! Traditori! Dannati! ... »
Quando, a forza di maledirli, sì fu seccata la gola, il frate torna da Macario
e gli riferisce che ha fatto secondo l'ordine, che non ha risparmiato, contro quei
morti, nessuno dei titoli offensivi che si scambian tra i vivi.
«Ebbene,» domanda allora Macario, «t'han risposto nulla i morti?»
«Nulla. Come se avessi detto a... dei morti».
«Torna da loro e lodali».
Ubbidiente nello stesso modo, il frate torna al cimitero, si rimette nel mezzo e
con un'aria e una voce piena di ammirazione comincia a recitar complimenti, a chiamarli
buoni, generosi, fedeli, giusti, santi, insomma tutto il rovescio di pochi momenti
prima. Fatto anche questo, ci presenta di nuovo al santo, gli dice che ha ubbidito,
e il santo gli domanda che caso si sian fatto i morti delle sue lodi.
«Nessuno, » gli risponde il frate, « cioè lo stesso che
delle mie ingiurie ».
E il santo, concludendo:
« Ebbene, fa' anche tu come loro, che non hanno risposto nè alle tue
ingiurie nè alle tue lodi; fa' conto d'essere un morto, non ti commovere nè
per offesa nè per plauso, e ti salverai ».
Quanto a lui, non soltanto era indifferente ai morsi dell'ingiuria come alle carezze
della lusinga (e lo aveva dimostrato fin dagl'inizi della sua carriera, quando con
la medesima pace aveva accettato la calunnia e respinto il trionfo) ma voleva pur
che il suo corpo facesse lo stesso caso così del male come del bene.
Una volta che s'era buttato giù per dormire (e dormiva ne' cimiteri, mettendosi
magari sotto la testa, a uso di guanciale, il corpo di un morto), gli avvenne, in
uno scatto quasi involontario della mano, di ammazzare una zanzara che gli dava molestia.
Vedendosi però la mano tinta di sangue, ripensò a ciò che aveva
fatto, e, per vendicarsi della propria vendetta, stette ignudo sei mesi in pascolo
alle zanzare, alle vespe e ai calabroni, che lo conciarono per il dì delle
feste.
La zanzara ammazzata e il fico mangiato furono, in novant'anni di vita, gli unici
«peccati» di cui Macario sentisse rimordersi la coscienza. A pensare
che tutto il resto fu un continuo metter da parte per l'altro mondo, ci si può
figurare (i suoi discepoli han tralasciato di raccontarcela) quale dovette esser
la sua morte. Per in quanto a me, io sarei ben fortunato se, giunto alla fine, potessi
barattar nei peccati di san Macario tutti i miei «meriti»!
Testo tratto da: TITO CASINI, Il Pane sotto la neve, Firenze: LEF, 1935/2,
pp. 231-247.