«E ritorni! E ritorni!»
Sì, ritornerò a Villa delle Rose. Se ritornerò? Quand'anche
voi... Oh, io ripeto, senza volere, le parole di un libro, e questa è letteratura,
mentre io vengo a Villa delle Rose, come andavo prima a Careggì, per fuggir
la letteratura.
A Careggi non ho più cuore di ritornare dopo che non c'è più
ad aspettarmi, da quel suo bianco letto ornato di rosso, la mia Cesarina; ma verrò
a Villa delle Rose - poco distante da Careggi - dove siete voi, spose, ragazze, bambine,
compagne di Cesarina nel male e nella buona pazienza; dov'è stata finora,
e vi rallegrava col suo ridere e il suo cantare, quella che ora chiamate «la
povera Rina ».
Rideva e cantava or son due anni, bambina di quindici, in casa mia, mentre si sceglievano,
alla bionda luce del lume antico, i marroni che anch'essa aveva raccolto durante
il giorno. Il lavoro era appena avviato, non erano ancora colmi i panieri, ch'essa
lanciava, chiara e squillante, la sua voce:
- Chi picchia alla mia porta?
Chi picchia al mio porton? -
E noi, assecondandola:
- Aprimi un poco, o bella:
Il tuo marì dov'è? -
E lei, non più sola:
- Il mio marito è andato in Francia
A servir l'imperator. -
E incominciavano, contro líassente, le imprecazioni della donna infedele:
- La barca che lo porta
Lo facesse affogar!
La terra che lo regge
Lo faccia sprofondar!
Il cibo che lui mangia
Gli facesse velen!
Il fuoco che lo scalda
Lo potesse bruciar! -
Ma dei colpi più forti, colpi minacciosi, risuonan di fuori...
- Chi picchia alla mia porta?
Chi picchia al mio porton? -
È lui, proprio lui!
- Aprimi un poco, o bella:
- Io sono il tuo mari. -
E la infelice sconta per la sua
spada la sua infedeltà.
... Era la sua canzon preferita, e si cantava ogni sera, e chi avrebbe pensato che
alla sua porta, al fresco limitare della sua gioventù, dovesse così
presto picchiar la morte?
Tornerò da voi, che l'avete avuta sorella, più che compagna, che avete
visto la sua fine, e mi ripeterete la sua bontà: i suoi dolci messi tutti
da parte per i suoi fratelli piccini; i suoi baci, nel delirio della febbre, «a
Gesù Bambino»; la sua preghiera, mentre il male era al colmo: «Gesù,
sse questo non basta, mandatemene dell'altro...» Aveva diciassett'anni, e pareva
così spensierata quando intonava quella sua canzon preferita!
Tornerò a Villa delle Rose, a conversar con voi (e sia pur d' «iniezioni»,
di «temperature», di «gas») su nella sala colma d'aria e
di luce, o fuori - se il tempo ce lo conceda o c'inviti - nel breve cortile aperto
sui campi, sotto gli ulivi d'argento in faccia ai grani or adolescenti. Tornerò
finchè ci sarete voi, e quando ve ne sarete andate (tutte a casa! tutte guarite!)
tornerò ancora. Ci sarà sempre (poichè voi darete luogo ad altre,
e quelle poi ad altre ancora) il dottor Cataluccio, il « dottorino »,
come lo chiama il vostro affetto, il direttore della. casa, e quasi dicevo II capo
di casa, come se voi f oste una famiglia e lui il padre. Certo egli non è
lontano, nel cuor d'ognuna di voi, dall'immagine paterna o materna, e il separarvi
da lui farà che non sia tutto di gioia il giorno della vostra partenza. Lo
ricorderete, ogni volta il vostro pensiero tornerà a Villa delle Rose, e il
suo nome sarà ripetuto con benedizione nelle vostre famiglie... Quanto a me,
io non dimenticherò il dottor Cataluccio, il direttore di Villa delle Rose,
finchè avrò in pregio la bontà, più in pregio della scienza,
più della letteratura, più della potenza, più della gloria,
più d'ogni cosa che sia negli uomini o dagli uomini.
Fu la vostra lettera che mi fece tornar prima del solito dalle mie vacanze di Ceppo.
Rina, la mia popolana, la vostra gaia compagna, ha cessato di farvi ridere con le
sue trovate di montanina, ha cessato quasi di parlare... È la morte che picchia
ormai alla sua porta, senza un riguardo per i suoi diciassett'anni, per la sua freschezza
mattutina non gualcita da pochi mesi di malattia, freschezza soprattutto della sua
anima, che forse sa del peccato solo attraverso le strofe della sua canzon preferita.
Pensavo a questo, mentre andavo a Villa delle Rose, e questi pensieri componendo
nella mia mente coi pensieri natalizi, i sentimenti che ne provavo eran piuttosto
di rossore e riconoscenza che di meraviglia.
Rossore e riconoscenza. Ogni innocente che soffre è un che paga per altri,
che non è innocente e non soffre; e ognuno che gode pur avendo peccato dovrebbe
chiedersi: «Chi è che paga per me?» e accostarsi ai luoghi di
sofferenza, andare agli ospedali, col rispetto e l'affetto con cui i fanciulli si
avvicinano alla capannuccia. Ognuno che soffre è uno che redime, uno che aiuta
Cristo a salvare; ogni ospedale è come un complemento, una «succursale»
(l'etimologia è bella e degna) di Betlemme, e potrebbe recare a insegna le
parole di Paolo: Adimpleo ea quae desunt passionum Christi. Cristo stesso
ha in certo modo riconosciuto questa partecipazione, questo aiuto del malato, del
sofferente alla sua opera di salvazione, facendosi ai nostri occhi una sola cosa
con lui, con la sua febbre, coi suoi spasimi, con la sua solitudine: «Ero infermo...»
Ragiona forse così anche il dottor Cataluccio, il direttore dì Villa
delle Rose? Egli m'introduce nella cameretta di Rina, si accosta con me al suo letto,
si china su lei, le parla, con un rispetto, una riverenza, come per cosa sacra. Di
tanto in tanto le ascolta il polso, con un gesto ch'è una carezza per la piccola
mano. Dopo un poco esce, e io rimango solo con la mia malata, che mi ha riconosciuto,
mi sorride, ringrazia, poi mi smarrisce, mi domanda chi sono - come quando si sceglievano
in casa nostra i marroni e lei lanciava la prima strofa della sua canzon preferita.
È arrivato suo padre. Io mi scanso dal letto, poi mi riavvicino, la guardo,
a lungo, con intenzione, pensando che non la vedrò più, le tocco la
mano, le accarezzo la fronte, le dico addio... Nel riaccostar, dal di fuori, l'uscio
della stanza, ho l'esatta impressione come di chiudere una tomba.
Una strusciata agli occhi, e mi avvio per il corridoio in cerca del direttore, per
salutarlo, per ringraziarlo... Egli non è nel suo ufficio. Sarà forse
a desinare? L'ora è questa, tanto per lui che per le malate. Ne domando a
un'infermiera ed essa m'indica una delle sale. Apro, entro, e che cosa vedo? Il direttore
- se non lo conoscessi, se non me l'avessero detto, l'avrei preso per un infermiere
- il direttore, ritto presso il letto di una malata, che la governa. Nella sua veste
bianca, con le maniche rovesciate, in una mano il coltello e nell'altra la forchetta,
egli spezza la carne, mette sopra ogni pezzetto un po' di contorno, lo prende su
e lo porta alla bocca della malata, che non vorrebbe aprirsi e s'apre appena per
dir, supplichevole: «Ora basta», cioè quanto basta perchè
l'inesorabile infermiere le cacci dentro il boccone e si metta a prepararne un altro.
Così finchè tutta la pietanza e il pane non son finiti; poi prende
l'arancia, la sbuccia, la spicchia, rompe gli spicchi, leva i semi, e, sordo alle
proteste della giovanetta, gliela fa mandar dietro al resto. «Queste figliole»,
dice, «vorrebbero serbar la frutta per mangiarla poi alle tre o alle quattro.
Non capiscono che anche lo stomaco, come noi, come ogni cosa, ha bisogno del suo
riposo...» Gli faccio osservare, sorridendo, che, in questo, egli non dà
l'esempio; ed egli, nel modo più naturale: «Che vuole? Se non si fa
così non mangiano! Purtroppo io non son che io, e le malate sono ottanta...»
E aggiunge, dopo una breve pausa, risollevando dal piatto due occhi ardenti di ambizione:
«Ah, se io mi potessi moltiplicar per ottanta avrei raggiunto tutti i miei
desideri!»
... Sì, amiche, io ritornerò a Villa delle Rose. Ritornerò,
come andavo a Careggi, per dimenticare un po', fra voi, la letteratura e apprender
ciò che troppo più vale della letteratura; ritornerò ogni qualvolta
l'uso di questo mondo vano, superbo, affarista mi farà venir desiderio di
riassaggiare la saporosa dolcezza della bontà.
Testo tratto da: TITO CASINI, Il Pane sotto la neve, Firenze: LEF, 1935/2,
pp. 216-223.