Farò conto di trovarmi
ancora con te sul nostro Poggetto a ragionar di cose belle, e ti racconterò,
gentile Linetta, come finì per me una delle cose più belle fra quante
m'hanno un tempo allietato.
Io ci credevo.
Come credevo nell'orco, nel lupo mannaro, nella capra ferrata; come credevo, per
parlare più in tono, nelle buone fate, così, e anche un po' più,
credevo nella Befana. Ci credevo talmente che mi pareva di conoscerla; per lo meno,
io me la raffiguravo benissimo, e me la raffiguravo bella quantunque dicessero ch'era
il contrario. Bella come può essere una vecchia, dai capelli di stoppa, e
per di più messa in quel modo: col vestito tutto strappato, le scarpe rotte
e il grembiule e la sottana pieni di tasche grandi e gonfie che ne facevano addirittura
un vascello. Era appunto questa bruttezza, erano appunto quegli strappi, quelle rotture,
quei tasconi, che facevan bella, della bellezza della bontà, la Befana.
E perchè mai, lei così ricca, andava in quei modo (come una di quelle
che chiedevano alla porta la limosina per amor di Dio) se non per serbare tutte le
sue ricchezze ai bambini, per cambiarle tutte in quei dolci, in quelle frutta, in
quei giocattoli di cui s'empiva le tasche e caricava il ciuchino per poi alleggerirsene
di casa in casa, dovunque fosse una calza appesa al camino, in quella notte fra il
cinque e il sei di gennaio?
La bontà ama la bontà, vuole la bontà, e non c'era da rifarsela
che con se stessi se, dopo aver fatto per tutto l'anno i cattivi - i disubbidienti,
gl'infingardi, i bisticciosi, i bizzosi -, quella mattina, invece dei bei doni aspettati,
si fosse poi trovato, dentro le calze, un cartoccio di cenere o di carboni... Come
credevo nella Befana, così io credevo benissimo ch'essa venisse, durante l'anno,
di tanto in tanto, ma specialmente nei giorni più vicini al suo giorno, a
spiar dal tetto, accostando al comignolo l'orecchio, se si rigasse o no diritto,
per poi trattarci secondo il merito, e nulla di più efficace, in quei giorni,
per richiamarci al dovere, per richetare un nostro pianto, per troncare una nostra
rissa, per farci andare dove non si sarebbe voluto, nulla di più efficace
di un dito teso senza parole verso il camino... La nostra docilità diveniva
ancor più esemplare dacchè si sapeva che la Befana era ormai al paese,
cioè dal lunedì avanti il sei gennaio, detto «il lunedì
della Befana» perchè quel giorno, giorno di mercato, la Befana era appunto
al paese a far le provviste. Quel giorno andavano al paese - chissà perchè
- anche tutte le mamme, ed eran loro che portavano a casa, la sera, la grande notizia:
«C'era sicuro! L'ho vista e míha domandato subito di voialtri: - Come
sono quei bambini, son buoni? dànno retta? le divozioni le dicono? le fanno
volentieri le faccendine? si beccano mai fra loro? - Eh, cattivi cattivi, no, ma
nemmen troppo buoni. Secondo... - Beh, si vedrà ancora questa settimana, e
se in questa faranno i buoni... - Se avessi visto quanta roba... !»
Che la Befana veniva davvero a origliar dal tetto per saper come ci si portasse lo
diceva il fatto che certe sere, mentr'eravamo intorno al fuoco, con gli occhi chini
sulla lastra, tutti intenti a scaldarci, si sentiva a un tratto dal camino cascar
giù roba... calcinacci? croste di caligine ed erano invece caramelle, eran
mentine, eran confetti ruzzolati a caso - come mamma ci spiegava - dalle tasche della
misteriosa vecchietta.
La vigilia della Befana era... la vigilia della Befana. Era il giorno in cui bisognava,
naturalmente, star più buoni, dico almeno più queti, ed era quello
in cui se n'aveva, altrettanto naturalmente, meno voglia. Per avere in casa un po'
di pace, il dito della mamma doveva continuamente appuntarsi a memento verso il camino,
almeno finchè non s'era mangiato, chè, dopo mangiato, il chiasso si
trasferiva all'aperto: un chiasso aumentato da suon di stagne, di coperchi, di corni
e omni genere musicorum, col quale, insieme a tutti gli altri ragazzi del
vicinato, ci s'avviava per la strada incontro alla Befana, acclamandola:
La Befana la vien di notte,
Con le scarpe tutte rotte,
Col vestito alla romana:
Viva, viva la Befana!
Bastava poi il grido di qualcuno,
più malizioso: «Eccola! La c'è! » perchè la banda
si sbandasse all'istante convertendosi il trionfo in un si salvi chi può che
ci rendeva tutti, per la più breve, alle nostre case, col cuore in tumulto
non tanto per la corsa quanto per il timore che la Befana, Dio ne guardi! ci avesse
visto. Chi non lo sa che la Befana è sdegnosa? Sarà che la bontà
ama nasconder le sue opere (non per nulla essa vien di notte), o sarà magari
per capriccio, fatto sta che la Befana non vuole esser vista, non vuole che si conosca,
che si sappia chi è: e vederla una volta, imparare a conoscerla, saper chi
è, significa, ahimè, non vederla più, non ricever più
i suoi doni e neppure - gioia grande anche questa - sperarli, aspettarli.
Il timore di una sventura cosiffatta ci levava a cena l'appetito e dopo cena il gusto
di sentir le novelle: voglio dire che, per andar prima a letto, per evitare il pericolo
che la Befana ci trovasse alzati, avremmo fatto a meno anche di mangiare, e non c'era
nulla una volta che ci potesse appassionare quanto il pensiero di ciò che
stava per essere... Timore e gioia crescevano alla vista dei preparativi imminenti:
di mamma che spazzava con la granata l'imboccatura del camino perchè la Befana
nello scendere non s'insudiciasse il vestito; di babbo che portava in casa un fastellino
di fieno perchè la Befana potesse governare il ciuchino. L'ultim'atto era
l'attaccatura delle calze. Mamma ne portava giù un paio per uno - le più
lunghe e più belle - e ciascuno le appendeva da sè, ai chiodi, ai treppiedi,
nella parete nera del focolare, augurandosi che il codino dovesse rompersi per il
peso. Tre minuti dopo eravamo sotto le'coperte, e c"eravamo anche col capo,
per paura di sentire: precauzione superflua dacchè si sapeva che il ciuchino
della Befana aveva i ferri di sughero e il bronzino di pulenda dolce... Più
tardo del solito, veniva anche quella notte il sonno, nè sarebbe il caso di
domandar se venisse solo o con qual genere di sogni.
Era ancora buio, le campane non s'erano ancor sentite una volta, allorchè
qualcuno si svegliava, e dir qualcuno voleva dir subito tutta la casa, e svegliarsi
voleva dire, per noi ragazzi, buttarsi a terra, infilarsi, alla diritta o alla rovescia,
qualcosa di ciò che ci s'era levato la sera, precipitarsi in cucina...
Il muro del focolare, con tutte quelle gambe e mezze gambe attaccate, sembrava la
parete d'un santuario tutta coperta di voti. Un attimo di esitazione per riconoscer,
così gonfie, le proprie calze, uno sguardo di comparazione (ah, l'invidia!)
a quelle degli altri, e incominciava la festa: la casa, per qualche minuto, non risuonava
che di «oh!» e di «uh!» seguiti da vocaboli tutti appartenenti
al dizionario dei dolciai, dei fruttai, dei baloccai... Dico i vocaboli e dico il
dizionario: le cose, no; le cose non mi parevano neppur parenti di quelle che, col
medesimo nome, si trovavano in vendita nelle botteghe del paese, tanto ai miei occhi
le oltrepassavano in bellezza e al palato in bontà. Erano i doni della Befana,
i doni di un essere misterioso, e l'incantesimo del mistero trasmutava anch'essi
alla mia mente e ai miei sensi.
Dunque, io ci credevo. Ci credevo per fede, senza bisogno di vedere nè di
toccare. Si capisce che la vista dei doni, di quelle arance, di quei torroni, di
quelle cioccolate, di quei balocchi che si davan tutti l'appuntamento dentro quelle
nostre calze per quella mattina del sei gennaio, confermava la mia fede, a fondamento
della quale cíera tutta l'autorità di babbo e di mamma che raccontavan
della Befana tutte quelle cose, e uscivano anch'essi in esclamazioni di meraviglia
allorchè, compiuta l'esplorazione, correvamo a mostrare a loro tutto quel
ben di Dio trovato dove per solito tenevamo ì piedi infilati. E quali erano
in quel giorno i discorsi, gli unici discorsi, che si facessero tra loro i ragazzi
incontrandosi? - A te cosa la t'ha portato? - A me questo. A te? - A me... - Per
la strada, sulla neve, specialmente intorno alle case, non si vedevan che bucce d'oro,
carte stagnole d'argento; non si sentivan che fischi, che zufoli, che organini. Tutto
la Befana.
Io dunque ci credevo, e ci credevo senza bisogno di vedere, credevo anzi che a vederla...
Oh, me l'avevano ben detto e ridetto che cosa succedeva a voler vedere la Befana,
a farsi trovare alzati, a comparir, mettiamo, in cucina mentre lei stava fornendo
le calze! E tuttavia... anzi, non tuttavia ma forse un po' anche per questo, per
tutto quell'insistere sulla necessità che la Befana aveva di non esser vista,
e più per certi discorsi di mio fratello maggiore... Insomma, un anno, la
sera appunto della Befana, quando già eravamo in camera per andare a letto,
io fui assalito, e mi lasciai vincere, dalla tentazione di vedere.
Forse se non c'era quel foro... C'era per l'appunto, nel pavimento, coperto da un
lembo del tappeto, un forellino attraverso il quale passava una volta la funetta
di un campanello con cui dalla camera si chiamava in cucina. Mio fratello, che nello
stato civile della Befana cominciava a esser tra i vecchi, aveva, come capii dopo,
le sue ragioni (ragioni di gelosia) di spingermi a un atto che doveva accelerare
anche a me il corso del tempo, delle esperienze, delle delusioni. Fu lui che m'indicò
quel mezzo, che mi fece coraggio, che spense la candela - appena, con quanta cautela!
ebbi messo l'occhio alla spia - perchè potessi veder meglio, non visto, nella
cucina illuminata... Ah, fratello, fratello!
La cucina era deserta. Babbo e mamma eran forse già andati a letto anche loro
perchè la Befana potesse scendere? Col cuore che mi faceva ta ta contro il
pavimento, io rimasi in osservazione, e mi pareva già di sentire, giù
per la gola del camino, il tintinnio della catena mossa appena appena dai piedi della
dolcissima fata. Mi pareva - e si aperse invece (lo capii dal rumore) l'uscio che
dalla sala metteva in cucina, e babbo e mamma vennero oltre, piano piano, con dei
cartocci fra le mani, li posarono sulla tavola, staccarono dal camino le calze...
Il resto non c'è bisogno di dirlo, e mi par quasi sacrilego dirlo. Insomma,
io avevo visto.
Io avevo visto, io sapevo, e ne pagavo le conseguenze. Quella mattina,
al risveglio, provai quasi più amarezza che gioia, e la vista dei doni mi
lasciò poco meno che indifferente.
Cercai tuttavia di fingere, come mio fratello, finchè non mi misero, anche
me, tra i «vecchi», ma la soddisfazione era scarsa, appetto a quella
di una volta... Caduto il mistero, era ormai caduto l'incanto, e che cosa ormai rimaneva?
Dei frutti, dei dolci, dei balocchi quali ci venivano dati anche durante l'anno,
quali si trovavano alle botteghe del paese, quali si potevan comprare con qualche
lira.
Storia vecchia, storia comune. L'ho narrata a te, Linetta, perchè tu non ripeta,
in altro senso, il mio errore. Tu vuoi diventar «saggia», mi scrivi,
perchè t'han sussurrato che la vita è una strada dura, e il tuo cuore
stesso te l'ha detto ora ch'egli è partito... La vita è una strada
dura? Ebben per questo io ti riprendo: non cercare di diventar «saggia»,
non cercare, per voler veder troppo i sassi, per guardar troppo in terra, di ritrar
gli occhi dai fiori che fan lungo i margini, dal cielo che le si stende azzurro di
sopra: non rinunziare, per l'esatta, geometrica «verità », alle
gioie dell'illusione, alle gioie che, noi diciam poesia.
La poesia! Quante volte ne abbiam ragionato insieme! Quante volte ci siamo chiesti
che cosa fosse! E ora mi sembra che la poesia, questo dono della vita, possa paragonarsi
ai doni della Befana. Tutto era bello, tutto raro, tutto prezioso, tutto ci dava
entusiasmo, finchè li guardammo con occhi ignari, con occhi di fanciullo:
finchè non volemmo «vedere», «sapere», «conoscere».
E tutto è bello nel mondo, tutto è raro, tutto è prezioso, tutto
è ragion d'entusiasmo (tutto infatti è da Dio), dalla «polvere»
della Via Lattea alla polvere del sentiero, dal moto degli astri, che fa quaggiù
le stagioni, al moto di un cuore umano, che tinge il viso e accende gli occhi, finchè
gli «occhi» rimangano - e il Vangelo ne fa un comando - fanciulli.
Tu, che ancora sei tale, non cercar, Linetta, non volere altra « saggezza »
che quella: «E chiamato Gesù un fanciullo lo mise nel mezzo...»
L'umile corona di faggio, la corona che noi ti demmo facendoti in premio «Principessa
di Trafallara », quasi a dir regina del nostro paese (perchè tu l'ami,
nè vi sei nata, questo nostro paese, cui il Trafallara sovrasta e ombreggia,
e ce lo dicevi proprio allora ch'esso sembrava più inamabile), ti parrà
più preziosa di qualunque corona d'oro - nè a lui sarai meno cara che
se tu gli recassi un regno, invece del tuo solo cuore fresco come l'ombra del faggio.
Testo tratto da: TITO CASINI, Il Pane sotto la neve, Firenze: LEF, 1935/2,
pp. 205-215.