IL PANE SOTTO LA NEVE
XXXII - LE GIOIE DELL'ILLUSIONE

Farò conto di trovarmi ancora con te sul nostro Poggetto a ragionar di cose belle, e ti racconterò, gentile Linetta, come finì per me una delle cose più belle fra quante m'hanno un tempo allietato.

Io ci credevo.
Come credevo nell'orco, nel lupo mannaro, nella capra ferrata; come credevo, per parlare più in tono, nelle buone fate, così, e anche un po' più, credevo nella Befana. Ci credevo talmente che mi pareva di conoscerla; per lo meno, io me la raffiguravo benissimo, e me la raffiguravo bella quantunque dicessero ch'era il contrario. Bella come può essere una vecchia, dai capelli di stoppa, e per di più messa in quel modo: col vestito tutto strappato, le scarpe rotte e il grembiule e la sottana pieni di tasche grandi e gonfie che ne facevano addirittura un vascello. Era appunto questa bruttezza, erano appunto quegli strappi, quelle rotture, quei tasconi, che facevan bella, della bellezza della bontà, la Befana. E perchè mai, lei così ricca, andava in quei modo (come una di quelle che chiedevano alla porta la limosina per amor di Dio) se non per serbare tutte le sue ricchezze ai bambini, per cambiarle tutte in quei dolci, in quelle frutta, in quei giocattoli di cui s'empiva le tasche e caricava il ciuchino per poi alleggerirsene di casa in casa, dovunque fosse una calza appesa al camino, in quella notte fra il cinque e il sei di gennaio?
La bontà ama la bontà, vuole la bontà, e non c'era da rifarsela che con se stessi se, dopo aver fatto per tutto l'anno i cattivi - i disubbidienti, gl'infingardi, i bisticciosi, i bizzosi -, quella mattina, invece dei bei doni aspettati, si fosse poi trovato, dentro le calze, un cartoccio di cenere o di carboni... Come credevo nella Befana, così io credevo benissimo ch'essa venisse, durante l'anno, di tanto in tanto, ma specialmente nei giorni più vicini al suo giorno, a spiar dal tetto, accostando al comignolo l'orecchio, se si rigasse o no diritto, per poi trattarci secondo il merito, e nulla di più efficace, in quei giorni, per richiamarci al dovere, per richetare un nostro pianto, per troncare una nostra rissa, per farci andare dove non si sarebbe voluto, nulla di più efficace di un dito teso senza parole verso il camino... La nostra docilità diveniva ancor più esemplare dacchè si sapeva che la Befana era ormai al paese, cioè dal lunedì avanti il sei gennaio, detto «il lunedì della Befana» perchè quel giorno, giorno di mercato, la Befana era appunto al paese a far le provviste. Quel giorno andavano al paese - chissà perchè - anche tutte le mamme, ed eran loro che portavano a casa, la sera, la grande notizia: «C'era sicuro! L'ho vista e míha domandato subito di voialtri: - Come sono quei bambini, son buoni? dànno retta? le divozioni le dicono? le fanno volentieri le faccendine? si beccano mai fra loro? - Eh, cattivi cattivi, no, ma nemmen troppo buoni. Secondo... - Beh, si vedrà ancora questa settimana, e se in questa faranno i buoni... - Se avessi visto quanta roba... !»
Che la Befana veniva davvero a origliar dal tetto per saper come ci si portasse lo diceva il fatto che certe sere, mentr'eravamo intorno al fuoco, con gli occhi chini sulla lastra, tutti intenti a scaldarci, si sentiva a un tratto dal camino cascar giù roba... calcinacci? croste di caligine ed erano invece caramelle, eran mentine, eran confetti ruzzolati a caso - come mamma ci spiegava - dalle tasche della misteriosa vecchietta.
La vigilia della Befana era... la vigilia della Befana. Era il giorno in cui bisognava, naturalmente, star più buoni, dico almeno più queti, ed era quello in cui se n'aveva, altrettanto naturalmente, meno voglia. Per avere in casa un po' di pace, il dito della mamma doveva continuamente appuntarsi a memento verso il camino, almeno finchè non s'era mangiato, chè, dopo mangiato, il chiasso si trasferiva all'aperto: un chiasso aumentato da suon di stagne, di coperchi, di corni e omni genere musicorum, col quale, insieme a tutti gli altri ragazzi del vicinato, ci s'avviava per la strada incontro alla Befana, acclamandola:

La Befana la vien di notte,
Con le scarpe tutte rotte,
Col vestito alla romana:
Viva, viva la Befana!

Bastava poi il grido di qualcuno, più malizioso: «Eccola! La c'è! » perchè la banda si sbandasse all'istante convertendosi il trionfo in un si salvi chi può che ci rendeva tutti, per la più breve, alle nostre case, col cuore in tumulto non tanto per la corsa quanto per il timore che la Befana, Dio ne guardi! ci avesse visto. Chi non lo sa che la Befana è sdegnosa? Sarà che la bontà ama nasconder le sue opere (non per nulla essa vien di notte), o sarà magari per capriccio, fatto sta che la Befana non vuole esser vista, non vuole che si conosca, che si sappia chi è: e vederla una volta, imparare a conoscerla, saper chi è, significa, ahimè, non vederla più, non ricever più i suoi doni e neppure - gioia grande anche questa - sperarli, aspettarli.
Il timore di una sventura cosiffatta ci levava a cena l'appetito e dopo cena il gusto di sentir le novelle: voglio dire che, per andar prima a letto, per evitare il pericolo che la Befana ci trovasse alzati, avremmo fatto a meno anche di mangiare, e non c'era nulla una volta che ci potesse appassionare quanto il pensiero di ciò che stava per essere... Timore e gioia crescevano alla vista dei preparativi imminenti: di mamma che spazzava con la granata l'imboccatura del camino perchè la Befana nello scendere non s'insudiciasse il vestito; di babbo che portava in casa un fastellino di fieno perchè la Befana potesse governare il ciuchino. L'ultim'atto era l'attaccatura delle calze. Mamma ne portava giù un paio per uno - le più lunghe e più belle - e ciascuno le appendeva da sè, ai chiodi, ai treppiedi, nella parete nera del focolare, augurandosi che il codino dovesse rompersi per il peso. Tre minuti dopo eravamo sotto le'coperte, e c"eravamo anche col capo, per paura di sentire: precauzione superflua dacchè si sapeva che il ciuchino della Befana aveva i ferri di sughero e il bronzino di pulenda dolce... Più tardo del solito, veniva anche quella notte il sonno, nè sarebbe il caso di domandar se venisse solo o con qual genere di sogni.

Era ancora buio, le campane non s'erano ancor sentite una volta, allorchè qualcuno si svegliava, e dir qualcuno voleva dir subito tutta la casa, e svegliarsi voleva dire, per noi ragazzi, buttarsi a terra, infilarsi, alla diritta o alla rovescia, qualcosa di ciò che ci s'era levato la sera, precipitarsi in cucina...
Il muro del focolare, con tutte quelle gambe e mezze gambe attaccate, sembrava la parete d'un santuario tutta coperta di voti. Un attimo di esitazione per riconoscer, così gonfie, le proprie calze, uno sguardo di comparazione (ah, l'invidia!) a quelle degli altri, e incominciava la festa: la casa, per qualche minuto, non risuonava che di «oh!» e di «uh!» seguiti da vocaboli tutti appartenenti al dizionario dei dolciai, dei fruttai, dei baloccai... Dico i vocaboli e dico il dizionario: le cose, no; le cose non mi parevano neppur parenti di quelle che, col medesimo nome, si trovavano in vendita nelle botteghe del paese, tanto ai miei occhi le oltrepassavano in bellezza e al palato in bontà. Erano i doni della Befana, i doni di un essere misterioso, e l'incantesimo del mistero trasmutava anch'essi alla mia mente e ai miei sensi.

Dunque, io ci credevo. Ci credevo per fede, senza bisogno di vedere nè di toccare. Si capisce che la vista dei doni, di quelle arance, di quei torroni, di quelle cioccolate, di quei balocchi che si davan tutti l'appuntamento dentro quelle nostre calze per quella mattina del sei gennaio, confermava la mia fede, a fondamento della quale cíera tutta l'autorità di babbo e di mamma che raccontavan della Befana tutte quelle cose, e uscivano anch'essi in esclamazioni di meraviglia allorchè, compiuta l'esplorazione, correvamo a mostrare a loro tutto quel ben di Dio trovato dove per solito tenevamo ì piedi infilati. E quali erano in quel giorno i discorsi, gli unici discorsi, che si facessero tra loro i ragazzi incontrandosi? - A te cosa la t'ha portato? - A me questo. A te? - A me... - Per la strada, sulla neve, specialmente intorno alle case, non si vedevan che bucce d'oro, carte stagnole d'argento; non si sentivan che fischi, che zufoli, che organini. Tutto la Befana.

Io dunque ci credevo, e ci credevo senza bisogno di vedere, credevo anzi che a vederla... Oh, me l'avevano ben detto e ridetto che cosa succedeva a voler vedere la Befana, a farsi trovare alzati, a comparir, mettiamo, in cucina mentre lei stava fornendo le calze! E tuttavia... anzi, non tuttavia ma forse un po' anche per questo, per tutto quell'insistere sulla necessità che la Befana aveva di non esser vista, e più per certi discorsi di mio fratello maggiore... Insomma, un anno, la sera appunto della Befana, quando già eravamo in camera per andare a letto, io fui assalito, e mi lasciai vincere, dalla tentazione di vedere.
Forse se non c'era quel foro... C'era per l'appunto, nel pavimento, coperto da un lembo del tappeto, un forellino attraverso il quale passava una volta la funetta di un campanello con cui dalla camera si chiamava in cucina. Mio fratello, che nello stato civile della Befana cominciava a esser tra i vecchi, aveva, come capii dopo, le sue ragioni (ragioni di gelosia) di spingermi a un atto che doveva accelerare anche a me il corso del tempo, delle esperienze, delle delusioni. Fu lui che m'indicò quel mezzo, che mi fece coraggio, che spense la candela - appena, con quanta cautela! ebbi messo l'occhio alla spia - perchè potessi veder meglio, non visto, nella cucina illuminata... Ah, fratello, fratello!
La cucina era deserta. Babbo e mamma eran forse già andati a letto anche loro perchè la Befana potesse scendere? Col cuore che mi faceva ta ta contro il pavimento, io rimasi in osservazione, e mi pareva già di sentire, giù per la gola del camino, il tintinnio della catena mossa appena appena dai piedi della dolcissima fata. Mi pareva - e si aperse invece (lo capii dal rumore) l'uscio che dalla sala metteva in cucina, e babbo e mamma vennero oltre, piano piano, con dei cartocci fra le mani, li posarono sulla tavola, staccarono dal camino le calze... Il resto non c'è bisogno di dirlo, e mi par quasi sacrilego dirlo. Insomma, io avevo visto.
Io avevo visto, io sapevo, e ne pagavo le conseguenze. Quella mattina, al risveglio, provai quasi più amarezza che gioia, e la vista dei doni mi lasciò poco meno che indifferente.
Cercai tuttavia di fingere, come mio fratello, finchè non mi misero, anche me, tra i «vecchi», ma la soddisfazione era scarsa, appetto a quella di una volta... Caduto il mistero, era ormai caduto l'incanto, e che cosa ormai rimaneva? Dei frutti, dei dolci, dei balocchi quali ci venivano dati anche durante l'anno, quali si trovavano alle botteghe del paese, quali si potevan comprare con qualche lira.

Storia vecchia, storia comune. L'ho narrata a te, Linetta, perchè tu non ripeta, in altro senso, il mio errore. Tu vuoi diventar «saggia», mi scrivi, perchè t'han sussurrato che la vita è una strada dura, e il tuo cuore stesso te l'ha detto ora ch'egli è partito... La vita è una strada dura? Ebben per questo io ti riprendo: non cercare di diventar «saggia», non cercare, per voler veder troppo i sassi, per guardar troppo in terra, di ritrar gli occhi dai fiori che fan lungo i margini, dal cielo che le si stende azzurro di sopra: non rinunziare, per l'esatta, geometrica «verità », alle gioie dell'illusione, alle gioie che, noi diciam poesia.
La poesia! Quante volte ne abbiam ragionato insieme! Quante volte ci siamo chiesti che cosa fosse! E ora mi sembra che la poesia, questo dono della vita, possa paragonarsi ai doni della Befana. Tutto era bello, tutto raro, tutto prezioso, tutto ci dava entusiasmo, finchè li guardammo con occhi ignari, con occhi di fanciullo: finchè non volemmo «vedere», «sapere», «conoscere». E tutto è bello nel mondo, tutto è raro, tutto è prezioso, tutto è ragion d'entusiasmo (tutto infatti è da Dio), dalla «polvere» della Via Lattea alla polvere del sentiero, dal moto degli astri, che fa quaggiù le stagioni, al moto di un cuore umano, che tinge il viso e accende gli occhi, finchè gli «occhi» rimangano - e il Vangelo ne fa un comando - fanciulli.
Tu, che ancora sei tale, non cercar, Linetta, non volere altra « saggezza » che quella: «E chiamato Gesù un fanciullo lo mise nel mezzo...»
L'umile corona di faggio, la corona che noi ti demmo facendoti in premio «Principessa di Trafallara », quasi a dir regina del nostro paese (perchè tu l'ami, nè vi sei nata, questo nostro paese, cui il Trafallara sovrasta e ombreggia, e ce lo dicevi proprio allora ch'esso sembrava più inamabile), ti parrà più preziosa di qualunque corona d'oro - nè a lui sarai meno cara che se tu gli recassi un regno, invece del tuo solo cuore fresco come l'ombra del faggio.

Testo tratto da: TITO CASINI, Il Pane sotto la neve, Firenze: LEF, 1935/2, pp. 205-215.


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