La morte è la creatura
dell'uomo (Deus mortem non fecit) e l'uomo è geloso della sua creatura:
non vuole che gli si prenda, non vuole che Dio - chi altri potrebbe? - gliela uccida.
Allorchè Dio, per uccider la creatura dell'uomo, si travestì da uomo,
si fece uomo in seno a una donna, gli uomini non lo vollero ricevere nelle loro case,
si opposero a che nascesse, rifiutando alla sorella incinta un luogo dove aprire
il seno: e Maria dovette chiedere alloggio agli animali, dovette partorir Dio in
una greppia... In cambio della culla negata, gli dettero, trentatrè anni dopo,
il sepolcro. Pilato non trovò nulla da ridire, e tutti furon contenti, allorchè
Giuseppe chiese Gesù per seppellirlo nella sua propria tomba tagliata nel
sasso. Seppellito che fu, gli uomini respirarono. La loro creatura, la morte, era
ormai fuori di pericolo: il suo nemico, colui ch'era venuto per ucciderla, era stato
ucciso da lei: essi avrebbero continuato come prima a morire. (Non avevano inteso
ch'egli aveva subito la morte proprio per soggiogarla, la morte, che si era fatto
suo prigioniero per toglierle tutti i suoi prigionieri, che appunto era morto perchè
la morte morisse). Ma fu un respirare che durò poco: la mattina seguente,
ecco che gli uomini si ricordarono di certe parole, di certi discorsi fatti in vita
da lui come a dire che tutto non sarebbe finito con la chiusura del sepolcro: «Dopo
tre giorni risorgerò».
Post tres dies resurgam. E voleva dire risorger tutti, voleva dire i peccati
rimessi, Iddio riconciliato, il paradiso riaperto, la vita ridonata per sempre...
Ma gli uomini, avvezzi alla morte, amaron la morte più della vita, e perchè
la morte fosse salva, perchè la vita non vincesse, perchè Gesù
non risuscitasse, non riuscisse dal sepolcro comíera uscito essi non volenti
dal seno della Nazarena, sigillarono il sepolcro e lo presidiaron di soldati.
Il che non impedì che la Chiesa canti, ogni anno, sul mezzogiorno di un sabato
sempre colmo di sole, quel suo vangelo che incomincia: Vespere autem sabbati...
: degno riscontro a quell'altro ch'essa cantò poco prima, sul mezzo di una
scura notte di dicembre: Et peperit filium suum... Nonostante fl rifiuto dei
Betlemiti.
Questo rifiuto e quella ostinazione ci commovono a sdegno ogni volta la Chiesa ci
riconduce a meditarli, per Natale e per Pasqua. Noi, ci sembra, non avremmo fatto
così. Noi ci saremmo contesi colei che stava per partorire Gesù. Noi
avremmo atterrato con le nostre mani la pietra che chiudeva il sepolcro perchè
Gesù potesse uscirne più spedito. Noi, pensiamo, non avremmo fatto
così.
E dire che facciamo così spesso così! C'è fuor di noi un Gesù
che vorrebbe nascere in noi, e picchia e chiede, per la voce della grazia, che gli
apriamo, che lo riceviamo nella nostra casa, nella casa della nostr'anima. Ma noi,
la nostra casa è «piena», piena di gente, di estranei (c'è
l'Ambizione, c'è l'Interesse, c'è il Piacere, c'è l'Odio ...
), e, per non licenziare gli estranei, rimandiamo Gesù. Oppure, Gesù
è in noi, ma è un Gesù morto, è il freddo, inerte Gesù
del Venerdì Santo, non il vivo Gesù di Pasqua: la nostr'anima gli è
tomba, non casa. Gesù vorrebbe risuscitare, far della tomba ch'è la
nostr'anima una casa, una lieta Betania, un fervente cenacolo, ma noi ci opponiamo:
sette duri soldati montan la guardia al sepolcro, cui l'ostinazione pose e mantiene
i sigilli.
Così noi deludiamo il Natale, deludiamo la Pasqua. Perchè, se Gesù
potè nascere a Betlemme nonostante il rifiuto degli abitanti, e risuscitare
a Gerusalemme nonostante i bolli e le guardie dei sacerdoti, non può nè
nascere nè risuscitare in noi se noi non vogliamo, se noi non lo aiutiamo,
se noi non gli apriamo.
Aprire dunque a Gesù. Aprirgli, sia ch'egli batta di fuori sia che prema di
dentro. Licenziare gli estranei, perchè abbia posto il fratello; licenziare
i soldati, rompere i sigilli, perchè sia libero il Liberatore.
« È giunta la grazia di Dio nostro Salvatore... Rinneghiamo dunque l'empietà
e i desideri del secolo... e aspettiamo la venuta del grande Dio... » È
l'epistola di Natale, e che altro significa se non licenziare gli estranei,
gli estranei dell' anima, fatta per I' adorazione, fatta per le concupiscenze celesti?
«Cacciate il vecchio fermento, sì che siate una nuova pasta come siete
azimi...» È l'epistola di Pasqua, e anch'essa comanda di licenziare:
licenziare i vecchi peccati, licenziar le vecchie passioni, licenziar questi tristi
soldati che vorrebbero serbare alla morte e al sepolcro l'anima fatta per la vita.
Aprire a Gesù, ch'egli nasca o riviva nel nostro cuore, sì che il nostro
cuore abbia parte alla pace: a quella pace nel cui nome gli angeli annunziarono agli
uomini che Maria aveva partorito, nel cui nome il Figlio di Maria si presentò
agli uomini risuscitato.
Testo tratto da: TITO CASINI, Il Pane sotto la neve, Firenze: LEF, 1935/2,
pp. 150-154.