Come a noialtri le nostre mamme, Anna,
la donna di Giovacchino, insegnava alla sua bambina le divozioni. La maniera era
press'a poco la stessa ma le divozioni eran differenti: non c'era il Pater,
non c'era l'Ave, né Gesù, Giuseppe e Maria, né
Maria, Mater gratiae: non c'era, e parrebbe impossibile, nessuna preghiera
alla Madonna né al suo santissimo Sposo. Eran divozioni composte più
che altro di salmi e di profezie, come sarebbe il nostro vespro, la nostra compieta,
come sarebbero i mattutini della Settimana Santa, quello della notte di Ceppo e quello
dei Morti. Fatto, e fatto fare alla sua bambina, il segno di croce... Ma che dico?
neppure il segno di croce usava ancora a quei tempi. Senza dunque farsi il segno
di croce, Anna cominciava a recitare un salmo o una profezia e la bambina ripeteva
via via le parole, con una gravità, con una trepidazione del viso che indicava
com'essa si addentrasse nella preghiera in tendendone i significati... Vi erano dei
passi che sembravano toccarla in maniera speciale, che la facevano pudicamente sorridere,
arrossire, turbare, come una fanciulla che ascolti le prime espressioni d'amore,
i primi accenni di nozze. Così quando doveva ripetere le parole d'Isaia: et
egredietur virga de radice Iesse, et flos de radice eius ascendet, et requiescet
super eum Spiritus Domini... e l'altre dello stesso profeta: ecce Virgo concipiet
et pariet filium...
Vi eran pure delle parole, nel libro santo, che la figlia d'Anna non ripeteva,
dietro sua madre, quasi non convenissero sulla sua bocca, quasi avesse fatto torto,
dicendole, a chi le aveva dato la vita. Erano parole del suo grande antenato Davide,
parole del salmo cinquanta che noi cantiamo, a voce grave, quando ci sono interdetti
il Gloria e l'alleluia, il salmo che il re compose quando peccò, doppiamente
con Bethsabea e contro Uria, e il profeta Nathan gli aperse gli occhi sul suo delitto
e gli annunziò gl'irrimessibili gastighi di Dio... Non avendo altra difesa
di sé, dopo la misericordia divina, da opporre al Signore, non sapendo a che
altro rifarsi per scemare la propria colpa, Davide si rifaceva alla propria madre
- ed era quanto rifarsi alla madre di tutti gli uomini -, che lo aveva fatto già
nascere in compagnia del peccato: Quoniam in iniquitatibus conceptus sum, et in
peccatis concepit me mater mea... La figlia d'Anna non ripeteva, dietro sua madre,
quelle parole, che ogni parente d'Eva può ripeter senza mentire: «nel
male io fui concepito: mia madre mi concepì nel peccato». Sentiva di
non poterle ripetere senza calunniare la madre e mentir contro il cielo.
Anna si meravigliava di quel tacer di sua figlia all'umili parole di Davide, si meravigliava
che sua figlia non l'accusasse, ripetendo il versetto, di quello ch'è il comune
e necessario delitto di tutte le madri... Anna infatti ignorava d'essere, lei sola,
innocente verso la figlia; ignorava che quella figlia era uscita da lei immune di
peccato, come si leva dolce l'acqua dal seno amaro del mare; era uscita piena di
grazia, come Eva dalle mani divine durante il sonno di Adamo.
Ciò che Anna ignorava (benché fosse avvenuto dentro di lei) è
verità di fede per noi: non è cattolico chi non crede che la figlia
d'Anna fu senz'alcuna bruttura fin dal suo primo essere, fu sempre e fu tutta bella.
«Tutta bella», Tota pulchra: da nove giorni glielo diciamo, accorrendo
in festa da ogni parte al suo altare, e la neve, cadendo in bianca pentecoste sulla
terra incinta di pane, ripete con innumerabili lingue: Tota pulchra... Sine macula...
Sicut nix... Ma oggi è lei medesima che se lo dice, che canta la propria
intera bellezza ringraziando chi la fece qual'è: è lei che parla allorché
il sacerdote, tutto vestito di bianco, bianca tutta la chiesa, sale l'altare e legge,
seguito dal coro: Gaudens gaudebo in Domino...: «Io mi vo' rallegrar
nel Signore e l'anima mia giubila verso il mio Dio perché di vesti salutari
m'ha rivestito, m'ha ravvolto in un manto di santità, quasi una sposa adorna
de' suoi gioielli... Ch'io t'esalti, Signore, perché tu m'hai protetta: non
hai concesso ai miei nemici di menar vanto su me». A lei, la figlia d'Anna,
che celebra nell'epistola la sua primogenitura di gloria tra tutte le creazioni divine:
lei anteriore alla terra, anteriore alla luce, anteriore agli angeli, lei quasi eterna,
eterni essendole il Padre, lo Sposo e il Figlio: «Il Signore m'ha posseduto
fin dal principio delle sue vie, prima che si mettesse a operare... Dall'eterno io
ero prestabilita, prima che fosse fatta la terra. Gli abissi ancora non erano, e
già io ero concepita. Non ancora le fonti avevano principiato a versare, non
ancora le montagne rizzavano la loro mole pesante. non ancora eran le colline, e
già mi aveva partorita... Quando preparava i cieli, io ero presente; quando
con giusta legge cintava in giro gli abissi, quando fermava in alto l'aria e sospendeva
le sorgenti dell'acque, quando fissava i confini al mare, che l'acque non traboccassero,
quando gettava i fondamenti della terra, io ero con lui...»
«Tutta bella», «Senza macchia»: il graduale glielo ridice:
Tota pulchra es, Maria, et macula originalis non est in te; nel vangelo è
un arcangelo che scende a dirglielo: è Gabriele che la saluta «piena
di grazia», «preferita del Signore», «benedetta tra le donne»,
e l'offertorio riecheggia questi saluti: Ave, Maria, gratia plena, Dominus tecum,
benedicta tu in mulieribus... Maria tace, dall'epistola, quasi più non
si tratti di lei, quasi non sia più sua la festa o non più tutta né
principalmente sua. L'arcangelo, con le sue parole, le ha fatto chinare il capo.
Il Concepimento avvenuto in lei, nominato da quelle parole di Gabriele, prevale ormai
sul Concepimento di lei: la bellezza del Figlio, ragione della prestabilita bellezza
di lei, la vince nella glorificazione come la bellezza del sole vince quella dell'aurora
sua antenata e sua figlia.
Quasi aurora consurgens... La Madonna dell'otto dicembre è degna tra
tutte di esser paragonata all'aurora: le mattutine dolcezze, le soavi speranze, la
fresca gioia che precedono nel nostro cuore il levar del sole rallegrano la nostra
anima al giunger di questa festa, la più bella di questo trepido tempo di
aspettazione. Questa festa infatti è la certezza, e quasi l'inizio, della
festa incomparabilmente più grande verso la quale tendiamo. Maria è
concepita e, diversamente da ogni altro essere umano, è concepita senza macchia:
il rettile che vinse Eva già sibila sotto il calcagno che gli fu minacciato:
la creatura che dovrà far Dio carne e sangue (carne da soffrire, sangue da
versare) è già creata: il seno che deve partorir Gesù, l'Aspettato,
il Salvatore, è già, in germe, nel seno di Anna, la donna di Giovacchino.
L'Otto Dicembre è dunque la certezza, la divina caparra, del Venticinque Dicembre,
e da questo trae soprattutto la sua gloria e la sua gioia.
Quasi aurora consurgens... È il sentimento che ci lascia, di questa
festa, di questa Madonna dell'otto dicembre, l'ultima orazione del giorno: «Dio,
che per l'immacolata Concezion della Vergine preparasti una degna casa al tuo Figliolo...»
Una «degna casa», una casa «senza macchia», una casa «tutta
bella», ma non per se stessa, sebbene per Qualcuno che dovrà venire
a abitarla, «in tutto simile a noi fuorché nel peccato».
Così la neve che cade e s'alza or sui campi non tanto alletta i nostri occhi
per il suo perfetto candore quanto rallegra il nostro animo per il pensiero del pane
che sotto a lei si ripara... La neve prima di Natale è madre. E non sai se
più convenga, l'affermazione, all'agricoltore che ha sotto terra le sue speranze
più care, o alla Chiesa che celebra, l'otto dicembre, il concepimento senza
macchia d'una che cammina lenta verso Betlemme per porre nei registri il suo nome,
Maria.
Testo tratto da: TITO CASINI, Il Pane sotto la neve, Firenze: LEF, 1935/2,
pp. 46-52.