IL PANE SOTTO LA NEVE
IV - I SANTI DEL GRANO

«Il regno di Dio», disse Gesù, «è come un uomo che butta il seme in terra e la notte dorme e il giorno si leva, e il seme intanto germoglia e cresce senza che lui sappia come...» È il grande miracolo che di continuo si ripete, è la meraviglia che la mente non si stanca di ripensare, gli occhi di vedere, il palato di gustare: la cosa più importante, l'unum necessarium del corpo e - possiamo aggiungere - dell'anima, il grano, sostanza del pane e sostanza transustanziabile dell'Eucaristia, ottenuto nella maniera più semplice, senza macchine, senz'artifizi, senza misteri: smovendo con un legno, e basterebbero anche le mani, la terra, questa stessa terra che calpestiamo, quella medesima che «Dio in principio creò», e buttando sulla terra smossa il seme qual è uscito dalle spighe dell'estate innanzi, quale uscì dalla terra allorchè Dio comandò l'erbe e le piante. Coperto il seme, perchè non se lo piglino gli animali, l'uomo raccoglie i suoi arnesi, non mutati certo da quelli che adoprò il primogenito di Adamo, e se ne va e dorme e veglia, come dice il Vangelo, e al grano non pensa più finchè dopo nove mesi guarda alla luna e dice:
- È l'ora di mietere -.
Quante cose in quei nove mesi dalla semina alla mietitura, quante vicende fra cielo e terra, quante minacce e quanti pericoli per il grano, esposto là per i campi, in tutta la sua gracilità, a tutte le variazioni dell'anno: al diluviar dell'ultimo autunno, alle nevi e ai ghiacci dell'inverno, alle brine traditrici della primavera, ai venti, alle bufere, alle grandini della prima estate! Chi dà all'agricoltore il coraggio di seminare, di fidare alla terra ciò che ha al sicuro nel granaio, sapendo quanti «ladri», nel corso di tre stagioni, attenteranno a questa «banca» senza muri nè porte? L'agricoltore è un uomo di fede, è l'uomo che più di tutti alza gli occhi al cielo, che più di tutti tiene conto del cielo. Per seminare come per mietere, egli guarda alla luna, ai nuvoli, al vento. Egli sa che le sue fatiche, che il seme stesso non valgon nulla se non interviene per lui, a suo tempo, o non interviene in quella misura, ciò che non dipende da lui, ciò che non è affatto in suo potere, sia la pioggia o il sereno, sia il dolco o lo strizzo, sia il fresco o il caldo, tutte cose di cui il cielo è arbitro, assoluto e incoercibile. Chi ha mai pensato che si potesse inventare un modo di far precipitare la pioggia o arrestarla, di scoprire il sole o coprirlo, secondo i nostri bisogni? Lo domandava Dio a Giobbe: «Chi è il padre della pioggia? Chi ha generato le gocciole della guazza? Dall'utero di chi è uscito il ghiaccio? E la brina del cielo chi l'ha generata?... Conosci tu forse l'ordine del cielo e disponi il suo influsso sopra la terra?» Come Giobbe, l'agricoltore dice a Dio: «Riconosco che tu puoi tutto», e a Dio, buttato il seme, rimette fino alla mietitura tutto il daffare.
L'agricoltore è dunque un uomo di fede. Butta in terra, dice una sua massima, e spera in Dio. E un'altra: Finchè il grano è nei campi, è di Dio e dei santi. Quella e questa voglion dire che sarebbe inutile il seminare se quelli che stan disopra, e tengono i registri del cielo, non pensassero al rimanente. Sperare, tuttavia, non basta, bisogna anche pregare: pregare i santi perchè preghino Dio perchè, tolto in consegna il seminato, ne provveda al germoglio, alla nascita, all'accestimento, alla spigagione, alla fioritura, alla leghigione, all'acerescimento e alla maturazione, tutte cose fuori del potere dell'uomo, cose che avvengono mentre l'uomo dorme e si leva nè l'uomo sa come.
Ogni giorno dell'anno ha il suo presidio celeste, ha il suo santo di servizio, il suo santo di guardia, che pensa agl'interessi dell'uomo mentre l'uomo dorme e si leva; e poichè il pane è la prima necessità della vita, tutti i santi del calendario, che vuol dire del paradiso, sono impegnati alla difesa e all'avanzamento del grano fino a che non è pane. Ma, come ognuno di noi ha in cielo i suoi protettori particolari (santo del nome, santo del giorno natalizio, santo del luogo, santo dell'arte, e via e via), così anche il grano ha i suoi santi, che lo assistono con benevolenza speciale in ogni passo del suo sviluppo dal seme ai semi. Sono i santi dei proverbi campestri, i santi degli auspici e delle faccende, i santi che si son fatti storpiare o troncare il nome (Mattè, Tommè, Bastiano, Barnabà...) per restar meglio, con una rima o un'assonanza, nella testa del contadino a ricordargli il tempo giusto di fare o di cessare se vuol veder tradotte in spighe le gocce del suo sudore.

Il primo santo a cui bisogna raccomandarsi per amor del grano è quello del sei settembre, san Gorgonio, e raccomandarsi che sia buono, che non faccia piovere, giacchè Se piove per San Gorgonio, tutto l'ottobre è un demonio, e l'ottobre vuol esser mite essendo il mese delle arature e delle prime semente. San Gallo (sedici ottobre) è quello che dà il segnale: Da San Gallo, ara il monte e semina il vallo... A sveltire, viene, due giorni dopo, viene col suo bove, quasi in aiuto, san Luca: O mollo o asciutto, per San Luca seminalo tutto... Viene, dico, a sveltire (ed è bene ricordarsi che Chi semina presto non si pente quasi mai, che Seminar di buon'ora fa bene per natura e tardi per ventura) ma per verità tutto ottobre è buono, ed è il collegio intero dei santi che piglia in consegna le semente: Fino ai Santi, la sementa è per i campi; dai Santi in là, riportala a ca'... Fino ai Santi: e chi non avesse fatto a tempo? chi, non potendo pigliar opre, deve far tutto con le sue braccia? Ebbene, per il povero c'è il santo dei poveri, c'è san Martino, quel del mantello, quello dell'estate, e san Martino permette che si semini ancora per la sua festa, la quale è agli undici di novembre: Per San Martino, la sementa del poverino... Si capisce che giù nel piano, dove la terra è più sciolta e il freddo arriva più tardi, anche la sementa va ritardata, e san Frediano, che vien sette giorni dopo san Martino, vede volentieri rimbalzar pe' colti, lanciata a pieni pugni dall'uomo, la roggia grandine del frumento: Per San Frediano, si semina a piena mano... Piano o collina o montagna, san Clemente, con le sue chiavi di papa, chiude, ai ventitrè di novembre, l'opra dell'uomo, A San Clemente, smetti la semente, e apre, aprendo alla neve, quella del cielo: Per San Clemente, l'inverno mette il dente.
L'opra del cielo, segreta, silenziosa, nascosta, si vede due mesi dopo, partita la neve: i colti, che la neve trovò scuri e glabri, eccoli ora coperti di una lanugine verde, la quale quanto è men fitta tanto più è promessa di pane. A san Sebastiano che dà l'indizio: Per San Bastiano (che fa la guardia al venti gennaio), sali il monte e guarda il piano: se vedi molto, spera poco; se vedi poco, spera molto... San Vincenzo, quello d'aprile, ci ottenga il più bel sereno per la sua festa (che combina con l'arrivo del cucco), perchè San Vincenzo chiaro vuol dire assai grano; mentre se è scuro, pane niuno... Alla granitura, sulla fine di maggio, presiede ancora un papa: Per Sant'Urbano, il frumento è fatto grano; e lo stesso san Pietro, il protopapa, il gran portiere celeste, presiede al raccolto: Per San Piero, o paglia o fieno.
O paglia o fieno, o grano o erba, o poco o molto che sia, per San Pietro si miete, e sì sa che la peggio stretta è quella della falce. Tuttavia, fino a che un po' di sugo resta nei gambi recisi, il chicco vive e s'aumenta, e la santa antiochena protettrice delle incinte protegge l'ultima gravidanza e il parto delle spighe già allèttate sull'aia: Fino a Santa Margherita, il grano cresce nella bica.
Sotto i colpi dei coreggiati, nel maggior bollore del sole, il grano esce dalle spighe, e son cinquanta e son cento chicchi che balzan fuori per ogni chicco che fu gettato. Da chi questo? L'agricoltore che, a sera, sorto il vento, lancia a palate verso il cielo, dopo averlo ammucchiato assieme, il frutto grezzo delle spighe, per mondarlo dalla pula, par che voglia mostrare d'onde veramente la rossa manna gli sia venuta, e il gesto sembra piuttosto un'offerta, un sacrifizio di gratitudine.

Testo tratto da: TITO CASINI, Il Pane sotto la neve, Firenze: LEF, 1935/2, pp. 28-34.


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