San Luca, l'evangelista dal bove, viene
tra due grosse faccende, l'una il contrario dell'altra, dico tra una raccolta e una
semina, ossia una fine, e un principio. Fine dei giorni del castagno: San Luca
sbruca: diriccia, atterra i marroni e sfronda a fiati a fiati le piante, rendendo
al suolo in frutti e foglie ciò che dal suolo, attraverso il fusto, salì
alle cime in forma di succhi nel lento volger delle stagioni… Mentre il castagno
sta per conchiuder l'annuo suo corso, s'inizia quello del grano. O mollo o asciutto,
avverte un altro proverbio, per San Luca seminalo tutto.
Per San Luca, cioè al diciotto di ottobre. È veramente, quest'ultimo,
un proverbio che sa di fretta, un proverbio buono, semmai, per i luoghi più
alti. Eccone un altro assai più agiato: Fino ai Santi, la sementa è
per i campi: dai Santi in là, riportala a ca'. E un altro più agiato
ancora: Per San Frediano (cioè un mese dopo San Luca), si semina
a piena mano. Ma questo è l'ultimo, e chi avesse ancora gran da buttare
dopo San Frediano meglio farebbe certamente a mandarlo al mulino: la neve è
a passi: Per Santa Caterina (cinque giorni avanti dicembre), la neve alla
collina.
Tutti hanno seminato allorché con la sua ruota spezzata ritorna sul calendario
la martire di Alessandria, e incomincia per tutti la grande attesa. Come il telo
della massaia sul pane in lievito, posa sui seminati la neve. Sotto la neve, pane.
È una sapienza antichissima, frutto di esperienza, che ha il suo riscontro
e la sua conferma nella sapienza rivelata. Quomodo descendit nix de coelo et…
dat panem… sic erit verbum meum… E ancora: Sicut frigus nivis in die messis,
ita legatus fidelis, e al contrario: Quomodo nix in aestate et pluviae in messe,
sie indecens est stulto gloria. Perciò l'uomo di campagna benedice, anziché
maledire, la neve, anche se il freddo che ne patisce nelle membra gli fa ricordar
con voglia i miti venti a' cui aliti già si apersero i ricci. Ciò che
per lui il vello della pecora, è per i suoi seminati la neve. La neve, egli
suole anche dire, è la lana dei campi (quasi traducendo dal salmo: qui
dat nivem sicut lanam… e: Anno di neve, anno di bene.
Tempo dunque di attesa, il tempo della neve.
Che cosa ha fatto, fra l'ottobre e il novembre, e che cosa fa ora l'agricoltore?
Ha fatto e fa quello che dice il Vangelo: «Il regno dei cieli è come
un uomo il quale butti seme in terra, e la notte dorme e il giorno sta sveglio: e
il seme barbica e cresce, ch'egli non sa come sia». Egli non sa come sia ma
sa che è, e perciò dorme tranquillo, le lunghe notti invernali; perciò
guarda tranquillo, nei brevi spazi del giorno, i suoi campi tutti coperti della frigida
lana simile a lenzuolo di morte… Infatti, ecco che la neve è sparita (il
Barbuto, il Frecciato, il Pettinato, come a dir fra Sant'Antonio
e San Biagio, e il freddo è andato): salga o non salga sul monte, come gli
consiglia un altro detto (Per San Sebastiano, il «Frecciato», sali
il monte e guarda il piano), che cosa vede ormai intorno a sé il contadino?
La neve s'è cambiata in grano; il gelido color dell'inverno, la sterile seminagion
delle nubi, ha ceduto nei campi al tenero color della primavera, al verde che significa
pane, che significa vita. L'attesa si è fatta dunque realtà; il desiderio
si è fatto gioia; la preghiera, inno di gratitudine.
Era forse quella la preghiera? Fu proprio nei giorni in cui, chiuse da poco le semente,
s'aspettava la neve, fu lì d'intorno a Sant'Andrea, tra gli ultimi di novembre
e i primi di dicembre, che s'incominciò a sentir quell'invocazione: Rorate,
coeli, desuper… Aperiatur terra et germinet…: «Cieli, calate la rugiada…
La terra s'apra e germogli». Quasi dicesse: il cielo mandi la neve, e dalla
terra spunterà il pane… Quale pane attende la Chiesa, che così prega,
e sotto qual neve si nasconde?.
È questo, infatti, anche per la Chiesa, tempo di attesa. Anche la Chiesa,
prima d'ora, ha seminato. Euntes, ibant et flebant, mittentes semina sua:
«Andavan essi e piangevano, gettando la loro semente…» Erano i patriarchi,
erano i profeti, da Adamo fino a Zaccaria, a Simeone, a Giovanni, che andavano seminando
le loro lacrime di desiderio sulla terra sparsa di spine e triboli, con gli occhi
rivolti al cielo, come il servo di Elia in cima al Carmelo, a spiar quella neve divinamente
promessa madre del pane che salverà dalla morte.
Qual'è dunque questa neve e qual è questo pane? «Una vergine
partorirà». Una vergine: ecco la neve; partorirà: ed ecco il
pane: il «pane vivo», il «pane di vita», che già s'inturgidisce
nel ventre puro di lei, mentre in seno alla terra gonfia e barbica il grano; il pane
che la Chiesa aspetta e invoca, con mille palpiti e mille voci, in questi giorni
di universale aspettazione, e nascerà, fra poco, coetaneo col grano, convertendo
nell'allegrezza del sicuro possesso le trepidazioni della speranza. Panis… qui de
coelo descendit et dat vitam mundo: cioè Gesù Cristo, Dio e uomo, redentore
e conservatore, che al Padre nasce eternamente, e nacque una volta da Maria, e nasce
alla Chiesa ogni anno, col germinar del frumento, allorché il sole si fa a
ripetere il suo corso.
Rorate, coeli, desuper… Aperiatur terra et germinet… Se l'intenzione è
diversa, le parole posson esser le stesse, per l'agricoltore e per la Chiesa tanto
si rassomigliano o si raffigurano tra loro le due aspettazioni, quella del pane,
che ora, nasconde la neve, e quella del Salvatore, che ora nasconde il sen di una
vergine.
Né si dissoceranno le immagini, o cesseranno di ricordarsi a vicenda, quando
la neve e la vergine avran partorito. Le parole con cui Mosè annunziava al
popolo il pane, il pane materiale che Dio stava per mandargli, quelle medesime usa
la Chiesa per annunziare ai suoi figli che la vergine sta per esser madre, che il
Salvatore sta per giungere: Hodie scietis quia veniet Dominus…: «Oggi
saprete che il Signore verrà, e ci salverà, e doman vedrete la sua
gloria…» Il luogo stesso dov'essa diverrà madre — Betlemme —, il letto
stesso su cui deporrà il suo frutto — la paglia — parleranno di pane.
Betlemme, «casa del pane». Steso sulle spoglie del pane, Colui che, fatto
adulto, si definirà da sè come pane — «lo sono il pane »
— già sembra che si confonda con la materia del pane, sembra che la paglia
si componga con lui, che in lui abbia il suo compimento, la sua corona, la sua spiga,
il suo frutto; e il gesto della madre che lo vezzeggia, che gli tende le braccia
per portarselo al seno, è quello di chi raccoglie un manipolo… Ma che cos'è
quel bianco piccolo disco che il sacerdote raccoglie ora dall'altare chinandovisi
sopra come il legatore sul manipolo? Più bianco e alquanto difforme da quello
che consumiamo a tavola, noi vediamo tuttavia ch'è pane… E perché dunque
curvano tutti la testa ora che il sacerdote lo mostra, sollevandolo fra le mani,
come la Vergine ai Re Magi il suo figliolo divino? Esso non è più pane:
esso è Dio. Né è meraviglia che, essendo Dio, il sacerdote ne
faccia ora suo cibo, dacché è Dio medesimo che lo vuole, Dio che ha
dato al pane se stesso onde poter dare se stesso in pane.
Così l'ombra si fa una cosa sola col corpo, l'apparenza con la sostanza, la
figura col figurato: il frumento dell'uomo col frumento divino. Così s'avvera
in ogni senso che sotto la neve sta il pane: il pane celeste in un col pane terreno;
giacché una stessa semente contiene ciò che farà lieta un giorno
la madia e ciò che farà santo il ciborio — come nel seno della Vergine
stanno insieme il fanciullo di Betlemme e il Dio del Cenacolo. Così può
e nelle parole e nell'intenzione accordarsi la preghiera dell'agricoltore con quella
della Chiesa durante la stagione avventizia: Rorate, coeli, desuper et nubes pluant
iustum; aperiatur terra et germinet salvatorem.
Né occorre che dalla Chiesa l'agricoltore si digiunga nei giorni del giubilo
natalizio. Notum fecit Dominus, alleluia! salutare suum, alleluia! «Il
Signore ha fatto ormai palese, alleluia! la sua salvezza, alleluia!» «La
sua salvezza», cioè Gesù, il cui nome significa «salvatore».
I campi, intorno alla chiesa, liberi ormai dalla neve, ripetono con innumerabili
lingue la canzon del Signore che ha mutato in certezza, in visibile certezza, tutte
le nostre speranze.
Testo tratto da: TITO CASINI, Il Pane sotto la neve, Firenze: LEF, 1935/2,
pp. 9-15.