Me lo domandavo ieri assistendo,
nella nostra grandiosa basilica di San Miniato al Monte, alle esequie di uno che
ha pure scritto un suo Diario d'un immaginario parroco mugellano, il caro
amico Nicola Lisi.
Faceva freddo, lassù, col vento decembrino che penetrava nella chiesa, ma
nulla di simile al freddo, al gelo da cui ci sentivamo presi l'anima e l'ossa (m'era
vicino l'amico scultore Antonio Berti e mi guardava come per chiedermi s'era possibile),
seguendo quella nuova liturgia funebre, letta, non più cantata, in una prosa,
un volgare squallido quanto sublime - prima - il latino nella sua angelica melodia
gregoriana: una liturgia, ripeto, così diaccia e addiacciante (fra quelle
muta olivetane use a tutt'altri riti) che ci fece parer tepida, allorché uscimmo,
quell'aria di tramontana della collina senza riparo... Mi giovò, allora, l'amico
D'Osio che, levandosi di tasca e dandomi a leggere su Les Nouvelles Litteraires
l'appunto di uno scrittore che aveva assistito a una funzione del genere, mi
confermò che non ero il solo a provar tali sentimenti e che simili riforme
raggiungono egregiamente lo scopo di respingere, per repulsione del brutto, quelli
che la seduzione del bello doveva attrarre e attraeva un tempo alla Chiesa.
È di Gabriel Natzneff, un ortodosso, e credo utile riportarlo: «Domenica
21 settembre. Nella chiesa di Villasimius, sulla punta estrema della Sardegna meridionale,
messa per il riposo dell'anima di... I miserabili, che cosa han fatto del culto cattolico,
che cosa han fatto della loro Chiesa! Io non sono cattolico e ciò non mi concerne,
ma non posso impedirmi d'essere invaso di tristezza davanti a uno spettacolo di una
tale miseria, di una tale deliquescenza. Come possono i cattolici riuscire ancora
a pregare con una tale liturgia? Io non ne sarei capace...»
Come possono? Soffrendo e sperando. Sperando, contra spem in spem, in Colui
che - come ammonì un santo papa, Pio X - vuol essere pregato «in bellezza»
e incuora a perseverare coloro che non abbiamo chiamato eroi anche perché
in quel pregare è la loro gioia.
Per rimanere e finir con Lisi nella sua terra, io ricordo quanto mi fosse di cagione
a bene sperare ciò che a lui stesso raccontavo in uno dei nostri ultimi incontri.
Passavo da Sant'Agata, un vecchio borgo del suo Mugello, una domenica dell'altra
estate, quando, nell'avvicinarmi all'antica pieve, sentii dalla chiesa venir col
suono dell'organo un canto, poco meno che a solo, che subito riconobbi e mi fece
affrettare il passo per non perderne e unirmi a quanto ne rimaneva... Era il Vespro,
era l'ultimo salmo, In exitu Israel de Aegypto, e alla mia contentezza fu
pari la mia meraviglia nel vedere che a cantarlo era, con pochi bambini e una diecina
fra uomini e donne, il pievano. Quasi solo, dunque (non ricordo che insolito avvenimento
aveva spopolato il paese), e, nonostante, egli non aveva rinunziato, non rinunziava
al suo Vespro, a quei bei salmi, a quel bell'inno, a quel Magnificat (che
aveva, un giorno, a Notre Dame, convertito Claudel), soddisfatto di soddisfare a
un dovere, «servetur», di cui sentiva evidentemente il piacere, conservando
una tradizione, di fede e di bellezza congiunte, ricevuta dai secoli, attraverso
le generazioni che in quella chiesa avevano così pregato, così cantato,
coi canti di David, per essere inoltrata nei secoli, più forte di ciò
che il verno de la barbarie le avesse o le avrebbe potuto contro.
Tradita tradere... e al pievano (che salutai poi festante con l'alcaica di
Orazio, Iustum et tenacem propositi virum ...) io dico, io ripeto grazie,
anche di qui, per lui e per il piccolo coro che cantava con lui quelle grandi cose.
«In exitu Israel de Aegypto...» Lo cantavano giubilanti le anime
viste dal poeta approdare alle sponde del Purgatorio; lo cantavano «con quanto
di quel salmo è poscia scripto», domus Iacob de populo barbaro,
e mi pareva, in quel momento, scritto per me, per il mio godimento e la mia speranza:
per me che, digiuno da tanto tempo di quel canto, lo ascoltavo come il poeta tornato
a veder le stelle ascoltava l'amico ritrovato fra quelle anime appena giunte dall'esilio
terrestre.
Mare vidit et fugit, il mare vide e si ritrasse, Iordanis conversus est
retrorsum, il Giordano rivolse indietro il suo corso... Occorrerà, così
come cantavamo, un prodigio, come Dio fece per il suo popolo al Mar Rosso, perché
Israele, perché la Chiesa possa intonare il suo In exitu? Quand'anche,
noi non perderemo la fede, fidenti come siamo in Lui e negli uomini di cui Egli nonha
bisogno ma può servirsi a nostro conforto, non fosse che con la voce di un
organo e le voci di un piccolo coro di campagna fatte giungere al nostro orecchio,
nel vespro di una solitaria domenica, mentre noi passiam per la strada.
La passione della Chiesa ai giorni in cui ci troviamo a vivere - mentre siamo per
deporre la penna, dei sacerdoti, nella terra di san Francesco, ricevono il Vescovo,
come un tempo al canto dell'Ecce sacerdos magnus, al canto dell'Internazionale,
l'inno dei senza-Dio, rispondendo col pugno chiuso alla mano che s'è aperta
per benedire - richiama per somiglianza quella del popolo di Dio ai giorni di Elia
e ci fa pensare a lui, il grande campione che davanti all'imponenza del male - l'apostasia
d'Israele, la distruzione degli altari, la persecuzione dei profeti... - fu pur tentato
di abbattimento, provando il tedio di vivere: «Temette pertanto Elia
e levatosi se n'andò nel deserto; sedette sotto un ginepro e chiese di morire
dicendo: "Basta, Signore: prendi l'anima mia, poiché io non sono migliore
dei padri miei". Poi si sdraiò e dormì all'ombra del ginepro».
Ma non glielo concesse il Signore, che lo svegliò e rincorò per bocca
di un angelo dicendogli: «Lèvati e va'... Mi son lasciato settemila
uomini che non han piegato il ginocchio davanti a Baal», e a rinvigorirsi gli
ordinò di mangiar del pane che aprendo gli occhi si vide accanto.
Settemila o più o fosse pur meno, i fedeli all'Altare sanno in Chi credono
e continuano e continueranno perciò a credere, fortificati dal Pane che Dio
volle in quello prefigurato ed è l'Eucaristia, è il Sacrifizio, è
la Messa.
La nostra Messa, l'oggetto supremo del nostro Culto, che il fumo di Satana
ci vuol nascondere e così rapirci, a conclusione di una Riforma - CONDOTTA
DA UN BUGNINI CHE SI È INFINE SCOPERTO PER CIÒ CHE SI SOSPETTAVA: M
A S S O N E* - cui non mancherebbe che questo perché
la sua vittoria fosse completa, assoluto il suo regno.
Dio non lo permetterà... Termino in questo punto di leggere l'ultimo libro
di Solgenitsin e faccio mie, per noi, le parole con cui incuora a non disperate i
suoi fratelli di sangue che a tanto sono arrivati - come il libro stesso rivela -
nelle sofferenze della loro schiavitù più che semisecolare: «Forse
qualcuno di voi si domanderà se non esiste veramente, al disopra di tutti
noi, Colui che chiederà conto di tutto? Non dubitate: esiste!»
Esiste, e disperderà dal suo Tempio il fumo diabolico, facendone levar di
nuovo, come Giovanni vide, l'incenso del Suo Sacrifizio: «Et alius angelus
venit habens thuribulum aurcum... et ascendit fumus incensorum de orationibus sanctorum».
È su questa visione che queste pagine vogliono chiudersi, nella preghiera
di Giovanni che si leva incessante dai nostri cuori: «Egli dice: " Sì,
io vengo presto". Amen! Vieni, Signore Gesù!»
Veni, Domine Iesu. E sia benigna alla nostra fretta Colei di cui in Giovanni
fu detto a tutti noi, per tutti noi, dalla Croce: «Ecco tua Madre».
Firenze, In
Purificatione Beatae Mariae Virginis, 1976.
FINE
* Non abbiamo elementi certi per fare nostra l'opinone del Casini (n.d.r.)