C'è bensì nel permissivismo
che fa tutto licet nella Chiesa una ragione, non buona, ed è quella che abbiam
dato per titolo a queste pagine: è il fumo di Satana penetrato nei
presbiteri, nei seminari, nei conventi, negli episcopii, nelle Congregazioni, in
Vaticano, a intorbidare e sviare; è lui, Satana, il grande Scaltro che «con
proditoria astuzia» (per dirlo ancora una volta con Paolo VI) lavora per sé
simulando di farlo ai propri danni, a pro del Nemico; che mira alla morte di Dio
ingegnandosi di far credere nella propria, nella sua non esistenza; che in nome di
Dio ne attacca la Madre come usurpatrice del culto che a lui solo si deve, come Colei
da cui «lo Spirito Santo fu oscurato, relegato all'ultimo posto e, quindi,
svalorizzato» (Suenens), e in nome dello Spirito Santo lancia una nuova religione
(i Pentecostali) a base di balli e amplessi e grida da forsennati, che avrà
in San Pietro, sulla tomba dell'Apostolo, la sua massima sagra; Satana, il «padre
della menzogna», l'«insidiatore sofistico», che predica, che inculca:
obbedite! all'intento di farci disobbedire, come dice per l'appunto un vescovo, che
vede in questo il massimo della sua abilità d'ingannatore, dopo ciò
che il Baudelaire chiamò «la plus belle ruse du Diable» (e si
è detto): «nous persuader qu'il n'existe pas».
«Il capolavoro, le coup magistral, di Satana», dice infatti monsignor
Lefèbvre*, «è l'esser riuscito a gettare
nella disobbedienza in nome, par la vertu, dell'obbedienza», e, dimostrato
con l'esempio come il consentire equivarrebbe a dissentir dalla legge, dalla Tradizione,
da Dio, conclude: «L'obbedienza, nel caso, dovrebbe essere un rifiuto categorico:
l'obeissance devrait étre un refus categorique, perché l'autorità,
anche legittima, non può comandarci un atto riprensibile, cattivo, perché
nessuno ha il diritto di farci diventare protestanti o modernisti».
O comunisti, aggiungiamo mentre il Papa aggiunge a quella del suo vicario la voce
propria chiedendo, come noi ci chiediamo: «perché dovremmo attingere
da altre infide sorgenti l'acqua sempre limpida e fresca che ancora ci elargiscono
le fontane del romano e cristiano umanesimo?» Una domanda, un'immagine che
ai «patiti», come noi, di quell'umanesimo ricorda per connessione un
altro celebre discorso di papa Paolo: quello sulle «torbide sorgenti»
a proposito di «riforma liturgica», di «culto comunitario»,
che minacciando la limpidezza, la genuinità, l'integrità del
nostro litare, avrebbe «fatalmente» portato a quella del credere, dato
il loro stretto connubio riaffermato dal Papa stesso, «cum prorsus oporteat
ut lex orandi cum lege credendi concordet», e confermato, al negativo, da quei
«cattolici democratici» d'ogni obbedienza che il Cardinale Vicario comprese
nel suo grande abbraccio di or fari due anni e che preferendo, per loro conto, l'acqua
del fognone marxista, gli abbaiano, ora, addosso, con tutti i botoli del laicismo
d'ogni pelo, perché si adopra a ostacolarne lo sbocco nel Tevere, a impedire,
in altre parole, che l'umanesimo romano e cristiano sia sopraffatto, in Roma, alle
sue sorgenti, dall'avvento della barbarie più inumana e anticristiana, quale
quella che confina in Siberia o chiude nei manicomi gl'intellettuali ribelli e impicca
i sacerdoti sorpresi a dir Messa.
A chi con tanta venerazione ricorda papa Giovanni mi sia permesso ricordare, parlando
di barbarie, che per lui barbarie era la guerra, barbarie l'oppressione di cui il
latino aveva potuto esser vittima, guerra tuttavia sempre vinta, oppressione da cui
era pur sempre risorto - «iacuit pluries, at rursus fioruit semper» -:
ciò che rafforza in noi la speranza che così sarà ancora e il
proposito di lavorare onde sia, rassegnati, se così sarà giocoforza,
se non si esaudirà in cielo il voto, O mihi tam longae maneat pars ultima
vitae! a non vedere coi nostri propri occhi il giorno o l'aurora, ma restando,
per chi verrà, in campo, memori del pur virgiliano Sic vos non vobis nidificatis,
aves; sic vos non vobis mellificatis, apes, o meglio dell'evangelico Alius
est qui seminat et alius est qui metit.
Fu in quest'animo, fu per quelli che verrano, che io scrissi, ed è in quest'animo
che ricordo, per i miei amici, quel mio articolo intitolato Resurget che parve
a molti il frutto di un sogno più che di una fondata speranza.
Risorgerà, vi dicevo, collegando alla sua lingua la Messa; risorgerà,
come rispondo ai tanti che vengono da me a sfogarsi (e lo fanno, a volte, piangendo),
e a chi mi chiede com'è che io ne sono certo, rispondo (da «poeta»,
se volete) conducendolo sulla mia terrazza e indicandogli il sole... Sarà
magari sera avanzata e là nella chiesa di San Domenico i frati, a Vespro,
canteranno: Iam sol recedit igneus; ma tra qualche ora gli stessi domenicani
miei amici canteranno, a Prima: Iam lucis orto sidere… e cosìsarà
tutti i giorni. Il sole, voglio dire, risorgerà, tornerà, dopo la notte,
a brillare, a rallegrar dal cielo la terra, perché... perché è
il sole e Dio ha disposto che cosìfosse a nostra vita e conforto. Così,
aggiungevo, è e sarà della Messa - la Messa «nostra», cattolica,
di sempre e di tutti: il nostro sole spirituale, così bello e santo e santificante
- contro l'illusione dei pipistrelli, stanati dalla Riforma, che la loro ora, l'ora
delle tenebre, non debba finire; e ricordo: su questa mia ampia terrazza eravamo
in molti, l'altr'anno, a guardar l'eclisse totale del sole; ricordo, e quasi mi par
di risentire, il senso di freddo, di tristezza e quasi di sgomento, a vedere, a sentir
l'aria incaliginarsi e addiacciarsi via via, ricordo il silenzio che si fece sulla
città, mentre le rondini, mentre gli uccelli scomparivano, impauriti, e ricomparivano
svolazzando nel cielo i ripugnanti chirotteri. A uno che disse, quando il sole fu
interamente coperto: - E se non si rivedesse più? - rammento che nessuno rispose,
quasi non si addicesse, in questo, lo scherzo... Il sole si rivide, infatti, il sole
risorse, dopo la breve diurna notte, bello come prima e, come ci parve, più
di prima, mentre l'aria si ripopolava di uccelli e i pipistrelli tornavano a rintanarsi.
Come prima, lucente e bello, e, pur essendo il medesimo, più di prima il sole
ci parve, per la legge leopardiana del piacer figlio d'affanno, o per quella
evangelica della dramma perduta e rinvenuta. Come prima e più di prima: così
sarà della Messa, così la Messa parrà ai nostri occhi, colpevoli
di non averla, avanti l'eclisse, degnamente stimata; ai nostri cuori colpevoli di
non averla abbastanza amata.
Così dicevo e ripeto, estendendo a tutta la liturgia ciò che allora
della Messa, la vittima prima, per eccellenza, della rivoluzione che cominciò
con l'inibirle la sua lingua e il suo canto per toglierle via via ogni amabilità,
ogni bellezza, con un succedersi indesinente di spogliazioni, di demolizioni, che
ricorda il pianto del profeta davanti alle rovine di Sion: tetendit funiculum
suum et non avertit manum suam a perditione.
Sfigurata, immiserita, depoetizzata, detta da preti senza «veste» ad
altari senza Tabernacolo, senza «pietra», senza croce, senza lumi, senza
fiori, con l'aiuto di donne senza decoro femminile, la Messa era almeno tuttora Messa,
tuttora sacrifizio e non «cena», immolazione e non «commemorazione»,
non cosa che gli eretici - come da loro dichiarato - possono accettare, far loro
restando «loro», e i cattolici domandarsi e discutere se sia o non sia
tuttora Messa. Le cose, da allora, sono andate e van peggiorando: l'abisso ha chiamato
e chiama con più forte voce l'abisso: il forno di Satana, penetrato dalla
«spianata» nella «rocca», ha raggiunto la cittadella l'«arce
sacra», avvolgendola - sua suprema astuzia - col dubbio, circa l'ortodossia
del Nuovo Ordine della Messa, più utile ai suoi fini di distruzione,
più pernicioso alla conservazione della fede, della patente eresia,
Dopo aver detto e dimostrato che la nuova messa è non eretica ma forse peggio,
«equivoca, flessibile in diversi sensi, flessibile a volontà, la volontà
individuale che diviene così la regola e la misura di ogni cosa», dichiara
infatti uno strenuo difensore della Messa che non suscita né suscitò
mai dubbi in chi nel corso di tanti secoli la celebrò e l'ascoltò,
il teologo sacerdote Raymond Dulac: «L'eresia formale e chiara è un
colpo di pugnale - l'equivoco è un lento veleno... L'eresia attacca un articolo
preciso del dogma - l'equivoco lede l'habitus stesso della fede e vulnera
così tutti i dogmi... Si diventa formalmente eretici solo volendolo - l'equivoco
può demolire la fede di un uomo a sua insaputa... L'eresia afferma quello
che nega il dogma o nega quello ch'esso afferma - l'equivoco distrugge la fede altrettanto
radicalmente astenendosi dall'affermare e dal negare, facendo della certezza rivelata
una libera opinione... L'eresia è ordinariamente un giudizio che contraddice
a un articolo di fede - l'equivoco resta al margine della fede, al margine, anche,
della ragione, della logica». Quanto dire che la nebbia è, per chi viaggia,
più pericolosa del buio, e a diradarla dal Novus Ordo, a toglierne
le «tante incertezze» già pur rilevate dal Papa, ci s'è
difatti adoprati, dietro le tante proteste, con correzioni che non hanno però
chiarito, non hanno sostanzialmente disperso il dubbio. «Questo rito»,
conclude infatti il Dulac, «continua a portare un peccato originale che nessuna
circoncisione sarà capace di sopprimere: il peccato di aver voluto fabbricare
una «messa passe-partout, atta ad essere celebrata da un cattolico come da
un protestante».
Recensendo su una rivista di là (Christian Order, aprile 1974) l'edizione
inglese di un mio sofferto scritto in materia (da lui significativamente definito
Grido del cuore) e risalendo agl'inizi della Riforma di cui il Novus Ordo
non è che l'ultimo portato, il padre gesuita Paul Crane si chiede, non diversamente
da ciò che Paolo VI lamentò ai suoi primi passi, se di «una nuova
liturgia» si possa parlare o non piuttosto di una «non-liturgia, dove
ognuno può far le cose più grottesche che vuole, mentre dappertutto
si ammucchiano intorno a noi le rovine della bellezza». Il martello, da allora,
non ha cessato, come si è detto, di demolire: «il processo», egli
aggiunge, «non si è arrestato: è apparso l'altro giorno un altro
decreto - opera senza dubbio dell'infaticabile Arcivescovo Bugnini - che, se ho ben
capito, permetterà presto all'iniziativa privata nella Chiesa di redigere
le proprie Preghiere Eucaristiche. E che», conclude, «costituirà,
a mio avviso, l'ultimo chiodo della bara della Messa che noi abbiamo conosciuto ed
amato nei secoli e per la quale morirono i nostri martiri: This will mean, as
I see il, the final nail in the coffin of the Mass, as we have known and loved il
over the centuries and lor which our martyrs died».
La bara - e rinunzieremo dunque a credere e a fare, piangendo senza speranza su ciò
che tanto amavamo? Così piangeva, dietro la bara, la vedovella naimita a cui
l'unico figlio era morto. Ma Gesù la vide e quelle lacrime lo commossero,
s'avvicinò, toccò la bara e il morto si levò a sedere; poi si
mise a parlare ed Egli lo restituì a sua madre.
Così Gesù - per il quale non ci son chiodi che tengano - restituirà
a sua Madre, la Chiesa, l'oggetto di tanto suo e nostro amore: la Messa, col suo
parlare, per la quale morirono i martiri... come quelli, inglesi, di cui Paolo VI
cingeva pur di recente il capo di aureola; come quelli, russi, albanesi, ungheresi,
ucraini, vietnamiti, cinesi... che la testimoniano ai nostri giorni ricevendone,
bianca o rossa la stola, coronas decoris de manu Dei.
*Il Casini scriveva queste cose prima che Mons. Lefebvre venisse
sospeso a divinis. L'amore di Tito Casini - sempre obbediente - per la Chiesa e per
l'autorità e assai distante dalle posizioni prese del presule francese negli
ultimi anni della sua vita (n.d.r.)