Il Concilio, di fatto, per quanto
il diavolo si sia ingegnato di metterci le corna e la coda, è stato fedele
a papa Giovanni, come papa Giovanni a tutti i suoi predecessori, e non è sua
colpa se la legislazione liturgica da esso emanata s'è risolta, attraverso
l'organo esecutivo (che avrebbe dovuto essere, e chissà perchè non
sia stato, la Congregazione dei Riti), in quello strumento di eversione che in nome
della pietà, dell'unità, della concordia, dell'arte, della poesia,
della bellezza, cattolici e non cattolici, credenti e non credenti detestano.
Tutt'altro che bandire il latino - come si crede comunemente da preti e da laici,
che parlano e parlano di riforma senza che nessuno abbia letto o visto pur da
lontano la Costituzione - il Concilio lo riconferma, come lingua del culto, in
termini chiari e lapidari come questi (Constitutio de Sacra Liturgia, articolo 36):
«LINGUAE LATINAE USUS IN RITIBUS LATINIS SERVETUR: L'uso del-la lingua latina,
nei riti latini, sia conservato». Punto fermo e a capo: REGOLA, dunque;
e il capoverso conferma logicamente la regola, ammettendo, «Cum tamen»,
la possibilità di limitate eccezioni. «Posto, tuttavia, che... non infrequentemente,
haud raro, l'uso della lingua volgare possa riuscire, exsistere possit,
assai utile per il popolo, è concesso ch'essa vi abbia parte, specialmente
nelle letture e nelle monizioni, in alcune preghiere e canti, in lectionibus et
admonitionibus, in nonnullis orationibus et cantibus...» Identica facoltà
(non obbligo e non raccomandazione, ma piuttosto ripetizione di limiti) all'articolo
3: «Nell'amministrazione dei Sacramenti è lecito usare, adhiberi
potest, la lingua volgare». «Posto che», «è concesso»,
«in alcune», «è lecito...» Eccezioni, ripeto, limitate
eccezioni, contro le quali sta sovrana e generale la regola: «L'uso della lingua
latina, nei riti latini, sia conservato», e domando, domandiamo noi cattolici
per i quali la Chiesa è ancora romana e non felsinea, come di cosi poco potete
si sia potuto far tanto abuso: tanto da invertire le cose, da far dell'eccezione
la regola e della regola non pur l'eccczione ma la proibizione, l'«escluso
per tutti», la Messa tollerata «quando il sacerdote la dicesse senza
assistenza di popolo», quando «non assistono i Fedeli» ma solo,
dunque, le panche.
È vero che una «Instructio ad exsecutionem Constitutionis de sacra Liturgia
recte ordinandam» (roba vostra, non del Concilio, e nella quale il recte
va inteso esattamente all'opposto, come instructio vale destructio)
vi dava modo di eluder la regola, ossia di ridurre ancora il detestato latino allargando
la liceità del volgare a quasi tutta la Messa, ma anche per questo avevate
stabilito voi stesso una condizione, ossia che si tenesse conto dei luoghi, «pro
condicione locorum», e si pensava, che so io? agli ottentotti, ai mau-mau,
agli zulù, agli scotennatori di teste, a tutto si pensava fuor che alla terra
di Cicerone e di Virgilio, al paese dove «parlar latino» è ancora
detto, popolarmente, per «parlar chiaro». Al contrario, mentre laggiù
i missionari, come c'informano, mantengono - necessariamente data anche la quantità
dei dialetti e l'impossibilità di esprimere coi loro vocaboli certi concetti
- la liturgia latina, a noi s'impone il volgare, negandoci, la possibilità
di capire, di arrivare a capire, con l'istruzione, fin le parole del segno di croce.
Con l'istruzione, dico, e qui mi torna a mente un prete, vostro devoto, che
si rallegrava, beffandosi di me su un giornaletto toscano, che ora, col volgare,
i suoi parrocchiani non avrebbero più detto, nella recita del Confiteor, «mea
curpa», il che non è poco. Certo che ora, se seguitano a venire in chiesa,
diranno «mia corpa», io riconosco che il guadagno valeva bene un Concilio;
ma il bravo priore si scordava che tra i doveri di un parroco c'era anche quello
d'insegnare, di correggere, di fare il catechismo, e questo fin dal Concilio di Trento,
il quale, riaffermata l'intransigenza della Chiesa circa il latino, aggiungeva appunto
che i parroci avevano il dovere d'istruire i loro fedeli sulla liturgia della Messa,
«specie la domenica e nei giorni di festa». Così facevano i «vecchi
preti» e vi assicuro, Eminenza, che il frutto era grande, nonostante il «diaframma»
e pur senza gli amboni elettronici... Quanto al «mea curpa», dedico al
curato toscano queste parole del curato tedesco Schachtner che trovo in una rivista
di là, il Klerusblatt: «In questa nostra epoca in cui ogni "reporter"
sportivo presuppone che i suoi uditori comprendano una quantità di termini
tecnici, possiamo anche noi pretendere dai nostri fedeli, già così
aperti, una certa conoscenza della lingua latina», e se lo dice lui, un tedesco,
per i tedeschi... Scommetto che i contadini popolani del mio bravo priore sanno benissimo
cosa significhino parole come «boxe», «ring», «derby»,
«match», «sprint», «forcing», «goo-kart»,
«juke box» e tant'altre... e gli parrà di esiger troppo se chiederà
che sappiamo anche - loro, italiani! - che cosa significhino «Confiteor»,
«Gloria», «Credo», «Sanctus», «Pater noster»
et caetera et caetera? Eh, via! s'intende stimarci ciuchi e trattarci a paglia, ma
voi state esagerando e chissà che un giorno o l'altro l'odor del prato (risvegliato
da voi stessi con quelle poche paroline, qua e là, solo per voi e ancora «da
signori») non ci faccia strappar la corda e scappare... So quel che
dico, Eminenza: voi non potete basarvi troppo alla lunga su un'obbedienza come quella
del contadino che mi diceva, subito dopo il 7 marzo: «A me, per verità,
la Messa la mi garbava più come prima, ma in chiesa comanda il prete e io
fo come il prete vuole: se vuol che balli, magari, io ballo, se vuole che fischi
io fischio, se vuol che canti Celentano io canto...»
L'ho rivisto, quel contadino, già mio compagno di coro in una parrocchia di
campagna, e c'è rientrato e, con tutt'altro tono, mi ha detto: «Mah!
se questa, ora, è la volontà di chi ci comanda... Però... com'eran
belle quelle nostre Messe cantate!»