Era la prima domenica
di Quaresima e - domenica Laetare per voi - fu per me, come per moltissimi
altri, domenica di passione. Pensavo di fatto alla Passione (di Lui, e Lo vedo, ora,
nell'immagine contro cui l'operaio non osò levare il piccone); pensavo a quel
tratto del Vangelo di san Giovanni a cui la Chiesa, nei secoli, ha attribuito o meglio
riconosciuto, sempre, tanto valore simbolico: «I soldati, poi, crocifisso Gesù,
ne presero e si spartirono gli abiti, tra cui la tunica. La tunica era per altro
inconsutile, tessuta tutta d'un pezzo, onde quelli dissero: - Non la stracciamo:
tiriamo piuttosto a sorte a chi tocchi -. E così fecero, cosi adempiendo la
Scrittura». Ebbene? Ebbene... dite pure che fu la febbre, Eminenza, o che la
veste, intera o in pezzi, è comunque solo una veste, ma quel giorno io vidi
voi, e tale siete rimasto nella mia mente, in atto di fare, sulla tunica inconsutile
e insanguinata di Gesù, ciò che i soldati non osarono, ciò che
nessuno aveva mai osato in ciò ch'essa significava. Vi vidi, e vi vedo, stracciarla,
quell'una veste, figura e vincolo dell'unità dei credenti in Cristo, passati-presenti-futuri,
farla a pezzi, a brandelli, con una foga avente si direbbe dell'odio più che
del confessato da voi disprezzo, che fa pensar davvero a un delirio, ma in voi e
nei vostri, Eminenza!
Un anno e più è trascorso, infatti, dall'inizio di quella vostra Riforma
(un anno e mezzo durante il quale la furia di frammentare e distruggere s'è
fatta, per dirlo con Paolo VI, addirittura «capogiro»: i protestanti
non sono arrivati a tanto nei loro più che quattrocent'anni) e noi stentiamo
ancora a credere che sia stato possibile. Incredibile, è la parola; e ci chiediamo,
Eminenza, che cosa diranno di questo vostro 7 marzo coloro «che questo tempo
chiameranno antico»: voglia Dio - come speriamo - non tanto antico che non
possiate sopravvivervi, in questo, come si sopravvisse, condannato e ravvisto, il
vostro confratello e precursore di Pistoia. Diranno... si rida pure di me che ancora
credo in queste cose... diranno che non per nulla si tolse al diavolo catena e collare,
abolendo preci che un grande papa, Leone XIII, e un altro ugualmente grande, Pio
XII, e uno grande del pari, Giovanni XXIII, avevan prescritto e riprescritto alla
Chiesa e conservato gelosamente contro i conati sovvertitori di Satana. Certo è
che, per sovvertire, l'ottima regola è dividere - Divide et impera:
l'opposto dell'Unum sint - e a questo tende, a questo porta, Eminenza, la
vostra Riforma, per altra che sia, e chi vorrebbe dubitarne? la vostra personale
intenzione.
Da qui il giubilo dell'Antichiesa, quel 7 marzo. Se non abbiamo sentito che in fantasia
ghignar Lutero dal suo monumento a Worms - a cui cattolici del «dialogo»
ban di recente portato fiori - e mandarvi il suo grazie, abbiamo ben sentito, noi
in persona, i nostri massoni rallegrarsi, in quei giorni: rallegrarsi come di una
impensabile grossa vittoria graziosamente loro donata dal nemico stesso, la Chiesa,
a coronamento di una lunga loro battaglia, condotta da poco anche in parlamento,
contro una lingua che aveva, fra mille fulgidi pregi, un solo ai loro occhi difetto:
d'esser la lingua della Chiesa, della sua unità, della sua cattolicità,
della sua preghiera.
La storia insegna, fin dai primordi del mondo, che cosa sia, agli effetti dell'unità
in ogni senso, l'unità della lingua. «La terra», nota la Genesi,
«era tutta d'una sola lingua e d'una sola parlata», ed era la pace. La
discordia fu e si chiamò Babele, «perchè ivi fu confuso il parlare
di tutti gli uomini», e furon le guerre. La Chiesa, «una di lingua»,
nella sua universalità, come «d'altare», fu perciò sempre
vista dai popoli - e oggi più che mai, più che mai oggi stanchi di
guerreggiarsi, più che mai anelanti all'unione, anelanti alla pace - come
l'Antibabele, riconoscendosi da tutti nella sua lingua il cemento dell'unità
da lei posseduta, da tutti auspicata. «Ex omni gente magnum vinculum unitatis:
vincolo mirabile di unità fra tutte le genti». È Pio XI che così
chiama il latino, riprendendo dai suoi antecessori un motivo che passerà ai
suoi successori, tutti ugualmente gelosi di conservarlo alla Chiesa e per essa al
mondo. «La Chiesa, infatti,» egli dice, «come colei che abbraccia
tutte le genti, e durerà fino alla consumazione dei secoli, necessita per
sua natura di una lingua UNIVERSALE, IMMUTABILE, NON VOLGARE: ... sermonem suapte
natura requirit universalem, immutabilem, non vulgarem»: il latino, appunto,
questa lingua, è lo stesso papa che parla, «densa, ricca, armoniosa,
ridondante di maestà e dignità»; questa lingua «che a buon
conto possiamo chiamar cattolica: dicere catholicam vere possumus»:
parole che un altro papa ha fatto sue, aggiungendovi, al riguardo, quest'altre: «vincolo
prestantissimo mediante il quale l'età presente della Chiesa mirabilmente
si allaccia alle passate e future: vinculum peridoneum, quo praesens Ecclesiae
aetas cum superioribus cumque futuris mirifice continetur».
Lingua, dunque, provvidenziale («lingua di Dio», si direbbe, come altri
l'ha pur detta: «lingua qua locutus est Deus»), nello stretto senso del
termine. Lo afferma espressamente lo stesso Pio XI, chiamando ancora il parlar del
Lazio un genere di loquela «mirabilmente predestinato, mire comparatum»
a servir la Chiesa, predestinata a sedere in Roma, «sede perciò dell'Impero,
a questo similmente voluto: ad quem ipsa Imperii sedes tamquam hereditate pervenerit»,
ed è il pensiero di Dante, troppo noto perché se ne ripetano i versi.