Se fra cent'anni
o assai meno io non fossi molto presumibilmente un Carneade, che neanche il meno
incolto curato o il più patito bibliomane, incontrando a caso il mio nome
in un libro di una qualche libreria dispersa su per i muriccioli, non dovesser
dir: «Chi era costui?» potrebbe accadermi d'esser nominato fra quelli
che negli anni famosi si batterono per il volgare contro il latino.
Risum teneatis, amici, e anche voi, «nemici», che mi conoscete
per quei tali miei libretti o «libelli»? Dico così vedendo come
ciò sia accaduto e accada a gente di ben altra, statura: campioni della lingua
«cattolica», contro il «vernacolo», appetto ai quali io non
son che un piccolo Renzo che pensando a un prossimo «coniungo vos» con
cui i promessi diventeran finalmente sposi, esclama: «quello è un latino
sincero, sacrosanto, come quel della Messa». E accaduto infatti a
un Giovanni XXIII, il Papa della Veterum Sapientia, che perdeva la sua ben
nota pazienza solo a toccargli quel tasto del latino da sfrattare di chiesa; ed è
accaduto, accade ancora, al Rosmini, l'autore delle Cinque piaghe, che considerava
piaga l'ignoranza del latino liturgico da parte dei fedeli cattolici e l'incuranza
del clero di ammaestrarli (anticipando, è vero, il Concilio: proprio quel
Concilio Vati cano II che ha imposto al clero dnsegnare ai fedeli a dire
e cantar la Messa, tutta la Messa, in latino). Il che, se non è onesto,
è spiegabile, come mezzo per raggiungere il fine, considerata l'ignoranza
asinina della «massa» sul cui supposto i luterini e i luteruzzi moderni
si fondano ovver si siedono per predicare con gli argomenti del vecchio la loro crociata
contro il «Cristo romano».
La Veterum Sapientia a ogni buon conto è sparita, si è fatta
sparir dalle librerie dei cattolici; e quanto alle Cinque piaghe si sa che
quelle, sostanza e forma, non son fave per il «popolo», per cui possiam
dargli a credere che il Rosmini fu un antilatinista, un «precursore della riforma
liturgica», sicuri che il somaro non andrà a metterci dentro le froge
per accertarsene de odoratu.
C'è stato bene, tra i patiti del volgare, qualcun che ha detto: no, il Rosmini
fu un difensore del latino, e alludo qui in particolare al settimanale cattolico
(quantum mutatus ab illo, dacchè l'ombreggiano certi gallici allori!)
Famiglia Cristiana, però aggiungendo che lo era stato «a causa
dei tempi che correvano», ossia per opportunismo, e domando io se, a parte
la ben nota virtù dell'uomo così giudicato, sia questo un bel modo
di ragionare, ossia d'infirmar le testimonianze che ci dan noia.
C'è stato invece chi, senza dubitar della sua indubitabile dirittura morale,
se l'è cavata dicendo che «in questo», ossia nell'attaccamento
al latino, Rosmini era un arretrato, era, cioè, «figlio del suo secolo»,
e questi è, letteralmente citato, il mio amico-nemico padre Fabbretti.
Il padre Nazareno Fabbretti (che bel nome! Tacita un giorno a non so qual pendice
‚Äë salia d'un fabbro nazaren la sposa..) mi diè di
pialla, sulla Domenica del Corriere, per il primo di quei miei libriccioli,
e sullo stesso settimanale mi bulina ora per il secondo, prendendo occasione dalla
Cacciata del Latino che anche per lui ma anche per noi, come il Sacco di Roma) è
una data storica... Al pari del duce egli sottolinea le resistenze che si son dovute
travolgere per giungere a piantar la bandiera sulle macerie dell'«ultimo baluardo»
di Roma, e mi fa l'onore di pormi fra i più tenaci suoi difensori, simile,
direbbe forse se non fosse latino, all'eroe oraziano che d'ogni cosa incurante (compresa
la fulminantis magna manus Iovis) resta e, si fractus illabatur orbis,
impavidum ferient ruinae. «Non sono mancate le polemiche», dice
quasi tergendosi anche lui il sudore. «Tito Casini, lo scrittore toscano che
pubblicò a suo tempo un libello intollerante contro Lercaro e 'la riforma
liturgica, è stato puntuale, anche questa volta, con un secondo opuscolo,
Dicebamus hen, che ribadisce le contestazioni del primo, La Tunica stracciata...»
Da «libello» a «opuscolo» c'è per vero un miglioramento,
nel giudizio che mi condanna quale avversario della sacrosanta Riforma; e non crediate
che 'l'articolo manchi di cortesia a mio riguardo. Al contrario esso ne ridonda,
dandomi perfino, e col rinforzo di un «purtroppo», un tantinel di ragione:
«Casini e i latinisti hanno torto a rimpiangere il latino liturgico, ma, purtroppo,
hanno ragione a denunziare traduzioni indegne di una grande liturgia come la cattolica...»
Già lo aveva detto su un altro giornale ‚Äë parlando di «bruttezza
inammissibile dei testi liturgici» ‚Äë e qui sembra rincari la dose,
non so con 'quanto rispetto per padre Annibale, l'Annibal Barca e insieme l'Annibal
Caro della Riforma, che aveva tutt'al più ammesso una «non sempre felice
traduzione dei testi». Sentite Fabbretti: «Le traduzioni attuali sono
certamente le peggiori, le più barbare che si possa immaginare; ed anche,
di fatto, le più incomprensibili per la media dei cattolici italiani».
E prosegue, dopo aver così fatto intendere come il povero «popolo»,
il somaro, sia stato buggerato nel suo prurito di «capire»: «Che
tali testi fossero incomprensibili in latino era doloroso ma comprensibile. E assurdo
invece che adesso risultino spesso incomprensibili proprio in italiano». Il
che è vero, talmente vero che il testo latino occorre spesso (e a questo servono
ora più che mai i messalini bilingui) proprio per interpretar l'italiano.
Cortese oltre ogni immaginare, Fabbretti arriva a dir che nemmeno il Canone sfugge
alla legge della bruttezza (nonostante, poteva aggiunger, l'infedeltà) e chiede:
«Perchè si fanno così in fretta cose tanto importanti?»
Come se la cecità dei gattini fosse veramente dovuta alla fretta materna di
generarli, o come se lo stesso Bugnini non avesse lodato la creatura italiana, data
alla luce con un lungo lavoro di specialisti, come bella e la più bella di
tutte (figuriamoci l'altre!) così presentandoci la neonata: «Fra tutte
le versioni si distingue per fedeltà e integralità la versione italiana:
i nostri periti, liturgisti, teologi e letterati, scelti tra i più competenti
e stimati, hanno lavorato, sotto la guida della Commissione episcopale per la Sacra
Liturgia, con intelligenza, con amore. Con tanto amore. Il testo scorre fluido. E
esatto. E robusto...»
E tale, insomma, che il padre perde la testa, nel suo entusiasmo, al punto di
lasciarsi sfuggire due parole latine: «Resta da vedere se dopo un congruo
periodo di pratica la ratio pastoralis...» Gli perdoniamo, e perchè
si rifaccia la bocca gli porgo calda calda una strofetta, l'ultima dell'Adoro
Te devote, che ho sentito dianzi in chiesa nel suo volgare: «Gesù
che or velato contempliamo, ‚Äë quel che l'anima anela deh concedi, ‚Äë
che tu senza velo mostri il Tuo fulgor ‚Äë nell'eterna gioia, nell'eterno
amor».
Amen e torniamo al nostro Fabbretti, il quale, sincero o meno che sia nel dir corna
di tali testi, li accetta e li preferisce pur nondimeno, convinto che bestemmiare
in volgare («Corpo di Cristo», «per Dio santo» e simili)
sia meglio che pregare in latino, e mi si lasci ricordare, a questo proposito, ciò
che scriveva or è poco Carlo Laurenzi sul Corriere della Sera: «Un
poeta spagnolo definì il volgare l'idioma in cui Cristo è bestemmiato,
quindi crocifisso; il latino, allora, è la lingua che lo riconsacra. Il latino
è la lingua della Grazia, il volgare la lingua della concupiscenza»,
e tante e tante altre cose, in proposito, che non si sa se ringraziar Dio che ci
sia almeno tra loro, i «laici», chi le dice, o pigliarsela coi nostri
frati e preti, e fermiamoci qui, che le lasciano dire a loro magari beffandoli.
Tra i quali sicuramente il mio caro fra Nazareno, dal quale io non intendo difendermi,
che sarebbe uno sprecar tempo e inchiostro (come ho scritto in prefazione all'opuscolo)
ma difendere un saggio e santo quale il Rosmini dal merito di aver bestemmiato, come
il Fabbretti asserisce ora (dopo avere, come s'è visto, asserito il contrario)
scrivendo: «Più di cento anni fa, Rosmini auspicava la lingua del popolo
nei riti liturgici, e il libro fu messo all'indice. Quattrocento anni fa Lutero reclamava
la stessa cosa e anche per questo Lutero fu scomunicato. Si è dovuto aspettare
il Concilio per capire e ammettere che Lutero e Rosmini», (il Roveretano perdoni
l'ingiuria, perdoni l'accostamento!) «in questo avevano ragione» (altra
solennissima bomba, questa del Concilio che «in questo» dà ragione
a Lutero, come si è più che dimostrato). La parola, dunque, al Rosmini
stesso, e peggio per me che sembrerò, in quei miei due libretti, non aver
fatto altro che plagiarlo o tutt'al più svolgerne il pensiero. Scusatemi,
ma mi è parso proprio ch'egli me lo chiedesse, insieme a papa Giovanni, facendo
sua l'invocazione del salmista, allo stesso fine della gloria di Dio.
Passando dalla diagnosi della «piaga» da lui esaminata, ossia «l'esser
cessata nel popolo l'intelligenza della lingua latina», all'indicazion della
cura, egli condanna per prima cosa quella che oggi, in buona o in mala fede, gli
si vorrebbe attribuire: «E alieno dall'animo nostro il pensiero che la sacra
liturgia si convenga tradurre nelle lingue volgari», e subito si rifà
dalla storia per dimostrar quale e quanto errore sarebbe questo: «Non solo
la Chiesa Latina, ma la Greca e le Orientali ritennero costantemente le Liturgie
nelle lingue antiche in cui furono scrite, e una divina sapienza assiste»
(pur in questo) «la Chiesa Cattolica... Volendo ridurre i Sacri Riti
nelle lingue volgari si andrebbe incontro a maggiori incomodi, e si approverebbe
un rimedio peggiore del male...» Se questo è un auspicar la lingua
del popolo, se questo è un dar ragione a Lutero, io non so proprio
cosa mi dire. Tiriamo avanti: «i vantaggi che si hanno conservando le lingue
antiche sono principalmente: il rappresentare che fanno le antiche Liturgie l'immutabilità
della fede; l'unire molti popoli cristiani in un solo rito, con un medesimo linguaggio,
facendo loro così sentire viemmeglio l'unità e la grandezza della Chiesa
e la comune loro fratellanza; l'avere qualche cosa di venerabile e di misterioso
una lingua antica e sacra quasi linguaggio sovrumano e celeste, onde presso gli stessi
gentili divennero sacre e divine le lingue antiche costantemente mantenute nelle
religiose cerimonie e solenni preghiere; l'infondersi un cotal sentimento di fiducia
in chi sa di pregare Iddio colle stesse parole, colle quali il pregarono per tanti
secoli innumerevoli santi e padri nostri in Cristo; l'essere le antiche lingue oggimai
conformate per opera dei Santi ad esprimere convenientemente tutti i divini misteri...»
Passati così in rassegna i vantaggi della conservazion del latino, Rosmini
prospetta alcuni dei principali svantaggi che verrebbero dalla sua ipotetica abolizione,
e noi, per i quali l'incredibile ipotesi è realtà, noi che vediamo
preti e frati condannare e insultare a gara la Chiesa per averlo conservato fin qui,
noi che vediamo coi nostri occhi quello che accade intorno a noi nella disciplina,
nel domma, nella morale, noi possiamo dire che il pio asceta fu esatto profeta: «Gl'incomodi
poi che s'incontrerebbero in riducendo la Liturgia e le preghiere della Chiesa nelle
lingue moderne, oltre la perdita dei vantaggi sovraccennati, principalmente sono:
innumerevoli lingue moderne vi hanno, quindi oltre tentarsi un'opera immensa, si
introdurrebbe grandissima divisione nel popolo, diminuendo quell'unità
e concordia che noi tanto desideriamo,e intendiamo inculcare... Le lingue moderne
sono variabili ed instabili, perciò si presenterebbe in appresso un perpetuo
cangiamento nelle cose sacre, il cui carattere è la stabilità. Non
potendosi tanti cangiamenti continuamente ed a sufficienza ponderare, essi metterebbero
in pericolo la stessa fede. Il popolo, gelosissimo dell'uniformità e
stabilità del culto sacro a cui fu avvezzo da fanciullo, s'adombrerebbe del
cangiamento, e gli parrebbe col cangiar della lingua gli fosse cangiata la religione...»
Profeta, come si vede, e il non esser stato ascoltato accresce la responsabilità
di chi ha voluto o permesso che, di cangiamento in cangiamento, di degenerazione
in degenerazione, nella Chiesa si arrivasse oggi a trattar di «morte di Dio»,
che studenti «cattolici» di una università «cattolica»
rivendicassero a loro onore il fatto, attribuito a marxisti, di aver tolto dalle
loro aule il crocifisso, altri la «iniziativa della violenza» (non esclusa
l'uccisione), approvati da sacerdoti, loro «assistenti», nell'intenzione
non certo ma nella scia di un arcivescovo di una regione rossa che, in contrasto
coi confratelli, dice ai suoi diocesani di votare a loro talento, senza scrupoli
per gl'interessi della fede.
Tu non pensavi ch'io loico fossi, e neanche il monsignor Baldassarri pensava
forse che si potesse arrivare a tanto, allorché, fa un anno, nella grande
assemblea dei Vescovi a Roma, attaccava con tanta foga l'autor di un libretto che
vedeva nella scissione linguistica della Chiesa una e cattolica il principio e l'avvio
di tante, di tutte l'altre scissioni.
Il Rosmini sì che lo pensava, e perchè questo non avvenisse sosteneva
con tanto ardore il latino, confidando nel «Clero»: cattivo
profeta, in questo, nè tanto io mi riferisco a quei preti (come ne ho sentito
uno, all'altare) che rinfacciano, per ignoranza, alla Chiesa di avere fin qui costretto
i fedeli a pregare «in ostrògoto», quanto ai Fabbretti e compari
che bestemmiano ciò che non ignorano, e ai quali io dico, concludendo,
una sola cosa: siate almeno onesti: non calunniate papa Giovanni, non calunniate
Rosmini.
(Maggio 1968)