Come al sacerdote il suo
calice, tu sei cara a me, o mia corona — strumento benedetto di una preghiera che
rinnova nella memoria ciò che il calice serve a rinnovar di fatto sopra l'altare.
Tu sei il calice d'ogni mia sera, che mi ritorni e prepari l'anima alle dolcezze
del calice mattutino. Sei il presidio delle mie notti; la guardia a cui rimane affidata
la consegna di Compieta:
Procul recedant somnia
Et noctium phantasmata
Hostemque nostrum comprime…
Tutta la vita è una notte: una notte piena di pericoli, d'incubi, di fantasmi
ingannevoli, corsa da un «leone» la cui fame, fame di anime, non è
mai sazia. E tu sei l'arma, l'unica arma, che mi accompagni fra le tenebre di questa
notte ch'è il vivere, per poi restare fra le mie mani nella notte del mio
sepolcro. In casa o fuori, da fermo o in viaggio, nell'ozio o nella fatica, nell'allégrezza
o nella tristezza, io non so stare senza di te, che non sei mai stata senza di me,
che m'hai seguito in ogni vicenda, mia allegrezza nella tristezza, mio riposo nella
fatica, mia quiete nel viaggio, mia casa nella lontananza. (E quante volte nella
lontananza più dura, più deserta di speranza. più diversa dal
vivere necessariamente tralasciato — la lontananza della guerra — la pace della casa
nell'ora più casalinga, la visione della famiglia, presso il fuoco, intenta
a pregare, ha improvvisamente riconfortato e rinfrancato il mio cuore al solo ritrovarti
entro le mie vesti, al solo risentirti premere contro il fianco aderente alla terra,
quando le mani, protese dirimpetto ad altri uomini, pur fratelli di fede, erano intente
a tutt'altro ufficio che la fraterna preghiera!)
Tu mi hai portato, più ch'io non abbia portato te. Tu m'hai condotto per l'erte,
tu m'hai ritirato dai precipizi, forte come la più forte catena, tirata da
una mano a me invisibile — forse la fede delle generazioni che dissero il Rosario
prima di me e che attraverso il Rosario, dal purgatorio o dal paradiso, si ricongiungono
a me. A te ho affidato tutti i miei bisogni; la mia Vita è scorsa sopra i
tuoi grani, varia e alterna come i misteri di cui vi si succede la meditazione tu
m'hai insegnato, componendo i miei casi coi casi divini, a far sì che i miei
gaudi non trapassassero in frenesia, i miei. Dolori in disperazione, le mie «glorie»
in superbia.
Tu, la più umile delle mie cose, sei stata, la mia più vera ricchezza,
e sarai l'unica che non mi lascerà, l'unica che verrà con me, sottoterra,
quando tutte l'altre mi lasceranno e due braccia di terra in prestito saranno tutto
il mio mondo.
Altri ti avvolgerà alle mie mani, t'inserirà fra le mie dita quando
l'ultimo gelo agghiadirà il mio corpo, impietrirà le mie congiunture.
Così, con te e te soltanto, di quant'ebbi in lì, scenderò nella
tomba, giacerò con quelli che dissero come me, prima di me o insieme a me,
il Rosario. E mi parrà di dirlo ancora, con essi, di ripassar con essi i misteri
della vita, della morte e della risurrezione, mentre il tempo avvicenderà
le sue stagioni sopra di me, prendendo ogni giorno più del mio corpo per ritornarlo
nella polvere che fu prima d'esser mio corpo.
Tu legherai ancora le mie falangi quando, le mie carni saranno fieno sopra lo spazio
ristrettito su cui una croce porterà forse ancora qualche sillaba del mio
nome: e io seguiterò a dirlo, il Rosario, a misurar sui misteri il tempo che
non potrò più misurare a giri di sole, mentre il gran pellegrino continuerà
il suo viaggio.
Così possa trovarmi l'angelo che dirà al tempo: basta — e tornerà
il fieno in carne per chiamarla al giudizio! Cosi possa trovarmi, e così ammanettato,
legato fra le tue ritorte, tradurmi al gran tribunale!
Così, e io non avrò da temere, avendo nelle mani la mia difesa in te
la mia avvocatura: il memoriale eloquente di ciò che Dio fece perché
io non fossi dannato.
Così, e la corona della mia vita, la corona della mia morte, diverrà
la corona della mia eternità.
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