Una voce, torniamo
a dire, la quale non è che la traduzione liturgica, orante, dell'Unum sint;
e l'essersi, di proposito, senza una ragione e contro ogni ragione, stracciata
questa sacrosanta unità è il segno più evidente che la divina
Colomba non aleggiava sul Consilium, tra il fumo delle sigarette e le facezie
e le risate a spese dei «sentimentali a corto metraggio». Un altro spirito,
quello che ha per fine il dividere e cominciò in cielo, fra gli angeli consorti,
l'opera sua, aleggiava (per poco non verrebbe da dire, guardando i fatti e dimenticando,
Dio ce ne guardi, le intenzioni!) sull'assemblea intenta a rediger gli articoli di
questo ultimo elaborato che divide la Chiesa Cattolica, unica, in tante «Chiese
locali» quante le regioni o le diocesi, facendo d'ogni vescovo un papa con
facoltà insindacabili - «l'autorità territoriale può stabilire...»
- che permette loro d'imporre ciò che pochi passi più in là
si vieta, vietar ciò che là s'impone; e al modo dei vescovi fanno ormai
i preti: papi, anch'essi, nell'àmbito della loro parrocchia, arcigni e pronti
alla scomunica, al rifiuto con disprezzo di ciò che il Vescovo o il Papa faccia
o comandi di diverso. Gli «adhiberi potest», i «permittitur»,
i «licet», i «pro opportunitate» che autorizzano vescovi
e preti a ordinare e a far come ognun vuole, si alternano quasi in ogni articolo
agli «omittitur», ai comandi - comandi, questi, per tutti - di non baciar
più l'altare, di non piegar più il ginocchio o la fronte, di non benedir
più, di non più segnarsi, di non far più atti d'amore verso
i Santi o il Santo dei Santi.
Accade, così, che il cattolico, che un tempo viaggiò da continente
a continente ritrovando in ogni chiesa la propria chiesa nell'identità della
lingua, delle vesti, dei riti della comune Madre Chiesa (ed era una commozione che
ti prendeva alla gola), ora non ne trova due nel suo stesso paese, nella sua stessa
città, dove gli sia concesso pregare allo stesso modo, e se là un sacerdote
gli consente o gli fa cenno d'inginocchiarsi per ricever Colui dinanzi al Quale è
detto che «ogni ginocchio si pieghi» (e così, positis genibus,
stette Gesù dinanzi al Padre), qua un altro gli comanda, magari con la
punta del piede, d'alzarsi, o gli rifiuta la Comunione. Parliamo per esperienza e
ci chiediamo se ogni chiesa non abbia un suo proprio Dio, differente dagli altri
come le fogge degli abiti dei suoi o dei loro ministri. Quanto al suo Vicario, l'abbian
già detto, ognuno si considera tale: un prete a cui facevamo osservare che
il Papa vuole le comunioni in ginocchio, e s'era pur visto in Duomo la notte famosa,
ci rispondeva, con una spallucciata: «Il Papa faccia come gli piace: nella
mia chiesa comando io». Il Papa stesso, è pur vero, non può esigere
che si faccia, almeno in questo, come a lui piace, perchè il
disposto del Consilium è, anche in questo, contro l'unità per
la libera scelta, il libero esame, il come a ognun piace: «La comunione può
essere ricevuta dai fedeli sia in ginocchio sia in piedi. Si scelga l'un modo o l'altro
secondo le norme stabilite dalla Conferenza Episcopale».
Si capisce che la prima è tollerata (e gli eccellentissimi vescovi dovrebbero
dirci perchè davanti a loro, nella Messa, dobbiamo piegare il ginocchio)
mentre l'altra, quella che al Papa non piace, è raccomandata, non fosse che
come più sbrigativa - «Corpo di Cristo» e via! - e come a quelli
si dice di non star lì a ringraziare, di «non fare alcun altro segno
di riverenza» dopo ricevuto il Sacramento, a questi si consiglia di farlo,
dove e quando credono, «avanti di riceverlo», ante susceptionem,
loco et tempore opportuno, per non ostacolare la marcia: ne accessus et recessus
fidelium perturbetur.
Non tollerato nè raccomandato ma prescritto sembra ormai (s'ignora in forza
di che legge ecclesiastica) il celebrare faccia al popolo, versus populum: una
novità, dobbiamo riconoscerlo, logica, per quanto ostica a noi «conservatori»
che vedevamo con gli occhi il primato di Pietro pur nel fatto che LUI SOLO,
il Papa, come Gesù sulla croce - et stabat populus spectans - offriva
il suo sacrifizio al cospetto di tutti... Logico, «loico», dacchè
ogni prete - lasciando a Lui la croce - si considera papa; e per cui, subendo di
malavoglia, dove non sembra evitabile, la Sua presenza sull'altare, ci si preoccupa
che questa, di Dio, non impacci, non pregiudichi quella del ministro: «È
lecito celebrare la Messa rivolti verso il popolo anche in un altare sul quale ci
sia il tabernacolo, di piccole dimensioni: tabernaculum parvum quidem...»
Come a dire un «mini-tabernacolo», da cui emerga, senza troppo frequenti
ecclissi, o genuflessioni, il viso dell'uomo. Illum oportet crescere me autem
minui: bisogna ch'egli cresca e io sia abbassato: illum, l'uomo; me,
Dio.
L'uomo! È il dio di quest'ora, preapocalittica, che si è pur data,
lassù nel Nord, il suo nome: Hominismus.
Ora grave, ora buia per la Chiesa, non tanto per l'opera in sè dei «figli
di questo secolo» quanto per la cooperazione dei «figli della luce»,
che dialogano con quelli rispondendo sì all'Apostolo che nega, che
chiede quale comunanza sia mai possibile: quae societas lucis ad tenebras? rispondendo
no al suo invito: exite de medio eorum et separamini! Scriviamo questo mentre
a Roma si svolge il Sinodo dei Vescovi e quanto essi ci rivelano, quanto delle loro
ansie ci è concesso conoscere sembra si possa esprimere con le parole del
salmo: Salvum me fac, Domine, quoniam defecit sanctus, quoniam diminutae sunt
veritates a filiis hominum! Uno tra i più autorevoli del consesso, il
cardinale Browne, ha dimostrato questa «diminuzione delle verità»
operatasi, per la «defezione del santo», dai «figli degli uomini»,
con una lunga enumerazione di dommi esclusi dal «deposito della fede»
o messi in dubbio, «demitizzati», «simbolizzati», che vanno
dal peccato originale alla verginità della Vergine, alla risurrezione di Cristo,
al Giudizio, alla Vita eterna, a tutti, per poco non si può dire, gli articoli
del Credo, per altre «verità», altri dommi «che sembrano
aprire all'ateismo le porte stesse del cristianesimo».
Quando in quel mio libricciolo io parlavo di «termiti nelle travature della
Chiesa: termiti laicistiche, modernistiche, marxistiche, protestantiche», io
non pensavo che le rovine sarebbero state così prossime e tali, che così
presto e fragorosi si sarebbero sentiti gli schianti; non mi aspettavo che con le
stesse parole con cui intitolavo il libro, lo stesso cardinal Browne avrebbe dopo
meno di un anno rappresentato il disastro in esso previsto: «dilaceratio communitatis
ecclesialis», e non credo che il forte atleta domenicano avesse presenti, così
dicendo, quelle mie poche povere pagine.
Diminuzione delle verità e conseguente, logica, diminuzione delle virtù.
Mi rimetto, per questo, a quanto scrive di questi giorni l'organo più competente
in proposito, trattandosi di una rivista del clero. «Chi non vede», leggo
in Vita pastorale, «la diserzione in massa dalla Chiesa, dai Sacramenti,
dalla Messa, dall'istruzione religiosa? Attorno alle nostre chiese e alle nostre
canoniche si va facendo il vuoto e non vale certo moltiplicare i mezzi di attrazione,
non vale fare deplorevoli concessioni ad una certa maniera di pensare e di vivere,
non vale annacquare, sotto speciosi pretesti, la serietà dell'impegno cristiano
di rinuncia, per darci l'illusione che il vuoto non è poi così grande.
Basterebbe raschiare sotto certe tenui superfici di chiasso e di organizzazione esteriore
per renderci conto dell'assenza paurosa di Dio in cui il mondo si dibatte».
«Post hoc, ergo propter hoc?» mi chiedeva uno dei miei critici,
dando e non concedendo che fosse ciò che io affermavo e che qui con tanta
più autorità e gravità si afferma. Rispondo: sì, et
propter hoc. Sì, perchè non impunemente, dopo quasi venti secoli
di un culto universale concorde e amato per la sua santità e feconda bellezza,
lo si rovescia, a un tratto, facendo intender che la Chiesa, madre e maestra, con
tutti i suoi papi e santi, aveva fin qui sbagliato; non impunemente si viola il grande
principio cattolico, pur richiamato di recente da Paolo VI: Legem credendi lex
statuat supplicandi (contro il principio luterano: Cuius regio illius et religio);
non impunemente si screditano forme di devozione pur accreditate dal cielo (pur
dette, come il Rosario, dalla Madonna con una creatura); non impunemente si fa della
preghiera materia da istituto Pasteur; non impunemente si riducono i segni della
riverenza, le effusioni dell'amore... perché l'amore non si raggeli, la riverenza
non svanisca, la fede stessa non finisca per vacillare e cadere. «Vado ancora
in chiesa perchè so di doverci andare, ma la mia anima è
gelida come il marmo, e temo che arriverò a non sentir più neanche
il dovere». Queste o simili parole fan parte di tante fra le tante lettere
che il libro mi ha fatto aver da ogni provenienza... Mi risulta, ahimè! che
tanti non senton più neanche il dovere: sentono solo la sofferenza,
il rimpianto, e mi si permetta di citar questa, dalla Svezia: «...alcuni, qui,
non vanno più in chiesa per il disgusto dei nuovi riti, altri ci vanno per
penitenza»; e questa, da un giornale francese, diretta non a me ma a un
dei «nostri», di me tanto più celebre, François Mauriac.
È di una signora francese e dice fra l'altro: «Quell'amore la cui assenza
mi allontana oggi dalle nostre chiese che amavo tanto, dove non trovo più
che pedagogia elementare, banalità, terrore di essere superati dal marxismo
nella ricerca della felicità terrena. E in quanto alla "via crucis",
quale silenzio!» La risposta di Mauriac non è che una condivisione di
pena; pena per questa «atmosfera delle çhiese d'oggi», pena dei
cristiani, come lui, «romantici inguaribili ma di una esigenza maniaca e letterale
per ciò che riguarda la verità»; pena per questo clero moderno,
«un certo clero in piena muda, che non è più girino, che non
è ancora rana, che crede ancora un poco a certe cose, ma non più affatto
ad altre, che ha la tendenza a gettarne a mare molte che a noi, fanciulli ingenui,
si era insegnato a venerare...»
E questo, dico dei «fanciulli ingenui», mi riporta in Italia, a Roma,
al ricordo di un altro «conservatore», il cardinale Micara, anche lui,
come il cardinale Ruffìni, «tenero devoto» della Madonna... L'ho
detto e ridetto ma mi si lasci dire ancora, che noi «patiti del latino»,
noi «conservatori» abbiamo un debole per la Madonna (una «conservatrice»,
anche Lei: «Et Mater eius conservabat omnia verba haec in corde suo»),
speriamo nella Madonna, ed è così che il ricordo del cardinal Micara
mi si presenta in questo momento... A un suo visitatore, «un uomo politico
lontano dalla Chiesa», racconta di lui don Giuseppe De Marchi sull'Osservatore
Romano, «ebbe a dire un giorno, con il suo accento frascatano, facendolo
inginocchiare accanto a sè, nella sua cappella, davanti al Santissimo Sacramento:
"Dì un'avemaria come t'ha in segnato tu' madre!"» e con questo
intese rispondere alle sue domande, espresse e inespresse, indicargli la soluzione
dei suoi problemi, rimettendolo sulla strada malauguratamente lasciata.
Fanciulli ingenui, o diciam romantici inguaribili ma fanatici della verità,
come siam rimasti, crediamo anche «noi che quella sia (Lei guida, Lei «mediatrice»,
per darLe il titolo che quel cardinale tedesco consigliò di non darle) la
via del ritorno, la via di riparare a quella «dilaceratio communitatis»
ch'è il maggior danno della Chiesa, la causa di tanta angoscia del Papa: tornare
a pregare come lei, la nostra santa madre Chiesa, per bocca della nostra madre terrena,
ci aveva insegnato, ed era così dolce, anche se, o proprio per questo, non
si capiva tutto, aveva cioè sapor di mistero.
Quel sapore! Un ignoto amico, ex-allievo del Rosmini di Domodossola, mi fa
avere una sua poesia, in «meneghino», in cui descrive quel che ha provato
entrando e fermandosi in una vecchia solitaria chiesa («ona gesa», già!
«minga on magazin») dove un prete diceva Messa «anc'mò a
l'antiga, senza voltagg la s'cena al Tabernacol, e per gionta in latin...»
ed eccone per l'appunto l'effetto nella sua anima:
Come i avi quand fann la forogada
e sgôren senza requi sora i praa,
sora i piant de rubinia profumada,
sora i ros, sora i sces senza fiadà
e vann in visibilli dentr'on fior
e s'inciocchissen per la soa dolcezza,
anca mi, come on avi de 'dree a lor
sont sgorattaa a la cerca de purezza,
d'onestaa, carità, quel! che a Dio pias...
Come i avi... Come
le api; e questo mi porta in Spagna, da dove un altro ignoto amico, un notaio di
Salamanca, mi esprime con un'immagine simile, cercando di farlo in italiano, un uguale
rimpianto: «Nella festa della umile ma gloriosa Virgen de la Pena, nella chiesa
romanica della mia città castigliana de Sepulveda... la chiesa era piena dei
contadini del contorno che portavano alla Madonna i suoi piccoli offrende. E quando
il suddiacono cantaba gli strofi della Sapienza antica rivelata dello spirito de
Dio, erano i medesimi profumi dei campi, la vera savia populare... che intrava nella
santa chiesa de pietra e de fede, et in habitatione sancta...» E
come non trascrivere, da una lettera d'oltre Oceano, il grido che un emigrato ungherese,
artista e scrittore, ha creduto di poter cogliere dalle labbra divine: «Mi
Iglesia, mi Iglesia, porque me has abandonado?» O da Ceylon l'amarezza di un
veterano delle Missioni, «d'un paese sperduto fra le montagne della provincia
di Uva», che vede vicino a sè, mentre mi scrive, un mussulmano dell'Afganistan
che legge e insegna a leggere ai bambini il Corano, «non nella sua lingua volgare
ma in arabico, la lingua che tutti i maomettani studiano perchè è
la loro lingua sacra, mentre gl'italiani», esclama quasi non ci credesse,
«cercano di eliminare il latino!» Dagli arabi ai loro nemici, gli ebrei,
uguali in questo, dico nel culto della loro lingua e delle loro tradizioni: «Sono
recenti le straordinarie scene al Muro del Pianto di Gerusalemme: giovani soldati
coperti di polvere, con l'elmo in testa e il talèd rituale sulle spalle,
la mitragliatrice a tracolla e i tefillìm al braccio, che leggono piangendo
antichissime preghiere ebraiche, e con loro giovinette, uomini politici, generali,
vecchi rabbini. La loro sacra lingua è come il cemento che dopo duemila anni
tiene ancora insieme le pietre del Muro. E tutti esigono che i bambini studino l'ebraico,
e non solo nelle famiglie colte ma nel ghetto...» E ritorniamo in Europa, sia
pure d'oltre-Cortina, in Russia, dove l'amore degli ortodossi per i loro splendidi
riti e la loro antica lingua liturgica «ha riempito fino alle scalinate»
(non certo, penso, col favor del governo) «la cattedrale di Mosca durante l'ultima
notte di Pasqua...» Cosi gli altri, tutti gli altri; e noi? Noi, transfughi
volontari, noi rinneghiamo, noi disprezziamo tutto ciò che fu «nostro»,
e l'essere scherniti è la sorte di chi, dai fiumi di Babilonia, guarda pur
verso Gerusalemme.
Super flumina Babylonis... e si vuole - si vuol dai nostri, fra la
meraviglia di quelli - che ci scordiamo di Sion, che appendiamo per sempre
i nostri strumenti, che non cantiamo più i nostri canti, che dimentichiamo
la «nostra» lingua, la nostra «lingua materna di figli della Chiesa»,
tanto che ci si vieta, in chiesa, di dir: Pater noster... di dire: Ave,
Maria... di dire una parola che davanti al comune Padre ci faccia ancora
riconoscer fratelli, figli tutti d'un solo Riscatto, quelli che professiamo
lo stesso Credo nell'unico Dio, nell'unico Signore, nell'unica Chiesa.
Ci si chiede - smarriti, incerti se farnetichiamo o siam svegli - se sia stato o
come sia stato possibile. «Ivresse de la nouveauté», rerum
novarum cupiditas, come scrive Maritain? «Nulla», egli dice, facendoci
pur con questo sperare, «invecchia cosi presto come la moda e le teorie che
fanno della verità una funzione del tempo»; d'accordo con Guardini,
il grande liturgista, che diceva or è poco, festeggiandosi i suoi ottant'anni:
«C'è qualche cosa di meglio della modernità ed è la verità...
lo ho già veduto il tramonto di parecchie presunte modernità...»
Ci darà Dio il conforto di vedere anche il tramonto di questa? Concludendo
una sua lunga, nobile, accoratissima lettera, uno di quei miei tanti già ignoti
amici (dei quali tengo per me il nome benchè non me l'abbian chiesto) si domanda
la ragion di questa, e risponde: «Nessuna. Far sapere a Lei che ce n'è
uno in più a pregare la Madonna e a sperare che dopo questa Grande Liquidazione
la Ditta riapra i battenti per la seconda volta, totalmente rinnovata, dando inizio
alla Terza ed Ultima Gestione».
Conclusione amarissima - pur condivisa da tanti! - della quale io non voglio ritenere
che due parole, la Madonna e la speranza, facendone, mi si passi l'insistenza, una
sola: speranza nella Madonna.
La Madonna! Allorchè, la scorsa primavera, a Milano, la sua statua venne calata,
per dei restauri, dalla sua sede (la più alta guglia del Duomo, e ricordiamo,
sperandone la salvezza per uno di cui fummo vent'anni avversari, che questi, in omaggio
a Lei, volle di mezzo metro più bassa la più alta vetta della città)
si dovette avvertir la cittadinanza, inquieta, ch'essa sarebbe presto tornata, lassù,
«com'era». Figlia di Lei, e sua immagine, noi speriamo che la Chiesa
torni, per la sua intercessione,«com'era». Lo speriamo pensando a Fatima
e - non sappiamo dir come - alla Russia. Fatima e la Russia sono lontane, sono, in
certo modo, agli antipodi, ma possono anche - Lei mediatrice - avvicinarsi. La raffica
del modernismo che ha congelato sulle labbra della Chiesa le preci leoniane destinate
da Pio XII alla conversione della Russia, non impedirà, è nostra fede,
che il paese di Cirillo e Metodio, liberato per le sue sofferenze, per la sua purezza,
per la sua anima incancellabilmente cristiana, dai «demoni» che l'opprimono,
adempia il voto che lo stesso papa Leone levò per lei componendo l'inno dei
due santi fratelli: Adeste voto: Slavicas Servate gentes Numini. Errore mersos
unicum Ovile Christi congreget... Presso il cadavere non ancora freddo di Stalin,
Svetlana, come ci ha rivelato cominciò a pregare. Sappiamo ch'essa
prega... prega la Madonna, di cui porta al collo la medaglia, e questo ha per noi
il valore di un segno, il senso di un simbolo: Fatima e la Russia sono forse meno
lontane di quello che può sembrarci.
Forse per mento del «dialogo»? Absit. Alla domanda se credesse
possibile la «coesistenza», la figlia di Stalin ha risposto, da cristiana,
meravigliandosi della domanda: «No, non credo che la lotta di classe e la rivoluzione
possano camminar mano nella mano col concetto dell'amore!» I demoni insomma
restan demoni, e per il bene di chi n'è ossesso non c'è che cacciarli.
Applicando ai nichilisti (i «progressist» di allora) il vangelo dell'indemoniato
di Gerasa, Dostojewsky fa dire nei Demoni, a Stephan Trophimovic, uno di quelli,
smarrito e agonizzante nella povera «izba» d'Ustievo: «È
l'immagine della Russia, punto per punto. I demoni che escono dal malato ed entran
nei porci sono tutti i veleni, tutti i miasmi, tutte le impurità, tutti i
diavoli accumulati nella nostra grande e cara malata, nella nostra Russia ... Ma
su lei, come su quell'ossesso insensato, veglia dall'alto un grande pensiero, una
grande volontà, che caccerà tutti questi demoni, tutte queste impurità:
tutta questa corruzione... ed essi stessi chiederanno di entrar nei porci... Questi
demoni siamo noi. Ciechi, furibondi, noi ci precipiteremo dagli scogli nel mare,
annegheremo tutti, e sarà giusto, perchè non meritiamo che questo.
Ma la malata sarà salva, e sedera al piedi di Gesù».
Senza voler riconoscere in quella malata un'immagine della Chiesa, o volendoci restringere
a questo solo, dei suoi mali, per cui ci siamo indotti a scrivere quelle e queste
nostre pagine, diciamo che anche noi aspettiamo, per la Chiesa, che Gesù passi.
Le hanno annodato la lingua impedendole di parlare - recte, rettamente - con
tutti i suoi figli; per cui essa geme sentendo come i suoi figli, non più
ammaestrati, non più corretti da lei, parlino differentemente fra loro non
comprendendola e non comprendendosi. Ma Gesù passerà, venga da Tiro
o da Sidone, abbia, come invochiamo e speriamo, il volto di Paolo VI -
«infermo», mentre scriviamo, e per questo stesso «potente»,
per questo stesso da noi più amato - o di uno sconosciuto prete che sta dicendo,
ora, il suo rosario; Gesù avrà compassione di lei, e toccandole la
lingua dirà: «Adaperire!» e la sua lingua si scioglierà
e i suoi figli la intenderanno di nuovo, di nuovo s'intenderanno fra loro e tutti
insieme, Una voce. Lo ringrazieremo, Bene omnia fecit, Lo loderemo,
Lo adoreremo:
SANCTUS! SANCTUS! SANCTUS!
HOSANNA IN EXCELSIS!