E torno, con questo, alla
mia difesa, rispondendo con reverente franchezza agli eminentissimi ed eccellentissimi
Vescovi che poco dopo la telefonata del mio a quello di Bologna mi fecero il grande
onore di occuparsi collettivamente di me, ossia della mia «lettera»,
stigmatizzando l'offesa che con essa avrei arrecato al confratello destinatario...
Tutti lo sanno: radio e giornali ne hanno parlato in tutti i toni, con comprensibile
soddisfazione di tutti i patiti del volgare, che ne han fatto un magno argomento
contro il latino.
Cito, per il fatto, ancora L'Espresso, come il più favorevole al Cardinale
«innovatore» e logicamente il più livido contro di me. La circostanza
fu l'assemblea generale della CEI, a Roma, il 6 aprile scorso; il luogo, la Domus
Mariae, sede della riunione, dove entrato, riferisce L'Espresso, il Cardinale
«venne sommerso da una serie ininterrotta di attestati di solidarietà.
Parole roventi attraversarono l'aula rosseggiante di vescovi. Gli uomini più
autorevoli dell'assemblea, dal patriarca di Venezia Giovanni Urbani al cardinal Ermenegildo
Florit a monsignor Salvatore Baldassarri, vescovo di Ravenna, deplorarono eloquentemente
il libello scandaloso e il suo autore. Più d'uno tra loro alluse a "un
alto intervento che non può tardare"». Monsignor Rossi, presidente
della Commissione Episcopale per la Liturgia (da non confondersi, come ha fatto qualche
giornale, col Consilium supremo), fu uno degli uomini più autorevoli
che deplorarono eccetera eccetera, e lo nomina, per L'Espresso che non lo nomina
(preoccupato di correre subito a malignare che l'«alto intervento» tardava
pur tuttavia: «Al vertice della gerarchia vaticana, invece, regnava il silenzio»),
il confratello Paese-Sera, riferendo dal confratello L'Avvenire d'Italia, che attribuisce
a monsignor Rossi l'iniziativa, secondata dal cardinale Urbani, che «ha espresso
con fervide parole all'Arcivescovo di Bologna la stima, l'affetto e la venerazione
di tutto l'Episcopato e di tutti i cattolici italiani», secondato a sua volta
dall'assemblea che, «con un vibrante applauso rivolto al Cardinale Lercaro,
ha sottolineato l'approvazione sia per l'intervento di monsignor Rossi che per le
parole del presidente della CEI ».
Il curioso è che Paese-Sera, commentando l'episodio con una lunga digressione
di Pietro Mondini, ci appulcra queste parole di un vecchio articolo di Raniero La
Valle: «la libertà di stampa, quella vera, quella autentica, finisce,
e diventa la libertà del potere - di qualunque potere - di avere una stampa
docile ai suoi desideri, ai suoi indirizzi, anche legittimi; ma è chiaro che
in questo modo il potere si aggiunge al potere, le minoranze hanno sempre minor voce...
e i piccoli, i poveri, gli ultimi non hanno né interpreti, né diritto
di parola...» Dopo di che invita i cattolici a darmi addosso facendo tesoro
«delle parole pronunziate da monsignor Rossi e dal Cardinale Urbani...»
Come dire: viva la libertà di critica, morte a Casini che ha criticato il
cardinale Lercaro! E a onore del Cardinale e a vituperio dello scrittore dice che
«l'assunzione di Fanti alla carica di Sindaco - anzichè indebolire il
comunismo bolognese - lo portò», per mezzo della «politica del
dialogo», «su un piano più avanzato»: del che io non dubito
ne ho mai dubitato.
Una cosa di cui si dubita, o si dubitò in non pochi giornali, è quel
«tutto» e quel «tutti» di cui il cardinale Urbani si sarebbe
detto l'interprete nel suo indirizzo al confratello, presente. Vada per «tutto
l'Episcopato», sebbene L'Espresso espressamente non lo dica, e il padre Fabbretti
(un «lercariano» s'altri ce n'è, tolto il padre Balducci e il
padre Morganti) giubilandone come L'Espresso in quell'organo della chiesa
dei poveri ch'è La Domenica del Corriere, parli di «grande maggioranza»,
e altri soltanto di «maggioranza» e via diminuendo, fino al Tempo, che
scrive semplicemente: «il Cardinale Urbani si è schierato dalla parte
del Porporato di Bologna». Ciò che davvero non persuade è quel
«tutti i cattolici », che non si sa come abbian potuto entrar
nella sala o comunicar la loro adesione... Tutti o molti o meno che fossero, il Cardinale
può esser certo che uno avrebbe sicuramente applaudito - se avesse potuto,
mettiamo in qualità d'inserviente, esser nella sala - e quell'uno sarebbe
stato l'autor della Tunica, sarei stato io, che mi dolgo di non poter aprire,
pandere, il mio cuore al cardinale Lercaro perchè veda quanto ci sia
d'amore per lui in questo mio battagliare per un amore più grande.
Prova ne sia che io non sento nessun bruciore, nessuna rancura per i vescovi - nominati
e innominati - che hanno avuto per me le «parole roventi» surriferite,
e ho già detto che le considero un grande onore, com'è difatti l'esser
ripresi da chi sta tanto in alto: Aquila non capit muscas, e nemmeno libellule...
Nessun risentimento, perciò, ma solo amore e devozione, verso il mio cardinale
arcivescovo, così zelante anche in questa sede, nella quale non gli risponderò,
ossia non mi spiegherò, perchè l'ho già fatto nell'altra. A
monsignor Rossi, si, ma per dirgli tutta la mia gratitudine, la mia solidarietà
per ciò che ci unisce (o ci univa) anzi che dividerci, e dico proprio il latino,
per l'aiuto, le armi che mi ha dato a scrivere quelle mie pagine in difesa del latino
e del Tabernacolo, con quel suo bel commento alla celebre Allocuzione in proposito
del nostro grande Pio XII, che ho letto in La Liturgia e la Chiesa edito a
cura del CAL nel 1957: «Crediamo di trovare (in essa) ben netto un richiamo
al concetto fondamentale della liturgia, da molti oggi sottovalutato sotto pretesto
della preminenza pastorale... Contro un'altra tendenza pericolosa si pronuncia il
Papa, riaffermando l'intima connessione tra l'altare e il tabernacolo... Finalmente,
è ben noto quale lotta si conduca da molti in campo di liturgia pastorale»
(mica a Bologna, per caso?) «contro l'uso del latino nella liturgia... Le parole
equilibrate e ben ferme, che il discorso contiene su questo argomento, sono così
chiare da non esigere affatto di essere commentate». Per l'appunto, e se, in
questo, monsignor Rossi ora non è più d'accordo con se, perdoni a me
d'esserlo ancora, ancora ammirando, per questo, Pio XII, di cui Chi ben lo conobbe,
Paolo VI, lodava in un suo recente discorso «la rimarchevole intuizione dei
problemi del nostro tempo».
Al cardinale Urbani confesso invece d'essere un po' imbronciato con lui, ma non per
la scottatura della Domus Mariae, per roventi che siano state le sue parole
contro di me, sibbene per aver, l'anno scorso, mandato via da Venezia, via dall'Italia
il mio santo, le ossa del mio caro san Tito, regalandole, o restituendole, ai suoi
antichi diocesani, quei Cretesi che san Paolo, nella lettera a quel più amato
fra i suoi discepoli, tratta con parole più che roventi lontani come s'era
allora dal «dialogo»: Cretenses semper mendaces, malae bestiae, ventres
pigri, da riprendersi in conforme maniera: quam ob causam increpa illos dure
ut sani sint in fide... Certo che nel riprendermi allo stesso modo, dure, il
cardinale Urbani ha avuto il medesimo fine, ricordarmi cioè il rispetto che
si deve, sia pure in clima «postconciliare», a un principe della Chiesa
e solidarizzare con lui, io lo ringrazio come ho già detto e nonostante quella
mia imbronciatura per via di san Tito, che io sèguito a venerare volgendomi
mentalmente verso l'Egeo, come fin qui verso la Laguna, nel dirgli quel quotidiano
mio paternoster.
Mi permetta tuttavia Sua Eminenza il Presidente della CEI di chiedergli se non sia
accaduto anche a lui di offendere, senza volerlo, senza pensare, un principe della
Chiesa - un cardinale a cui tutto il mondo, cattolico e non cattolico, deve rispetto
- onorando un suo nemico e quale nemico! Parlo di Wyszynski e alludo a qualche cosa
di rosso che attraversò Roma e l'Italia proprio nei giorni che l'«aula
rosseggiante di vescovi» della Domus Mariae protestava contro il mio libro.
Dico di Ochab, il presidente polacco, il cui disprezzo e le cui angherie verso Wyszynski,
il Primate, nota erant et lippis et tonsoribus... a meno che non fosse per
gelosia della sua salute il vietargli di uscir di casa, ossia di andare a Roma, al
Concilio, e di ricever visite in casa, come quella del Papa, a cui rifiutò
due volte di metter piede in Polonia.
Avendo messo lui il piede a Roma, si pensava che, come aveva fatto Podgorny, il compagno-padrone,
chiedesse anche di metterlo in Vaticano, e Paolo VI lo aspettava difatti, non fosse
che come capo di uno Stato cattolico. Ma, con un gesto tanto inatteso quanto villano,
Ochab voltò al Papa le spalle e, salutato l'amico Saragat, se n'andò
a Vietri sul Mare a ballare con le ragazze la tarantella. Non era forse quel che
volevano gli amici del «dialogo», ma tant'è e noi ringraziammo
in cuore il nostro cardinale Florit che ignorò, l'indomani, la sua presenza
a Firenze, a imitazione di ciò che il cardinal Dalla Costa aveva fatto un
giorno con Hitler, anche lui reduce da Roma, facendogli trovar serrato il portone
del suo palazzo. Fece così, in omaggio al Papa e per solidarietà con
Wyszynski, anche il cardinale Urbani allorchè, continuando da turista il suo
viaggio in Italia, Ochab arrivò a Venezia? Ahimè! la televisione ce
li mostrò uno accanto all'altro in San Marco, e non mi parve che Ochab stesse
recitando il Confiteor promettendo d'esser buono e di riparare alla prima
occasione, come poteva essere il Sinodo. Voglio dire... No, non voglio dir nulla
e vado a battermi il petto davanti a monsignor Baldassarri, vescovo di Ravenna, uno
dei miei tre grandi riprensori della Domus Mariae, col quale non ho nessuna scusante,
quando non mi si accetti per tale quella d'essere un concittadino di Dante, e non
dico del «moralista fustigatore» nella cui «tradizione»,
al dir dell'Espresso, io presumerci nientemeno di collocarmi, ma del Dante
liturgico, del Dante... patito del latino, a cui ho accennato nell'ultima pagina
del mio libro.
Dante, il più grande fra i poeti cattolici, il più cattolico fra i
grandi poeti, lui dei poeti tutti il più grande, è stato in vita ed
è da morto suo diocesano. Voglia dunque il vescovo di Ravenna, monsignor Baldassarri,
seguire per amor di Dante, se non vuole per mia difesa ossia difesa della mia causa,
quest'altra mia «processione», questa passeggiata attraverso la Divina
Commedia, che sarà, in ogni caso, ancora un alternar l'acqua e il vino, conformemente
al consiglio dei Maccabei... Comincia, anche questa, con una favola, nata nella fantasia,
di chi, quel 7 di marzo, ringraziò Dio d'essere a letto con la febbre.