«Ti hanno paragonato
a...» Scelgo questa, come la prima e più autorevole, tra le tante maniere
in cui s'è detto, attraverso radio, giornali, tv d'ogni paese, ciò
che io avrei fatto di più grave nei riguardi di Sua Eminenza il cardinale
Lercaro. La più autorevole, oltre che la prima, perchè di un arcivescovo
e cardinale che rappresenta la mia «spirital corte» e che io venero,
per questo, come il Vice a me più vicino di Colui che san Pietro chiama «pastorem
et episcopum animarum vestrarum»: si tratta infatti del mio vescovo, il cardinale
Ermenegildo Florit, già ausiliare (e questo stesso è per me titolo
di rispetto e di affetto) di quell'altro mio vescovo che fu il santo cardinale Elia
Dalla Costa.
È l'Espresso (30 aprile) che ne riferisce le parole, in un lungo articolo
contro di me e il mio libro, dettato dal naturale acido massonico inacetito dal personale
risentimento del suo intervistatore, Nello Ajello, cui avevo schiettamente suggerito,
già sulla soglia del mio studio, di tornarsene senz'altro a Roma, se sperava
di trovare in me un «ribelle», essendo io un fedele «cattolico
apostolico romano» e, poteva aggiungere, tra virgolette, «baciapile».
Il giornalista era arrivato, prima di venir da me, a Bologna, era stato, là,
in Curia, aveva parlato con chi poteva informarlo e cosi avviò il suo servizio,
vistosamente intitolato Quel Lutero di Bologna e illustrato con la foto del
Cardinale, accanto al sindaco Dozza, entro il turbine dei coriandoli:
«Bologna. La santa rabbia di Giacomo Lercaro è esplosa due settimane
fa, una sera verso le undici... Il cardinale aveva finito di cenare... aveva salutato
con una benedizione appena accennata i sessantacinque studenti che vivono con lui
nel Collegio internazionale di Villa San Giacomo... aveva salito i pochi gradini
che separano la sala-refettorio dalla sua stanza da letto... quando il telefono interruppe
il silenzio della cella: "Eminenza, c'è il cardinale Florit che la chiama
da Firenze" e poi la voce dell'amico arcivescovo cauta, reticente. "Scusami,
sai, ma devo darti una notizia spiacevole. Un mio diocesano, un tale Tito Casini,
ha avuto a che lamentarsi di te, ha scritto un libello contro la riforma liturgica,
un attacco abbastanza grave, violento. È un sant'uomo, uno scrittore cattolico
di provincia, un patito del latino... Ti hanno paragonato a Lutero..."»
L'articolo sèguita descrivendo il «sacro sdegno del vecchio cardinale»,
subito «trasformato in attivismo febbrile», le sue lettere, i suoi telegrammi
ai confratelli Tisserant e Cicognani, le sue corse a Roma, dove «l'opuscolo
era già esaurito nelle librerie, in Vaticano veniva conteso da prelati, minutanti
e vescovi di Curia, formava l'argomento di tutti i discorsi, veniva più o
meno rispettosamente parafrasato sui giornali», mentre, a Bologna, «chi
chiamava il centralino della diocesi chiedendo di parlare con un monsignore, poteva
sentirsi rispondere: "Iam sacerdos abiit", invece che "è appena
uscito", e l'uso telefonico del latino stava a significare una manifestazione
di...» non di conversione, s'intende, alla causa del libro ma comunque proficua
per la sua tèsi in quanto atta a dimostrare che ci può essere anche
un «uso telefonico del latino».
E tornando, con ogni reverenza, al mio Cardinale Arcivescovo, gli dirò che
non tanto la sua telefonata a Bologna (prova di amore verso un diletto confratello),
come non pure le sue istruzioni alle librerie «cattoliche» di non tenere
il mio libro (conseguenza del medesimo amore) e al giornale diocesano di stangarlo,
di stangarmi senza misericordia (riprova dell'amore medesimo), nè tanto l'avermi
definito « un sant'uomo » (che sarebbe, per me, il più grande
e immeritato degli elogi se non fosse l'indole della nostra bizzarra lingua, per
la quale certi aggettivi cambiano di senso a seconda che precedano o seguano il sostantivo
e un uomo galante vuol dir tutt'altro che un galantuomo e così un buon uomo
può significare un minchione mentre un uomo buono eccetera eccetera); non
tanto, tutto questo, m'ha afflitto quanto quel «patito del latino». Un'offesa,
forse, per me? Al contrario! Al contrario, questo è per me un grandissimo
onore, in quanto significa innamorato della mia lingua spiritualmente «materna»;
ma per chi lo ha detto, m'è dispiaciuto: perchè fa pensare a un certo
sorriso, in dirlo, quasi di benevolo compatimento, quasi per un «hobby»,
una curiosa mania... come se un Pio XII non avesse chiamato il latino «gloria
dei sacerdoti» («sacerdotum gloria», e quanto più «episcoporum»?)
o come se Giovanni XXIII non avesse intimato ai vescovi, con le sue più severe
parole, di conservare al culto e difendere, contro gl'«innovatori», questa
lingua «propria della Chiesa», questa lingua... nella quale io seguiterò
a dire ogni giorno, nonostante quell'arbitrario «etiam in Canone» e con
la medesima devozione, seguiterò a dire per Voi, Eminenza: «... et antistite
nostro Hermenegildo», così come, a Bologna, m'è caro dire, a
quel punto: «antistite nostro Iacobo . E veniamo al paragone, veniamo al «Lutero».
Se fossi in vena di scherzare direi che il paragonare uno all'«uomo di Wittemberg»
(ciò che io non ho fatto, e ne è teste il testo, dov'è scritto
«temibile», non «terribile», e non è scritto «come»
ma «dopo») non è, per i tempi che corrono, tempi di «dialogo»,
d'«irenismo», di «embrassons-nous», di descomuniche, assoluzioni,
riabilitazioni (e conseguenti sconfessioni), una grande ingiuria. Se ho visto, in
sogno, il grande nemico di Roma ridere, sul suo monumento a Worms, per l'abbandono,
da parte dei cattolici, della loro lingua comune, mi sembra, ora, di vederlo smascellarsi
dal ridere a vedere i passi di questa nostra Riforma incontro alla sua Riforma, a
vedere, un cardinal Bea che dichiara a un anglicano, quasi con un finalmente: «La
Controriforma è finita»; a vedere un cardinal Pellegrino che, furente
contro un giornale cattolico perchè ha messo tra virgolette il titolo di cristiani
applicato ai protestanti, protesta: «Il protestante che si converte non ha
da rinnegare il proprio passato; non dobbiamo dire che (i protestanti) devono tornare
alla Chiesa» (furore e protesta inutili perché davanti a queste nostre...
precisazioni di linguaggio i protestanti han cessato di convertirsi e aspettano che
finiamo di convertirci noialtri); a veder gli omaggi, i fiori, i libri, gli articoli
che si dedicano dai nostri d'oggi, in una gara quasi di riparazione di torti per
i nostri di ieri, a lui che gratificò il Papa e i «papisti» dei
titoli di «sciocco bestiame e porci schifosi» e chiamò correntemente
la Chiesa «la loro porca chiesa». Ridere, dico, Martin Lutero, fino a
strabuzzar gli occhi di bronzo, a sentire il nostro Martin Morganti, il maestro riformatore
della mia diocesi, sciogliergli questo tedeum di ríconoscenza per i suoi rutti
contro il latino: «Dicono tanto dei protestanti, ma Lutero è un esempio
che dovremmo seguire: fece bene a fare la traduzione nella lingua del popolo. La
sua riforma sotto questo aspetto fu positiva». Ridere, direi se non fosse appunto
di bronzo, fino a scoppiargli la pancia come Margutta alla vista della bertuccia,
a vedere tutta questa furia e pretesca e fratesca di buttare ai cenci la tonaca e
vescovi e cardinali inculcare di buttar via anche il collare per una bella cravatta,
lui che sentì spretati e sfratati cantargli (sull'aria di Christe qui lux
es et dies, in odio alla Chiesa e alla sua lingua) quest'inno di gratitudine
per averneli liberati: O Kutt du viel schnödes Kleyt, Ein grosser Schalk
der dich antreyt...: «O tonaca, o spregevolissimo abito, gran canaglia
è chi ti porta... e grazie ti sian rese, Lutero. Rendiamo grazie a Dio!»
Ridere, fino alle lacrime, per questa nostra odiernissima infatuazione del sesso,
per questo voler dare a ogni costo (vedi Olanda) la moglie ai preti, lui che per
la sua Caterina non pensava neanche alla «pillola» quando scriveva al
Palatino, il prete indotto da lui a piantar la tonaca per la donna: «Saluta
tuam coniugem, suavissime, verum ut id tum facias cum in thoro suavissimis amplexibus
et osculis Catharinam tenueris... Ego quoque cum divinavero diem, qua has acceperis,
ea nocte simili opere meam amabo in tui memoriam, et tibi par pari fereram...»
C'è, d'altra parte, un Lutero, quello di «prima», a cui l'esser
paragonati sarebbe, fuori di scherzo, e anche per un vescovo, un titolo a mio parere
di onore, un attestato di saggezza pertinentissimo ai giorni d'oggi, dico di questo
nostro pastoralismo «postconciliare» che ama parlarci di «libertà»
più che di «autorità», di «diritti» più
che di «doveri», che rifugge dalla parola «obbligo» e raccomanda,
solo o tutt'al più raccomanda, ciò che ieri si comandava
(i «precetti»: con quanta maggior chiarezza e vantaggio per le nostre
coscienze, ora lasciate alla loro scelta, al loro libero esame, e all'esame
si sceglie sempre il più facile, anche se meno proficuo), tutto inteso ad
allargare e spianare la «stretta e ripida strada» del Paradiso, così
da farne uno stradale, un'autostrada percorribile in macchina, per non dir più,
come una volta, «in carrozza». È il Lutero che nel 1516, l'anno
prima di Wittemberg, scriveva dei preti e frati della Germania: « e a ognuno
venisse tolto l'obbligo e si lasciasse in suo arbitrio di osservare i digiuni, di
recitare le preghiere, di eseguire i doveri ecclesiastici e il culto divino, se tutto
ciò fosse lasciato alla sua coscienza e soltanto l'amore di Dio dovesse essere
il motivo di tutto il suo operare, io credo che dentro un anno tutte le chiese e
gli altari sarebbero perfettamente vuoti»; che chiedeva, in questa medesima
Lettera ai Romani: «Se uscisse un decreto per cui nessun prete, salvo
chi vuole liberamente, debba esser senza donna e con tonsura e in abito ecclesiastico,
per cui nessuno sia obbligato alle ore canoniche, quanti credi tu che ne troveresti
i quali sceglierebbero il modo di vita nel quale ora si trovano?» Item,
ibidem, sulla preghiera: «E poichè il cristiano non deve fare
altra opera più spesso della preghiera, così pure non ve n'è
altra più laboriosa e violenta e perciò anche più efficace e
fruttuosa, giacchè il regno dei cieli soffre violenza e sono i violenti che
lo rapiscono. La preghiera infatti è un'assidua violenza dello spirito elevato
verso Dio, come nave cacciata contro la forza della corrente ... La vera preghiera
è onnipotente, come dice il Signore ... Ognuno deve quindi esercitar violenza
e pensare che chi prega combatte contro il demonio e la carne...» L'altro,
il Lutero di dopo (quello che doveva, per via del latino, ricever gli applausi dei
cattolici), si delinea in queste parole d'un'altra sua ben diversa lettera: «Io,
me meschino! divento freddo di spirito. Russo sempre e sono pigro alla preghiera».
Comunque sia, io non ho fatto il paragone che mi si addebita, e se ne ho dato l'impressione,
se al mio Cardinale è parso di sì e gli è parsa, questa, una
bella audacia e mi ha denunziato, per questo, al suo confratello, mi permetta, il
mio Cardinale, di... di sperare che nessuno, in America, abbia svegliato il cardinale
Spellman per dirgli che un suo confratello italiano gli aveva tirato il suo sassolino,
nella sassaiola di cui il vescovo di New York era stato oggetto per avere augurato
ai soldati del suo paese, mandati per noi a morire in Vietnam, la vittoria della
civiltà cristiana contro l'ateismo maoista. Un sassolino, dico, al confronto
almeno di altri ciottoli lanciati da altri confratelli (francesi), un semplice «tuttavia»,
di cui forse nessun si sarebbe accorto se non fosse stato il rilancio fattone da
tutta la cineseria rossa e rosa e l'analisi logica del nostro Mario Gozzini, non
meno bravo professore che bravo scrittore, il quale sull'Osservatore toscano
(il giornale da cui dovevano arrivarmi le prime pietre, e che pietre! per il mio
libro) illustrava cosi la «presa di posizione del cardinale Florit» nei
riguardi del famoso discorso: «Evitando ogni risvolto polemico, ma con un significativo
"tuttavia" - che è pur sempre, ci dice la grammatica, una preposizione
avversativa - egli ha ritenuto necessario ricordare » eccetera eccetera. E
va bene, e passi, tanto più che in quei giorni, in quei tristissimi nostri
giorni, il nostro Arcivescovo aveva ben altre avversative di cui occuparsi, per noi.
Tuttavia... ai piccoli, come me, ai gamberini, fa effetto l'esempio dei grandi, i
quali non possono rimproverarli: «ne peux-tu marcher droit?» senza il
rischio di sentirsi rispondere: «veuton que j'aille droit quand on y va tortu?»
Il che, se mi ha dato cuore di scriver la «lettera» irriverente, non
mi ha per altro tolto da cuore la riverenza, l'affetto, la gratitudine per lui, il
nostro Arcivescovo, che ho visto per l'appunto, in quei giorni camminare, arrancare
proprio così, malagevolmente, tortu», con la tonaca legata ai fianchi,
con gli stivali sopra le calze rosse, fra il brago della nostra bella Firenze per
portare ai suoi figlioli il conforto del suo desolato viso e delle sue mani piene...
Quella scena mi suggerì, anzi, una fantasia, un sogno, che qui riporto comecchè
c'entri, non fosse che per conformarmi a quanto dice in chiusura, l'autore dei Maccabei:
«Come il ber sempre vino o sempre acqua non va, mentre l'alternare è
piacevole, così, a chi legge, se il dire è sempre d'un modo non torna
gradito...»
Faccia Iddio che con questo, anzi che piacere, io non dispiaccia ancor più
ai miei giudici, aggravando - come si dice - la mia posizione... Certo è che
nel nostro 4 novembre, nell'alluvione che ha così imbrattato e imbruttito
per tanti giorni la città più bella dell'universo, che ha invaso e
sconciato le sue chiese, i suoi altari, i suoi cori e tutti i loro ornamenti, che
ci ha fatto riecheggiare nel cuore il pianto di Geremia: Haeccine est Urbs perfecti
decoris, gaudium universae terrae... io non nego di aver visto l'immagine di
un'altra e ancor più triste alluvione: quella che porta la data 7 marzo 1965.
E delle molte care parole con cui, fra gli altri, un insignissimo Vescovo ha voluto
palesarmi per lettera la sua piena approvazione al mio libro, queste mi hanno, come
cattolico e come fiorentino, particolarmente toccato: «Ci voleva una campana...
una Martinella... un campanone... ed ecco che rimbomba proprio da Firenze: la cara
Firenze punita per tutti».