SUPER FLUMINA BABYLONIS
lettere dall'esilio


di Tito Casini




«La veste del sacerdote»

«Fils de duc ou de vacher...» È Jean Louis Tixier Vignancour che rappresenta così lo spirito della liturgia cattolica - uguaglianza in alto - contro quello della liturgia «comunitaria» - uguaglianza in basso: il vescovo al livello del tassista, il duca al livello del vaccaio, e non viceversa - in un articolo d'Itinéraires dal titolo «La robe et le latin».
«Le latin», egli scrive, «c'était la robe du prétre». Il latino era la veste del sacerdote (qualcosa di simile al «sacerdotum gloria» di Pio XII) e io non voglio, qui, stabilire un'equazione, affermare che chi è contro la talare (nella quale papa Giovanni raffigurava «la tunica di Gesù») è logicamente contro il latino e le altre connesse cose: eccezioni di cui so me lo vietano e, se dovessi, vorrei piuttosto dimostrar la illogicità di queste, considerato che guerra al latino e guerra alle tonache ebbero lo stesso predicatore in quel Lutero della prima Riforma a cui quelli della seconda s'ispirano chiedendogli perdono e vergognandosi del ritardo.
Il difetto di gusto che rivelano, in genere, nelle loro vesti secolaresche, questi «défroqués», questi spretati e sfratati che con lo stesso disprezzo e la stessa foga hanno buttato alle ortiche latino e tonaca, spiega forse il loro difetto di gusto, la loro opzione per il brutto, anche là dove i nuovi barbari (mi riferisco al libro di Daniel Rops: L'Église des temps barbares) hanno lasciato in piedi qualcosa, licitando e non imponendo il peggio, per chi poteva dolersi dei loro eccessi di guastatori del bello. Se ne vedono - dico degli abiti, e alla lettera - di tutti i colori, come di tutte le fogge: «peggio», dicono a Napoli, «dell'esercito di Franceschiello», e ci si chiede come i vescovi, come la Chiesa siano arrivati a permettere questa libertà, questa arlecchinesca varietà di vestire del clero, che stupisce come stupirebbe, per l'appunto, un esercito in cui a ognuno fosse concesso di andare a suo piacimento, in caserma e fuori, in libera uscita e in piazza d'armi, in divisa o in borghese. Il «popolo»? Il «popolo», tassista o vaccaio, fa anch'esso tutt'uno della tonaca e del latino, subestimando chi non porta quella e disprezza questo, a tutto vantaggio degli altri, considerati i «veri preti». I sacerdoti in talare, col loro breviario sotto il braccio o fra mano, che si vedono salutati per via, che si vedono offrire il posto in treno o in corriera da sconosciuti, sappiano che lo devono a quell'abito e a quel libro, anche da parte di persone non use, prima, a riverire i reverendi... come quel mio amico dottore che ora tiene, mi dice, il cappello, apposta per levarselo quando incontra uno di questi; un pio religioso, anch'egli mio amico, mi dice che... non è più libero di andare a piedi, costretto come viene a salire in macchina da passanti che si fermano apposta, trovandolo lungo la strada, non per altro che per quella sua tonaca, la sua cintola, la sua corona di servo ancora fedele di Maria.

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Il «clergyman», i «blue-jeans», le tute, i maglioni che han preso il posto della talare nel vestire del clero hanno tuttavia una logica, d'ordine umano: la logica della «carne», del «comodo» (che può arrivare, ahimè! Fino a quello immaginato da Sigfrido Bartolini in un forte capitolo del suo libro Chiesa di Cristo & altri generi), la logica ... di Semiramide, «che libito fe' licito in sua legge». La quale famosa femmina, qui certamente fuori di luogo, non è altrettanto fuori di tempo, di certa teologia morale del nostro tempo, se mi s'è ficcata qui nel discorso, lei che fece quella tal legge («praecepit enim ut... nulla delata reverentia naturae, de coniugiis adpetendis, quod cuique libitum esset, licitum fieret»), proprio leggendo, in questo momento, su una rivista «cattolica», Parole et pain, diretta da un religioso, la legittimazione, l'esaltazione, fatta con argomenti a Dea («Dio non può voler privare di amore e di tenerezza una così gran parte degli uomini»), di quel tal vizietto che Dio curò, per l'appunto, in Sodoma, «con lo zolfo e il fuoco». Volevo dire... ma ecco qui per l'appunto un prete che su un giornale di Como da lui diretto (rara avis, per la precisione del canto, nel concerto della stampa più o meno avveniristicamente cattolica, e mi scusino, direttore e giornale, se ricorro spesso alle loro note) lo dice più autorevolmente e meglio di me. Notato come il «clergyman» sia «un povero vestito, ibrido in tutta la sua composizione e che riduce il prete alla dimensione e alla figura dell' "ometto"», egli continua: «La talare è impegnativa, vuole uno stile come il latino: anche se portata imperfettamente, ha una sua espressività. Il "clergyman" è come il volgare: vorrebbe non essere impegnativo, mentre in realtà lo è a rovescio, e riduce il prete a metà e metà». La libertà di vestire favorisce sicuramente una libertà di agire che la tonaca (la «tunica di Gesù») non consente, così come la divisa impegna il militare, ufficiale o soldato, a un contegno, in servizio e fuori, in tutto degno dell'esercito cui appartiene; e in questo sta l'umana logica dei calzoni in luogo della veste, decorosa e bella, «che scende, coprendo le nostre brutture», come mi scrive, fiero della sua, un aitante missionario saveriano, «usque ad taleos».

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Video bona proboque, deteriora sequor, disse già Ovidio; ma quale logica porta i «clerici» (sinonimo già di colti cultori del bello) a seguire il peggio, a valersi, dico, del «licet» dove il lecito è il peggio, dove il «licet» non serve che al diavolo, a far ridere il diavolo sullo sconcio della grammatica non meno che del rispetto alle cose sante, sancte tractanda? La stima che abbiamo del ceto non ci consente, no, di credere ch'essi non vedano il buono e tale sia ai loro occhi il peggio: l'Isti pretones, con la finale che ognun sa, è uno scherzo che se faceva ridere un tempo, quando i preti venivano de montagna in città cum scarpis grossis bene taccolatis, portantes libros per parere doctos, potrà non far più rider fra tempo, quando, con l'abbandono del classico, civile e liturgico, il latino maccheronico sarà quanto resterà ai «clerici» di ciò che fu la loro «gloria»; ma per il momento la domanda non è meno irreale di quel che siano le scarpe grosse, e la domanda resta: perchè?
Perchè? Lo abbiam già chiesto, ci han già risposto e abbiamo replicato più volte, per cui un'altra potrebbe anche parer di troppo, ma il punto è così importante (è infatti tutto il loro «argomento», specie contro il latino) che vogliamo ancora ripeterci, al rischio d'esser tenuti per durezza di comprendonio ciò che di quei pretones diceva la malevola satira.
Perchè il latino, «la robe du prètre», è stato dunque smesso dai preti come le tonache? Ma per voi, essi ci rispondono, per il «popolo», essi dicono, applicando precisamente, ai popolani che noi siamo, ciò che il poeta folenghiano dice di quei preti montanari: sunt asinacci... Acci, col peggiorativo (e di questa stima, in che ci hanno, io ho fornito già largo specime), senza paura dei nostri zoccoli ma fidando nella nostra nota somaresca pazienza a portare e sopportare ogni cosa: fiducia, è vero, qua e là delusa da episodi di ribellione, di asini recalcitranti al basto e al pasto, ma non tanto ch'essi, gli asinai, non possano affermare che il branco, che la «massa», che il «popolo», fuor di figura, è «contento».
È il loro «argomento», e se per contentezza si deve intender sopportazione, rassegnazione, «obbedienza cieca», asinina, magari adattamento, al volere del conducente, bisogna che noi ve lo riconosciamo: sì, voi avete ragione: il «popolo», dopo ormai quattro anni d'intensiva «rieducazione», è contento... Il popolo, meravigliato e addolorato, in principio, di un «cambiamento di religione» che sovvertiva inattesamente e d'un colpo una tradizione la cui stessa vetustà era per lui segno di verità, come la sua venustà incentivo d'amore, il «popolo», ora, è contento... Contento di non riconoscer più la sua Chiesa, contento di non veder più i suoi splendidi riti, contento di non parlar più, con Dio, nella sua «lingua sacra», nella sua universale «lingua materna» (come detto già dai suoi Papi il latino), contento di non cantar più, di non sentir più cantare i «suoi canti», contento che si sia spento quel «cero», «quel linguaggio e quella melodia, vogliam dire» (e chi lo dice è Paolo VI), il cui spengimento avrebbe «sicuramente arrecato «toti Ecclesiae Dei aegritudinem et maestitiam».
Aegritudinem? Maestitiam? Tutt'altro, e la riprova son le messe danzanti (con o senza le suore a far la «spaccata»), ultima per ora variante della spodestata Messa in latino, che se han fatto, in qualche chiesa, spifferar fischi, volare ortaggi o stroncar microfoni, sonati a mo' di randelli sulle teste dei sonatori, non v'è dubbio che si è trattato d'incomposte manifestazioni di contentezza.
Il popolo, ripetiamo, è contento. Contento come... Per non ripetere il mio paragone di ieri (quello dei galletti castrati che, superata l'operazione, passato il bruciore, non rimpiangon più le loro creste, i loro bargigli, le loro penne, i loro chicchirichì et caetera, in una parola il loro «trionfalismo»), dirò: come l'uccello in gabbia... come il merlo del capocellula nostro paesano che, ammaestrato, rieducato dal suo padrone, fischia oggi Bandiera rossa così come ieri Giovinezza, alternandola con Stasera mi butto, senza nostalgia, si può ben credere, dei suoi boschi, i suoi amori, le sue native melodie (quelle melodie che facevano scrivere a Chesterton: «Varrebbe la pena digiunare quaranta giorni per sentire un merlo cantare»). Question di tempo e voi potrete (come io ho provato con un mio passerotto) scordarvi di serrare la gabbia e l'uccello rimane lì, al contrario di quel che dice l'aria famosa, dimentico del suo bel ciel, anche se la gabbia, la prigione, non è d'oro ma una brutta stia come la liturgia riformata. (Non tutti, è vero: non l'usignolo, il quale, prigioniero, non scorda, non si consola, non canta, e muore). Ho conosciuto a Porto Azzurro un carcerato, un povero sardo, che, finito di scontate la lunga pena (a cui lo avevano condannato innocente), aveva chiesto di restar lì, volontario, contento ormai per assuefazione di quella vita, per fuggir la quale altri aveva rischiato per l'appunto la vita. L'assuefazione, ci dicono, può far che un uomo, vissuto a lungo con le pecore, solo, senz'altro sentir che queste belare, finisca per belare anche lui, e il guaio non è tanto che beli (belassero come le pecore, i belanti delle nostre messe domenicali!) quanto che sia contento di non saper più che belare, perduto il gusto e la memoria dei canti, degli stornelli con cui rallegrava, un giorno, sè e la campagna.
Il pecorismo ha dato, così, il suo placet al brutto e il popolo è «contento». Il popolo che rideva, in principio, sul ridicolo sostituito al sublime di certi testi liturgici, oggi non se ne fa più caso e bela Cristo-pietà, Signore-pietà (pronto a belar, se glielo chiedessero: Gianni-pietà, Gigi-pietà, con gli stessi effetti devozionali) e risponde: Ascoltaci-Signore sia che «per la pace del mondo» gli facciano offrire «il sangue prezioso di Luther King» (e non quello, mettiamo, del missionario ammazzato lo stesso giorno dai comunisti), sia che «per la pace della famiglia» gli facciano invocare «che il papà e la mamma oggi non litighino fra loro» (udito con le mie orecchie in una chiesa dell'Emilia). Il popolo - pur prescindendo, senza dubbio, dalla dichiarazione di una rivista cattolica, che «in Luther King Cristo è stato ricrocifisso» - dice ormai con disinvoltura che Gesù «fu pure crocifisso»: un pure, equivalente a «per di più», che mi distrae, ogni volta, ricordandomi una canzoncina religiosa, sentita tanti anni fa, la quale così chiudeva la lunga rassegna delle gioie che attendono i buoni in Paradiso: «e di più Gesù e Maria in eterno contemplar». Pari per valor letterario, la differenza è che qui si tratta di una laudina, là si tratta del Credo.

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Così educato, o rieducato, il popolo non distingue più tra corno e violino, ossia è contento del corno, o tromba che sia (un passo dei nuovi testi dice per l'appunto: «questa è la volontà del Signore: che suoniate la tromba» - buono per una fanfara di bersaglieri), e così, per le sue orecchie, non ha più senso osservare, come fa su Città di Vita Roberto Coppini commentando una delle tante gigionate: «A parte il suono (e dobbiamo sottolineare che il suono di una parola non è soltanto bellezza, ma anche e profondamente significato), Agnus Dei aderisce alla nostra coscienza in una misura assai più compiuta e totale di Agnello di Dio»; senza contare il grosso sbaglio di traduzione, «che togli», per «prendi su te», che altera il senso e la bellezza, la dolcezza del testo, così reso dal Papa in quella sua Professione di Fede che tanti errori ha corretto senza che ne abbian preso atto gli erranti: «Passus est sub Pontio Pilato, Agnus Dei suscipiens peccata mundi», nella traduzione ufficiale dell'Osservatore Romano: «Egli ha patito sotto Ponzio Pilato, Agnello di Dio che porta sopra di Sè i peccati del mondo...»
Togli o prendi (la neo-teologia, morale e dommatica, sorella siamese della neo-liturgia, ha comunque ridotto il peso riducendo i peccati quasi a uno solo, quello contro l'uomo: il «peccato sociale»), il «popolo» non fa più differenza: il «figlio del vaccaio» che insieme al «figlio del duca» ieri rispondeva in latino, gustandone la misteriosa bellezza, oggi risponde alla Messa nello stesso vernacolo con cui bada le sue bestie, tratta col veterinario o il maniscalco o il mercante, senza sapersi render ragione di questo decadimento ma senza più domandarlo e disposto a tutto accettare, come le sue bestie lo strame, paglia o fieno ch'egli mette loro davanti... È così che i nostri commissari del culto possono parlar di «vittoria» e che la «normalizzazione» procede, che i vinti si proclaman «convinti» (come è risultato pur da un'«inchiesta» fatta per loro, a loro insaputa, dai capi con gl'infallibili ben noti sistemi, in virtù dei quali tra poco sentiremo dir che il centun per cento dei cecoslovacchi sono contenti dei russi, si continui pure a gridare, a Praga: «Rusove, domu», un bel latino in ceco che significa: «Russi, a casa!») e chi non la intende, chi per fedeltà si rifiuta, è accusato di ribellione, con tutti i rischi annessi e connessi.
È così che la «figlia di Gerusalemme», la «città della perfetta bellezza, gaudio di tutta la terra», è così che la Chiesa, ieri oggetto di stupore per ciò che aveva, oggi lo è per quello che getta, in una furia, un delirio autolesionista di cui domani si chiederanno come sia stato possibile. Quomodo obscuratum est aurum...? Dopo aver rappresentato il disastro che rappresenta e rappresenterà, nel campo della fede come della cultura, «l'abbandono del latino», Tixier Vignancour aggiunge: «C'est ce que se refuse à comprendre l'Église des temps barbares d'aujourd'hui. Elle ne veut plus conserver le trésor. Elle remplace l'or de la parole latine par le plexiglas de la traduction. Elle imite...» Essa imita, per l'appunto, essa sostituisce agli originali le imitazioni, e quali imitazioni a quali originali! L'ometto senza una gamba che, per rimediare la cena coi soldi che la gente gli butta, lavora, come vedo, a ricopiare coi suoi gessetti colorati una bella Annunziazione dei nostri Uffizi si crederebbe preso in giro se gli dicessero che la Soprintendenza alle Arti vuole acquistare i suoi cartoni per metterli là al posto dei Giotto, dei Beato Angelico, dei Raffaello; ma questo han fatto coi quadri, coi capolavori del culto, degli Uffizi di Dio, i nostri soprintendenti liturgici, senz'arrossire, senza recedere e senz'arrestarsi nè per il lamento del Papa, che bollava di «iconoclastica» tanta «frenesia di riformare e distruggere», nè per l'amarezza di quelli che vennero alla Chiesa per i suoi «quadri», per la bellezza dei suoi riti, della sua lingua, del suo canto, nè per la tragedia dei tanti che, non riconoscendola più per la loro Chiesa, l'hanno, piangendo, abbandonata.

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Quanti e quali, e con quale pena! Confesso di dovermi spesso commovere ricevendo da sconosciuti e lontani lettere intrise di lacrime, come questa che prendo quasi a caso da un grande mucchio sempre in aumento, e di cui non trascrivo che poche righe. È di un giovane, uno del popolo, come si dice, e lo dice: «lo non sono un uomo di lettere, non sono un colto, non possiedo una laurea e nemmeno un diploma: sono un uomo comune, un uomo della strada, appartenente cioè a quella "massa" di cui i novelli barbari amano presuntuosamente definirsi interpreti e difensori, e perciò non mi si può accusare di difendere, come loro dicono, accusando con ciò la Chiesa e i suoi Papi, fino a Giovanni XXIII compreso, una casta privilegiata...» Egli è nient'altro - ed è tutto, per lui - che un cattolico, fiero e felice, fin qui, di quanto questo significava, quanto ora umiliato e triste di ciò che si vorrebbe significasse e che gli ha fatto prendere la decisione più dolorosa della sua vita: «Sono cresciuto nella Chiesa, ne ho vissuto veramente la vita nelle sue varie espressioni e manifestazioni, devoto della Sua Dottrina, della Sua Tradizione, difensore dei Suoi diritti, del Suo operato, innamorato (è la parola giusta) della Sua Liturgia, veramente meravigliosa, mistica, santamente affascinante. Ed ora... ora questi barbari, coscienti o incoscienti mercenari dell'Anticristo, come mi hanno ridotto? Mi comprenda, e non mi condanni se Le confesso che ho cessato ogni pratica religiosa. Ho cercato con ogni mezzo, facendomi spietata violenza, di adeguarmi, di ascoltare, io povera pecorella un gregge ormai allo sbaraglio, i richiami alla docilità, agli insegnamenti e agli ordini dei Pastori, ma, ad un certo momento, non ce l'ho fatta più e mi sono appartato, perchè assistere a quei riti non era un beneficio ma un avvelenamento per il mio spirito. La Chiesa del Silenzio, di cui più non si parla, ha allargato i suoi tristi confini. Io ormai appartengo a questa Chiesa. Quella ufficiale, ormai, non è più la mia Chiesa». Tornerà a esserlo? «Oh, come vorrei che Lei potesse dare una risposta a questa angosciosa domanda! Come vorrei, io cattolico in silenzio, sentirmi dire che l'ora delle tenebre sta per passare e che presto io e tant'altri milioni di fratelli che hanno i miei stessi sentimenti, potremo ancora tornare a rivivere la nostra vita di gioia, di amore, di dedizione e di devozione in una Chiesa rinnovata, sì, ma nella sua tradizione, in una Chiesa tornata alla sua bella, sublime, mistica, universale lingua, uguale per tutti, in un Chiesa che torni ad esser Maestra ferma e sicura di verità e non esponga più i suoi figli al disorientamento, al dubbio, in una Chiesa che rinunci definitivamente al superbo tentativo di voler ad ogni costo parlare alla ragione, non accorgendosi di non arrivare più ai cuori...»

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I cuori? Il fatto che quelli ci chiamino, volendo e pensando d'insultarci, «sentimentali» dimostra che per essi il cuore non conta, e la riprova è che tra le devozioni oggi più screditate e derise è quella, appunto, che ha per oggetto due cuori: Cuore di Gesù, Cuore di Maria... Siamo, comunque, in epoca - tecnica, razionale, scientifica - di trapianti, e par che per questa strada sia, metaforicamente, anche la Chiesa... Tra le poesie di Trilussa che piacevano a Pio XII - ce lo dice sulla sua Penna Giacinto Gambirasio di Bergamo - c'è quella, dedicata alla Fede, che ha quei due versi: «La Fede è bella senza li "chissà", - senza li "come" e Senza li "perchè "». Il contrario per l'appunto d'oggi, che uno non ha il diritto di considerarsi cristiano se la sua testa non è un allevamento di dubbi, di chissà, di come, di perchè, se non ha e coltiva la sua bella angoscia, la sua brava inquietudine (o inquietitudine, come leggo s'una delle loro effemeridi), il suo caro tormento da coccolare portandolo seco a spasso o al caffè, e chi come me e come voleva quel bacucco integralista di Dante, se ne stesse contento al quia, contento della sua Madre e Maestra, senza contestazioni, senza complessi di colpa per le sue glorie e le sue vittorie, senz'apertura, senza dialogo, senza serenate d'amore con l'ateismo e con l'eresia, senz'altra pena che quella dei propri peccati... dovrebbe per lo meno arrossire di confessarlo.
Il contrario, appunto, d'oggi che la gran parola è «capire», e a chi non sa, come si presume, cosa voglia dir Deo gratias si parla, che so io? di escatologia, di catarsi, di metanoia (sicuri che non siano intesi per l'arte di fabbricare le scatole o di curare l'infiammazione bronchiale o di una nuova definizione dello sbadiglio) e la liturgia, opera già di geni che componevano accostando la fronte alla porticina del Tabernacolo, è oggi l'elaborato di «esperimenti» fatti in continuazione e approvati, col metodo delle palline o dell'alzata di mano, da quell'assemblea cui si nega la capacità sopra detta.
Opto magis sentire compunctionem quam scire eius definitionem ... È del Kempis, un autore, anche lui, che componeva a quel modo, e per cui oggi non fa più testo. Sentire e compungersi erano infatti cose del cuore, e il cuore, oggi, lo abbiamo detto, non è più quello...

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Siamo in epoca di trapianti e anche alla Chiesa sembra abbiano tolto il suo cuore... Sia permesso a un «poeta», un «sentimentale», vederne la dolente figura in quella donatrice» di Barnard che non ha più pace e soffre e piange - come abbiam letto sui giornali - appunto perché non ha più il proprio cuore.

(Maggio 1968)


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