Incipiam te evomere
ex ore meo... Lo dice, o lo riferisce, san Giovanni all'angelo, ossia al vescovo,
di Laodicea, e perché veda come l'ira possa essere e sia segno di amore aggiunge
quell'altre: Ego quos amo arguo... Parole, del Veggente di Patmos, che io
non mi approprio per non esser giustamente tacciato di visionario, considerato chi
è quell'Ego e per chi, per quale «angelo», io lo farei.
Per questo stesso timore reverenziale io avevo omesso in quella mia «lettera»
il nome dell'«angelo» di Bologna suo destinatario (pur contrastando,
pur lottando con lui, come Giacobbe, che non era per anche un stinco di santo, con
l'angelo nel torrente Iabboc), e cancellai, rileggendola, questo poscritto aggiunto
da Pio IX a una sua lettera-reprimenda per l'arcivescovo di Firenze Gioacchino Limberti:
«Si haec nostra familiaris epistola aliquam Tibi tristitiam afferet, gaudemus,
non quia contristatus sis, sed quia Nobis persuasum est huiusmodi tristitiam allaturam
tibi virtutem». L'«angelo» di Bologna, quantunque si sia votato
alla distruzione del latino (in chiesa), conosce troppo bene, come s'è letto,
questa «magnifica lingua» perché noi glielo sciupiamo traducendolo.
E giacché i giornali francesi, cattolici e non cattolici, parlando di questa
mia Tunique déchirée, m'han fatto l'eccessivo onore di accostarmi
a Léon Bloy (un leone del quale io non valgo un pelo) dirò che di lui
io posso in tutta umiltà applicarmi, a spiegazion del binomio amor-arguo,
queste parole: «Mes pages les plus véhéments furent écrites
par amour et souvent avec des larmes d'amour en des heures de paix indicible»;
come queste altre di Chesterton, sul binomio lacrime-collera (di amore), a proposito
di Gesù: «Egli non nascose mai le sue lacrime. Egli le mostrò
chiaramente sul suo viso aperto, ad ogni quotidiano spettacolo come quando vide da
lontano la sua nativa città... Egli non trattenne mai la sua collera.
Rovesciò i banchi delle mercanzie per i gradini del tempio e chiese agli uomini
come sperassero di sfuggire alla dannazione» (Chesterston, mi si conceda questa
parentesi, fu, come tutti i «patiti del latino», i «tradizionalisti»,
un innamorato, un «cavaliere» della Madonna, e morì al canto del
Salve, Regina intonato nella sua stanza dal padre McNabb, il grande apostolo
domenicano suo amico).
Come a dir che la pace e l'ira posson esser d'accordo quando siano di quelle buone,
quando per pace non s'intenda quella «mentalità neghittosa del cristiano
che non vuole fastidi, non vuole occuparsi del bene altrui, non vuole apparire zelante»
(e lo zelo, come si sa, morde, «divora»), com'ebbe a dire l'anno passato
Paolo VI in un suo bel discorso in San Pietro (eh, sì: io li leggo tutti,
i discorsi del Papa... magari per poi rifletterci sopra a lungo, come ho fatto, voi
m'intendete, l'aprile scorso) e l'ira sia di quella che già dicevo o facevo
dire, nella mia «lettera», da Pio XI, che si cantava un tempo (cari ricordi
del mio coro di Cornacchiaia!) a Compieta: Irascimini et nolite peccare, e
che Dante fa proclamare dall'angelo nel girone appunto degl'iracondi: Beati pacifici
che son sanz'ira mala: segno che c'è, per l'appunto, anche un'ira bona e lo
aveva letto nel suo maestro san Tommaso (non per anche cacciato di nido da Teilhard
de Chardin): Ira non semper est mala... Haec est ira bona, quae dicitur ira per
zelum... Un gesuita dottore e santo quale Roberto Bellarmino difende e loda,
appunto, l'ira di Dante; e senza ricordare (lo ha fatto, suscitando tant'ira, il
cardinal Bacci) santa Caterina da Siena e tant'altri, tutti col «san»
davanti al nome, come san Bernardo, san Tommaso di Canterbury, san Pier Damiani,
io me ne appello a san Francesco di Sales (il patrono e campione di noi gente di
penna), il santo della carità, della soavità, del «cucchiaio
di miele» contro il «barile d'aceto», il quale, raccomandando a
Filotea tutte queste belle cose, nei riguardi di tutti, aggiunge: «Sono però
da eccettuarsi i...» (e vi risparmio l'elenco, che oggi, con l'«apertura»
e col «dialogo», saprebbe perfin troppo di aceto), «i quali vanno
diffamati quanto più si può... poiché è carità
gridare al lupo, sia egli tra le pecore o in qualunque altro luogo». E ripiglia:
«No, cara Filotea, non bisogna, per fuggire il vizio della maldicenza, assecondare,
adulare o fomentare gli altri vizi, ma bisogna dire chiaramente e schiettamente male
del male e biasimare le cose da biasimarsi». Come a dire: miele, sì,
ma non escluso il miele selvatico, quel «mel silvestre» di cui si cibava
san Giovanni Battista, a cui scappavan poi di bocca certe espressioni, come quel
genimina viperarum, «razza di vipere», che se fu il primo (del
Nuovo Testamento), non fu di certo un bell'esempio di «dialogo», alla
stregua di quello d'oggi, e pur tuttavia attraeva, convertiva («egrediebatur
ad eum omnis Iudeae regio... et baptizabantur ab illo»), come non quello d'oggi,
sebbene egli non abolisse il venerdì («Facite fructurn poenitentiae!»)
e non chiudesse, per «aprire», l'Inferno («paleas autem comburet
igni inextinguibili»).
Vero è che io... non son che io, e giustamente me lo ricorda, furente dello
stesso furore delle sinistre marx-comuniste e marx-«cattoliche», il giornale
dei marx-massoni (L'Espresso, 30 aprile) difendendo contro la mia «lettera»
il suo Destinatario: «Forse, più che il presidente del Consiglio liturgico
si intendeva colpire l'arcivescovo di Bologna, e con lui le sue idee innovatrici,
il suo attivismo sperimentale con cui ha anticipato di almeno dieci anni, nella pratica
liturgica e nella stessa organizzazione "democratica" della diocesi, molti
principi che il Concilio avrebbe poi fatto propri. Ma chi voleva colpirlo? Tito Casini?
E può la Chiesa cattolica-apostolica-romana restare interdetta di fronte a
un attacco proveniente da Tito Casini?»
È ridicolo chiederlo (non meno che affermare, come fa a grossi caratteri Le
Monde del 16-17 aprile, che il mio libro «peut mettre en cause l'avenir
de la Réforme liturgique»), pur escludendosi che un arcivescovo, chiunque
sia e qualunque carica ricopra nella Chiesa, possa identificarsi, come e solo il
vescovo di Roma (in quanto papa), con la Chiesa; e se si vuole, con questo, ricordarmi
che io sono un laico, senz'essere, aggiungo io, né un «san» né
un Dante (per quanto mi lusinghi l'acre complimento del medesimo giornalista, che
io sarei, con Papini e Giuliotti, «uno che non misura le parole per eccesso
d'amore verso la Chiesa, un moralista fustigatore nella tradizione di Dante!»)
io non ricorderò, a mia volta, quelle parole di santo già riportate
nella mia lettera» circa le «orecchie dei fedeli» e le «bocche
di certi vescovi», ne tirerò nuovamente fuori il De Ecclesia
e il De Laicis circa il diritto-dovere di questi d'intervenire in ciò
che «concerne il bene della Chiesa»; ma citerò le parole, ad
hoc, di un autore tanto irragionevolmente, se non ipocritamente, acclamato dalla
combutta di cui sopra, quanto ragionevolmente e sinceramente da noi «patiti
del latino»: il Rosmini.