IL PANE SOTTO LA NEVE
XXXI - I RE NELLA STALLA

E dopo i pastori vennero i Magi, dopo l'ignoranza la scienza.
La scienza non può aver che il secondo posto rispetto all'ignoranza, a questa corte di Betlemme dove la destra e la sinistra sono occupate dal somaro e dal bove. L'ignoranza infatti fu chiamata per prima e fu chiamata direttamente. tanto che non ebbe bisogno di fermarsi per via, di domandare a nessuno dove fosse Dio fatto uomo. Claritas Dei circumfulsit illos. la chiarità di Dio avvolse d'improvviso i pastori, e un angelo disse loro tutto ciò ch'era necessario sapessero per arrivare a Gesù: «Troverete un bambino in fasce dentro una greppia». Non avendo oro da prendere né oro da lasciare (era anche povera), l'ignoranza poté andar subito, andò di corsa, festinantes, e vide ciò che aveva creduto.
Per i Magi, invece, dico per la scienza, la cosa è ben diversa. Per essi non un angelo, lume soprannaturale, ma una stella, un lume di questo mondo, un lume come l'intelligenza, che a volte fa e a volte non fa, a volte guida e a volte svia, a volte illumina e a volte, per eccesso, acceca. La scienza non può proceder di corsa: bisogna che studi passo per passo, che s'arresti, che chieda. I Magi, infatti, giunti che furono a Gerusalemme, si arrestarono e chiesero.
«Dov'è il Re dei Giudei or ora nato?»
Eran re e domandaron di Gesù in quanto re e ne domandarono a un re. Sbagliarono, cosa che alla scienza suole accadere - quel discorso mise Erode in sospetto e fu a Rachele causa di pianto, di un pianto che non volle esser confortato e si sentì fino a Rama... La scienza, servita dalla potenza, venne in aiuto alla scienza dei potenti: Erode interrogò i dottori, i dottori interrogarono i libri, e i libri dissero ciò che si voleva sapere.
Il secondo errore dei Magi, o vuoi della scienza, fu di rispondere a Erode quand'era apparsa loro la stella, e il terzo fu di credere alle sue parole di volpe: «Quando lo avrete trovato, fatemelo sapere ché anch'io voglio andare a adorarlo». Se Dio non avesse mutato il loro proposito, Erode avrebbe - povera scienza! - ucciso Gesù.
Ed eccoli finalmente a Betlemme, eccoli alla fine del viaggio... Ebbene, dov'è andata la scienza? dov'è andato il ragionamento? Perché quest'uomini non commetton qui un altro errore e il più grosso, quello di non riconoscer Gesù?
Son re, sono venuti a adorare un re, e la stella si ferma, come a dire è qui, sopra una stalla. I pastori almeno erano stati avvertiti, «un bambino in fasce dentro una greppia». I re, al contrario, non sapevano che di un re, i re pensavano a una reggia, e avevan preso dei regali che mal si accomodavano in una stalla. Tuttavia entrano, e non si meraviglian neppure allorché veggono da che corte è circondato l'infante, allorché conoscono i suoi genitori, allorché scorgono i calli nelle mani del padre, i rammendi negli abiti della madre, allorché imparano per che motivo essi sian venuti a Betlemme, si sian ridotti in quel luogo. I saggi, i ricchi, i potenti re Magi non si meraviglian di tutto questo, ma s'inchinano, sulla paglia, fra lo stabbio, e adorano, re e Dio, Gesù.
Lo adoran per sé, per i popoli di cui son pastori, per la scienza di cui son maestri... È la scienza gentile, la scienza delle nazioni, la scienza umana, che accetta e onora la stoltezza della stalla, primo passo per giungere alla stoltezza della croce.
Il pensiero della croce - che sarà adorata dai gentili, inalberata a vessillo dai re delle nazioni quando ancora il popolo eletto seguiterà a considerarla uno scandalo - non entra a caso in questa festa della manifestazione divina che segue così da vicino la festa della Circoncisione, cioè della prima ferita, del primo sangue. Già nell'introito la croce sfolgora, scettro, in mano al regio Fanciullo - come nell'introito di Natale gli gravava la spalla -: Ecce advenit Dominator Dominus, et regnum in manu eius, et potestas et imperium: «Ecco che è venuto il supremo Signore, e ha in mano il regno, la potenza e l'impero ». La croce è presente nel vangelo. È nella domanda dei Magi a Erode: «Dov'è il Re dei Giudei or ora nato? » Il Re dei Giudei, noi lo sappiamo, non è che in croce. Gesù non si è mai chiamato così; nessuno ha mai chiamato Gesù così, e i Giudei hanno gridato all'offesa perché Pilato, il gentile, ha scritto di Gesù in quella maniera... La croce è nei doni che i Magi presentano al Fanciullo, è specialmente nella mirra, che dovrà servire, come l'unguento di Maria, alla sua sepoltura... Oro, incenso, mirra. Dopo averli nominati almeno tre volte - nell'epistola, nel graduale, nel vangelo -, il sacerdote si scusa, nelle orazioni segrete, di non fare a Dio tali doni, di non offrirgli che un po' di pane e un po' di vino; ma pensando a quel che diverranno tra poco quel po' di pane e quel po' di vino, «ecco», gli dice, «l'oro, l'incenso, la mirra che la Chiesa ti offre: Colui stesso che in tali doni è raffigurato. immolato e consunto. Gesù Cristo tuo Figlio»: ... non iam aurum, thus et myrra profertur, sed quod eisdem muneribus declaratur, immolatur et sumitur, Iesus Christus Filius tuus Dominus noster... Così la Chiesa stabilisce, con la sua autorità di maestra, il senso della triplice offerta fatta dai Magi a Gesù, e così il pensiero della croce, del sangue, della morte piglia sempre più campo in questa festa dei re.
La quale non per ciò cessa d'esser festa o lo è meno, dacché la croce non è più croce ma regno, il sangue non è più vigor che si perde ma bevanda che inebria, e la morte - il prefazio lo spiega - non è che stratagemma di vita. Il prefazio lo afferma: ... quia cum Unigenitus tuus in substantia nostrae mortalitatis apparuit, nova nos immortalitatis suae luce reparavit: «Dacché il tuo Figlio si mostrò nella sostanza della nostra mortalità, con la luce della sua immortalità ci rifece ». Ed è nel mezzo di questa messa - tra il vangelo e il Credo - che il sacerdote annunzia al popolo la solennità della Pasqua, «la gioia», com'egli canta, «della Risurrezione »: Noveritis, fratres carissimi, quod, annuente Dei misericordia, sicut de Nativitate Domini nostri Iesu Christi gavisi sumus, ita et de Resurrectione eiusdem Salvatoris nostri gaudium vobis annuntiamus.
Questo giorno, nel quale ogni bambino, per i doni che riceve, e che «misteriosamente» riceve, si trova come elevato a raffigurare Gesù, è pieno di miracoli che si risolvono in trasformazioni, elevazioni, come il pensiero della morte, il dono amaro della mirra, si trasforma innalzandosi nel canto che proclama la Pasqua, sì trasforma addolcendosi nel frutto che perpetua la vita. Tribus miraculis ornatum dieni sanctum colimus: «Di tre miracoli adorno», canta a vespro la Chiesa, «noi onoriamo questo dì santo». E li enumera: Hodie stella Magos duxit ad praesepium: «Oggi una stella, condusse i Magi al presepio». Più diffusamente spiega questo miracolo l'inno, meravigliando come un lume abbia potuto guidare al Lume (una stella al Sole), meravigliando come il Signore dell'universo abbia potuto gradir dei doni:

Ibant Magi, quam viderant
Stellam sequentes praeviam:
Lumen requirunt lumine,
Deum fatentur munere.

Continua l'antifona: Hodie vinum ex aqua factum est ad nuptias: «Oggi, alle nozze, l'acqua si mutò in vino». E l'inno:

Novum genus potentiae,
Aquae rubescunt hydriae,
Vinunique iussa fundere,
Mutavit unda originem.

Continua l'antifona: Hodie in Iordane a Iohanne Christus baptizari voluit: «Oggi nel Giordano Cristo volle che Giovanni lo battezzasse»: e questa trasformazione non è elevazione. Cristo si abbassa, non si eleva, facendosi battezzare, e battezzar da Giovanni, facendosi cioè lavare, da un uomo, per i peccati fatti dall'uomo. Perchè questo? L'antifona lo dice: ut salvaret nos: «per saIvarci». E lo dice anche l'inno:

Lavacra puri gurgitis
Coelestis Agnus attigit:
Peccata quae non detulit
Nos abluendo sustúlit.

«Tergendo da sé peccati che non aveva commesso, ne liberò noi». (Così la neve, umiliandosi, risolvendosi in acqua, lava la terra dalle contaminazioni che la terra le ha dato; non però abbassandosi si disonora, quand'anzi col risolversi in acqua, e solo col risolversi in acqua, ritorna in cielo, ritorna al suo stato, alla sua gloria, alla sua purezza, alla sua intaminatezza di neve). È l'ultima delle epifanie che ricorda e onora in questo giorno la Chiesa, né, per essere un'epifania di umiltà, è meno gloriosa dell'altre. Soltanto, per intenderlo, la scienza umana non soccorre: occorre la scienza della croce, la scienza nuova di cui parla oggi il postcommunio, quae solenmi celebramus officio, purificatae mentis intelligentia consequamur: la scienza di questi Magi, compagni dell'asino e del bove, la scienza di questi gentili, inginocchiati fra il concio, la scienza di questi re, curvi in una stalla.

Testo tratto da: TITO CASINI, Il Pane sotto la neve, Firenze: LEF, 1935/2, pp. 197-204.


precedente

indice de "Il pane sotto la neve"

home

prossima